DI GENNARO CAROTENUTO
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Di nuovo tanto rumore per nulla nell’ennesima giornata decisiva in Venezuela? È stato un fallimento o una prova generale? Intorno all’autoproclamato Juan Guaidó è come se si svolgessero da mesi dei ripetuti “stress test”, dove quello che non si vede è ben maggiore di quello che è visibile in superficie. Se così non fosse, a cento giorni di distanza dalla giocata, vorrebbe dire che davvero l’opposizione non abbia la forza né politica né militare per rovesciare il governo di Nicolás Maduro.
Quello di martedì 30 aprile è stato uno stress test sull’esercito per vedere, come già a Cúcuta a fine febbraio, se c’è un punto d’inflessione oltre il quale un numero decisivo di esponenti degli stati maggiori possano rivoltarsi, giocando con una guerra civile dietro l’angolo. Ma è stato stress test anche per la società civile. Come per i blackout di marzo, sono serviti a misurare chi scende in piazza, chi tra i leader dell’opposizione è coerente e accetta l’attuale leadership, da ieri tornata ufficialmente a Leopoldo López, al quale Guaidó scaldava il posto. Il golpetto di ieri è piaciuto alla parte destra dell’opposizione, che da sempre predica (e spesso pratica) che l’unica soluzione alla crisi sia la violenza. Anche il déjà vu degli scontri di piazza da parte di bande di violenti organizzati, come già nel 2014 e 2017 (da non confondere con la legittima opposizione civile), sono stati limitati e si sono andati esaurendo al calar della notte. Ancora una volta nel 2019 – per fortuna – la società civile, chavista e anti-chavista, polarizzata quanto si vuole, si è tenuta lontana dalla violenza.
Ogni attore ha la sua agenda. Ma di agende in Venezuela sembrano essercene troppe in queste ore, anche senza guardare agli stakeholders internazionali. USA, Colombia e Brasile da una parte, Cuba, Russia e Cina dall’altra. L’Europa resta asino in mezzo ai suoni, anche senza arrivare allo scorno di Tajani, che twitta plaudendo al golpe. Manifesta così di considerare che anche un Pinochet venezuelano, oltre a Mussolini, farebbe cose buone. L’UE si muove per lo più su un discorso pop, anti-chavista a prescindere, che in nulla incide, e dal quale non vuole o non sa recedere. Il solo Ministro degli esteri spagnolo Borrell, oltre forse a Federica Mogherini, ha capito che l’unica soluzione non drammatica, non violenta in Venezuela, l’aveva sfiorata Zapatero col tavolo fatto inopinatamente saltare ad accordo fatto, prima delle presidenziali di maggio 2018. Tanto c’è Maduro al quale si possono dare tutte le colpe.
Dunque il mondo ha guardato per 24 ore al Venezuela per la diserzione di una trentina di soldati di grado medio con alla testa un solo generale di peso, Manuel Ricardo Figueroa, subito rimosso, e per liberare Leopoldo López dai domiciliari? Troppo poco per essere vero. L’incidente non è così minore come una volta archiviato lo vogliono far passare. Il senatore Marco Rubio, già protagonista del disastro di febbraio a Cúcuta, per giorni ha chiamato le Forze Armate Nazionali Bolivariane, FANB, al golpe. Lo ha fatto con un discorso a metà strada tra l’invito, la minaccia e la promessa. Invito a restaurare la democrazia, minaccia di far passare l’esercito a essere parte del problema in caso di intervento esterno, promessa di prebende infinite e amnistia tombale in caso di golpe. Il problema è che anche minacce e promesse non possono ripetersi all’infinito. A Cúcuta, le poche decine di militari che disertarono, lamentarono che Marco Rubio in persona avesse promesso loro 20.000 dollari a testa. Ovviamente mai visti.
Insomma, ancora una volta, chi da destra e da sinistra pensa che gli USA siano onnipotenti, non ha visto confermato il proprio pregiudizio. Gli USA sono un attore importante ma non sono onnipotenti. Cose simili a quelle di Rubio le hanno dette il miles gloriosus Pompeo, sempre con la mano alla pistola, John Bolton ed Elliott Abrams, il più sinistro dei personaggi coinvolti, conclamato Terrorista di Stato, massacratore delle guerre in Centroamerica, che ha sostenuto che i presunti militari golpisti avrebbero a un certo punto spento i cellulari. Chissà se e in che misura dice il vero. A loro di certo la soluzione militare piace e continueranno a esperire ogni tentativo per spezzare la lealtà delle FANB. Piace il golpe, ma non sanno più cosa tentare. Se martedì mattina da Rubio a Tajani, da Almagro a… Gianni Riotta, tutti suonavano marcette militari, presumibilmente convinti che fosse la volta buona, nel pomeriggio Bolton e Abrams, che almeno sanno di cosa parlano, hanno cominciato a parlare di situazione confusa e a lavarsene le mani.
