I “coriandoli” dell’elaboratore…

Ovvero “lo strano caso del delfino con le branchie”

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Avevo intitolato la prima stesura di questo mio divertissement “Il mestiere di tradurre”, volendo rendere omaggio, sia pure in maniera irriverente e scanzonata a Cesare Pavese, il mio autore italiano preferito, rifacendomi (anche con un po’ di maleducazione e presunzione, soprattutto) al suo “Il mestiere di vivere”. Mi piaceva il suono e, peraltro, il buon Cesare, per chi non lo sapesse, oltre che grande scrittore e poeta, è stato anche un grande traduttore dall’inglese: si deve a lui la ponderosa traduzione di quel ponderoso tomo che è “Moby Dick”, oltre che di altri capolavori della letteratura americana del primo ‘900. Continuando a dissacrare potrei aggiungere anche un riferimento ai meravigliosi versi di “Lavorare stanca”, per me chiaro riferimento al mestiere del tradurre…, dai, passatemi anche questa senza lapidarmi, tanto poi ci penseranno quei colleghi traduttori che arriveranno alla fine di questo mio divertissement (seppure lo leggeranno), ed è per questo che il sottotitolo originale riportava un’espressione tipica anglo-sassone, “to open a can of worms” che può fare da filo conduttore di questi miei pensieri sciolti: non si traduce, o non si dovrebbe tradurre letteralmente come “Aprire una scatola di vermi”, in italiano non esiste questa espressione, noi utilizziamo “scatenare un vespaio”. E questo è un primo accenno alla differenza tra “tradurre” e “localizzare”.

Non sono nato traduttore, ho studiato inglese alle medie e al ginnasio, in tutto 4 anni, ed ho letto il mio primo libro in inglese a 20, però ho iniziato bene, si trattava di “1984”, un evidente presagio…

Sono diventato traduttore per caso, su richiesta di amici di un forum di oplofili, della traduzione di un articolo, abbastanza crudo in verità, sulla balistica terminale del proiettile calibro .38, seguito da un rapporto del Federal Bureau of Investigation su temi analoghi…, che ci volete fare, nessuno è perfetto e, come sappiamo “la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”.

Saltando da un forum oplofilo ad un altro cominciai a scoprire altri temi e, soprattutto, scoprii Maurizio Blondet, che a quel tempo dirigeva EffeDiEffe, la rivista letteraria della casa editrice omonima, fondata dal compianto Fabio De Fina e, occasionalmente, cominciai a candidarmi e a proporre traduzioni di articoli che ritenevo valesse la pena di pubblicare, ovviamente “pro bono” (la vanità, che ci volete fare, decisamente il mio peccato preferito). Era cominciato quel “percorso di avvicinamento” che, alla fine, mi ha fatto approdare a ComeDonChisciotte…, però forse sto cominciando a deviare dall’argomento, scusatemi, gli anni passano anche per me.

Insomma, per farla breve, la mia miglior metà (espressione che scoprii su un forum americano moltissimi anni fa, my best half), al termine di una parentesi di 5 anni che ci aveva visto improvvisarci “traders” sul mercato azionario ed obbligazionario, in quel famoso 2008 in cui il gioco era diventato troppo duro per due dilettanti, essendo rimasti senza molto da fare e con guadagni ridotti, mi disse “Scusa, ma perché non cominci a farlo per soldi?” (il traduttore, che avete capito?) e, con il suo solito approccio pronto e deciso, scovò molto rapidamente un paio di siti su cui si incontravano la domanda e l’offerta di traduzioni.

La mia obiezione che io ero soltanto un dilettante, un mestierante, e che su quei siti c’erano fior di laureati in traduzione, a fronte dei quali potevo (pensavo) soltanto “far botte coi piedi” venne impietosamente respinta: “Intanto prova, poi ne riparliamo”. Lei era fatta così…, guai a protestare… e, come nella maggior parte dei casi, ebbe ragione anche quella volta. Iniziai sommessamente e lei, che non amava sentirsi messa in disparte e che l’inglese americano lo capiva molto meglio di me (aveva vissuto più di un anno negli States), molto rapidamente divenne prima il mio revisore e poi il mio alter-ego. Tutte le coppie mediamente litigano ma noi, fino a quel momento, ci eravamo tenuti sotto la media…, fu il lavoro di revisione incrociata che facevamo insieme a farci precipitare in discussioni accesissime che, però, alzarono rapidamente il nostro livello qualitativo. Ci eravamo incontrati lavorando nella stessa azienda, ne eravamo usciti ed avevamo avviato la nostra dittarella (durata poco), poi eravamo stati “traders” ed infine diventammo traduttori, quasi fino al suo ultimo mese di vita, ed al cento diciassettesimo articolo che tradusse per ComeDonChisciotte.

