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La Redazione

 

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Il caporalato esiste a Bologna? Sì. E il padrone si chiama Poste Italiane

Il Movimento Lottiamo Insieme diffonde la lettera a cuore aperto di un rider della posta.
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A cura di Redazione CDC
Il 3 Ottobre 2024
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Articolo Postino disperato AI (redux) (1)

Roma, 2 ottobre 2024

 

Il servizio postale costituisce un servizio pubblico e, in quanto tale, ogni anno viene finanziato pubblicamente con 262,4 milioni di euro. Non è accettabile che il denaro dei cittadini venga utilizzato per generare precarietà lavorativa e incertezze nel vissuto di migliaia di lavoratrici e lavoratori. Soprattutto giovani. Per non parlare dei disagi all’utenza causati dal continuo ricambio dei portalettere. Con l’obiettivo di informare e sensibilizzare la cittadinanza su quanto accade sistematicamente nella filiera del recapito di Poste Italiane, il Movimento Lottiamo Insieme intende dare visibilità alla lettera di Gabriele, uno dei tantissimi rider della posta, a cui va la nostra più sincera solidarietà.

 

 

Lettera di un postino precario a Bologna

 

Il caporalato esiste a Bologna? Sì. E il padrone si chiama Poste Italiane. Già! Il primo datore di lavoro in Italia, certificato “Top Employer” per il quinto anno consecutivo «grazie alle sue politiche di risorse umane e, in particolar modo, all’impegno rivolto al benessere dei dipendenti e delle loro famiglie», si legge in un comunicato aziendale. La realtà però è ben diversa, almeno per la parte più debole dei lavoratori. Quegli oltre 10 mila precari assunti ogni anno con contratti di pochi mesi, sottoposti a condizioni “extra-contrattuali” vergognose. Ma andiamo con ordine.

 

Dal primo febbraio 2024 sono stato assunto da Poste Italiane per tre mesi. Ho firmato un contratto di 36 ore settimanali, per 1.300 euro circa più buoni pasto. Non male, penserete voi. Ho lavorato un mese a Bologna, poi mi sono visto costretto a dare le dimissioni. E come me altre centinaia di lavoratrici e lavoratori in tutta Italia. In 35 anni non ho mai sperimentato una condizione lavorativa così vergognosa.

 

È giusto che si sappia: il postino precario lavora sotto ricatto, costretto a fare ore e ore di straordinari non pagati, a subire mobbing e pressioni psicologiche, a mettere a rischio la sicurezza propria e degli altri. Dopo soli tre giorni di affiancamento viene chiesto ai neoassunti di lavorare come se fossero postini esperti. Il che è ovviamente impossibile, perché le procedure da ricordare sono tante, la posta va lavorata prima e dopo la consegna (in gergo “gita”), la posta ordinaria va sommata a quella prioritaria e a quella a firma per cui si esce carichi come muli.

 

Le zone di consegna sono nuove, perciò, serve tempo per imparare i percorsi, inoltre spesso si viene assegnati dopo pochi giorni a zone diverse perché i precari fanno anche da tappabuchi per colmare esigenze di organico. I colleghi a tempo indeterminato, sottoposti a ben altri ritmi e condizioni lavorative, scommettono su chi “molla prima”. I capisquadra e i responsabili esercitano sui precari una certa pressione con minacce più o meno velate, del tipo «qua se non si migliora con le consegne non ti rinnovano», oppure «non guardare l’orario, vai avanti», o ancora «non vi posso autorizzare gli straordinari, la posta è quella e va consegnata. È normale rientrare più tardi all’inizio».

 

Tutto ciò significa lavorare almeno dieci ore al giorno in media, ma si arriva anche a dodici, sapendo che te ne verranno pagate solo sette. Significa essere sempre sotto pressione, di corsa, rischiare di farsi e fare male per consegnare di più e più in fretta. Significa essere costretti a compiere infrazioni e gesti poco sicuri. Significa saltare la pausa pranzo (che sarebbe di 15 minuti ma risulta impossibile farla). Significa offrire anche un servizio più scadente, perché ogni cosa diventa potenzialmente una perdita di tempo, un ostacolo. In pratica, non c’è alcuna corrispondenza tra quello che ci viene spiegato nei tre giorni iniziali di formazione sulla sicurezza e quanto, di fatto, ci viene poi richiesto. Un vero paradosso!

 

Nel solo mese di febbraio cinque neoassunti, me compreso, hanno dato le dimissioni dopo poche settimane. Il turnover è pazzesco, i ritmi sempre altissimi, le condizioni assurde. La cosa più inquietante di tutte è la normalizzazione di questa condizione indecente di sfruttamento e umiliazione continua.

 

Tutti nel centro promuovevano la narrazione del lavoro come sacrificio, veicolando una morale iper-lavorista funzionale alla perpetuazione del modello di sfruttamento stesso. «È normale all’inizio, poi ti abitui», una delle frasi motivazionali più ricorrenti nell’ambiente. Intanto «tieni botta, mi raccomando» e «resisti, poi andrà peggio perché andrà peggio, ma tu resisti», mi dicevano alcuni colleghi per confortarmi. E chi legittimamente si sottrae a queste dinamiche è un debole, uno che molla, un mantenuto.

 

I postini precari non hanno ovviamente alcun potere a disposizione, c’è un esercito di riserva pronto a sostituire chi non si adegua. Chi resta qui spera di lavorare almeno sei mesi per accedere alla graduatoria per una futura possibile assunzione a tempo indeterminato. Ma Poste può prorogare fino a dodici mesi, poi la stabilizzazione è tutt’altro che scontata.

 

In effetti, le opzioni per i precari sono due: ci si dimette ritenendo le condizioni inaccettabili, o si continua a testa bassa ingoiando tutto, nella speranza di essere riconfermati e un giorno assunti a tempo indeterminato. Così la macchina va avanti, nel silenzio generale, e nell’ignoranza dell’opinione pubblica che non sa cosa si cela dietro una cartolina pubblicitaria, un pacco o un quotidiano messo in buchetta.

 

Io stesso, determinato a non restare silente, sono rimasto senza energie e senza speranze in fretta. Il sindacato è poco presente e in molti casi connivente, attivare un percorso legale è lungo e costoso, dimettersi prima del tempo o fare meno lavoro fa ricadere le conseguenze su altri postini precari, quasi nessuno si lamenta o protesta per cui diventa molto difficile sottrarsi al meccanismo.

 

Ma la domanda di fondo è: per quale motivo un’azienda pubblica che dovrebbe svolgere un servizio pubblico opera come una multinazionale?

 

 

Il processo di privatizzazione va avanti da diversi anni e si presta ad un’accelerata. Con l’attuale governo il controllo pubblico si ridurrà al 51 per cento. Poste Italiane è una S.p.A. quotata in borsa, deve remunerare il capitale e spremere i dipendenti mica rispettare il diritto del lavoro e fornire servizi di qualità alla cittadinanza.

 

D’altra parte, i colossi di e-commerce e logistica dettano il modello in quanto clienti di Poste. In questo scenario sconcertante, è una vera fortuna che la scorsa primavera sia nato a Roma il Movimento Lottiamo Insieme delle lavoratrici e dei lavoratori precari di Poste Italiane, per dare voce e speranza a chi vive o subisce tali situazioni.

Carmine Pascale 

Movimento Lottiamo Insieme – [email protected]

(Foto di Movimento Lottiamo Insieme)

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