Si ripete così la stessa situazione di Cúcuta, altro stress test, quando si scomodò il vice del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il generale Hamilton Mourão, per chiarire oltre ogni ragionevole dubbio che il Brasile non accetta interventi esterni. Se la FANB si libera della sua lettera B (bolivariana) da sola, per il Brasile va bene, altrimenti non saranno né statunitensi né colombiani a intervenire in quello che Brasilia considera il proprio spazio strategico amazzonico. Diverso è solo il caso dei 5000 mercenari che Blackwater avrebbe reclutato, pagati da prominenti multimilionari venezuelani, sui quali molto ha scritto la Reuters. Quelli potrebbero infiltrarsi in mille modi e commettere le più odiose delle azioni terroristiche, sabotaggi, assassinii. Se c’è qualche liberaldemocratico che, pur di liberarsi di Chávez, fa il tifo perfino per i tagliagole che già agirono in Iraq, alzo le mani.
Dunque possiamo dire che alla base La Carlota si sperava in qualcosa di più grosso che non è andato. Che i disertori avessero alla testa il capo del SEBIN (i servizi venezuelani) Manuel Ricardo Figueroa è un fatto molto grave. Il suo ruolo fa pensare che così isolato da tentare un’azione suicida, concordata solo con i politici, è difficile che fosse. Oppure la partita è davvero sul terreno militare e si è trattato di un 29 giugno venezuelano? Il 29 giugno 1973, il tanquetazo fu una vera prova generale dell’11 settembre in Cile, ma poi il golpe fu fermato, per tornare in tutta la sua ignominia in primavera.
L’alternativa è trovarci di fronte a una manovra personale più che politica: la romantica liberazione di Leopoldo dai suoi (comodi) arresti domiciliari. Per quale motivo? Per mettersi alla testa della “Operazione libertà” fino al Palazzo? O l’unico obiettivo di tutto l’ambaradan era permettergli di fuggire dagli arresti domiciliari e rifugiarsi con Lilian Tintori e la figlia in un’ambasciata? Oppure López ha voluto consolidare la declinante, sempre più insignificante leadership di Guaidó, dimostrando contemporaneamente la subalternità di Guaidó a López stesso? Il rifugiarsi nell’ambasciata era programmato o è stato causato dall’evoluzione negativa degli eventi di ieri?
Ricordo che Leopoldo López durante il fallito colpo di stato del 2002, condusse l’assalto all’Ambasciata di Cuba. Da allora dosa il ruolo di oppositore tra uso della violenza e politica, contando sulla connivenza dei media che continuano a rappresentarlo come una specie di John Kennedy caraibico e di perseguitato politico. Pensa di essere più utile dall’estero che ai domiciliari? La storia latinoamericana è piena di esiliati che pensavano di tornare rapidamente, e possibilmente in trionfo, che invece ci sono invecchiati in esilio. E Guaidó? Adesso chiama a uno sciopero generale, ma scaglionato, tutt’altro che la spallata finale a un regime descritto nuovamente sul predellino dell’aereo che deve portarlo in esilio. Può Maduro – che piaccia o no è lui che governa – fare ancora finta di niente o si caricherà del costo politico di arrestarlo, con la grande stampa internazionale pronta a considerare Guaidó un martire? In vent’anni di rivoluzione bolivariana, con una buona dozzina di crisi maggiori, abbiamo visto che sul breve termine l’opposizione ha grande capacità di convocazione, ma col passare delle settimane sono i chavisti quelli che restano in piazza a difendere quello che continuano a considerare il governo popolare e il mandato di quello che è stato il più popolare e amato leader latinoamericano degli ultimi decenni. Anche questa volta i chavisti stanno dimostrando compattezza, scendendo in piazza in numeri almeno comparabili a quelli dell’opposizione. Il golpetto di Caracas lascia più domande che risposte, ma che i chavisti esistano e continuino e continueranno a resistere è una delle poche certezze che questi tre mesi ci hanno donato.
Gennaro Carotenuto
Fonte: www.gennarocarotenuto.it
Link: https://www.gennarocarotenuto.it/28472-il-golpetto-di-juan-guaido-un-altro-stress-test-fallito-per-il-venezuela/
2.05.2019