E va bene, sono ormai oltre 600 parole che giro intorno all’argomento, non si può certo dire che sono entrato “in medias res”.

Questi è Vincenzo Monti, cavaliero / gran traduttor dé traduttor d’Omero

(questa è una vera perfidia del Foscolo),

ma è soprattutto “Traduttore traditore” l’espressione che, a volte a torto ma molte altre a ragione, descrive il mestiere di tradurre e che mi fa rimpiangere di non avere, negli anni, raccolto tutte le “perle” che ho trovato leggendo opere tradotte, in quello che avrei dovuto intitolare “Il Bestiario del Traduttore” e, vi assicuro, sono veramente tante, come la prima che notai molti anni fa, nel magnifico “Caccia a Ottobre Rosso” di Tom Clancy:

“… i coriandoli dell’elaboratore”!!!

Ovviamente stiamo parlando dei “chips”, cioè i circuiti integrati. Vero è che nel 1986 l’informatica ed i computer non erano ancora pane e companatico per tutti, e che Internet non era ancora alla portata di tutti e che io lavoravo già da anni nell’informatica e nell’elettronica ma, diamine, farsi venire un dubbio no? Magari anche provare a documentarsi.

E, parlando di dubitare, devo purtroppo chiamare in causa una grandissima traduttrice italiana, forse la più famosa, Fernanda Pivano, tra l’altro proprio allieva di Cesare Pavese, che le trasmise il suo amore per la letteratura americana e la incoraggiò a dedicarsi al mestiere di tradurre. È a lei che dobbiamo le traduzioni di grandissime opere…, eppure…, eppure anche lei ha il suo scheletro nell’armadio, i suoi “coriandoli”.

Nella traduzione de “Il vecchio e il mare”, il bellissimo racconto breve (checché ne pensasse quel grandissimo giornalista e corrispondente, nonché ufficiale di marina, viaggiatore e molto altro che fu Vittorio Giovanni Rossi che, peraltro, se la prendeva anche con “Moby Dick”, ma magari questo ve lo racconto un’altra volta) per il quale quel grande sbronzone (nonché mandrillo) di Ernest Hemingway ottenne il Premio Pulitzer, ad un certo punto il vecchio Santiago viene trainato da questo enorme marlin che lui ha ferrato (attenzione! marlin e pescepada sono simili ma non sono affatto lo stesso pesce). Ha esaurito le provviste e deve pescare qualcosa per mangiare e alla lenza che ha gettato abbocca un… delfino!

“… un pesce d’oro brunito con le sue macchie viola… col lungo corpo piatto…  lo sventrò con la mano destra, raschiandolo per pulirlo e sgombrandogli le branchie.

Scusate, a parte l’ovvietà che un delfino non è un pesce e che non lo tirate a bordo con una mano, ma a voi sembra la descrizione di un delfino? Con le branchie? Eppure, nel testo originale, si parla proprio di “dolphin” ma…, se cerchiamo dolphin e meglio ancora dolphinfish, troviamo un pesce, la nostra lampuga (il link punta all’inglese), o corifena, o capone (in siciliano). E, se volete una conferma visiva, andate a guardare le illustrazioni nella pregevole edizione Mondadori-Medusa del 1962, è proprio la nostra ottima lampuga. E allora? Hemingway ha usato il termine comune dalle sue parti, ma la traduttrice, per quanto grandissima, non ha verificato.

E va bene, sono ormai più di 1.000 parole che sto facendo quello che la mia miglior metà chiamava “l’acciaccapidocchi”, dove voglio arrivare?

Voglio arrivare al mestiere del tradurre, alla responsabilità del traduttore, mestiere spesso non compreso e sottovalutato, sia dai committenti che, altrettanto spesso, dagli stessi traduttori, che forse non hanno chiara l’importanza e la responsabilità sottese a questo mestiere, sì, anche le responsabilità, specialmente in questa nostra epoca moderna di IA e di, nel nostro campo, Computer Assisted Translation (CAT) tools. Che cosa è un CAT tool?

È un programma per computer che memorizza le stringhe di testo tradotte creando una memoria di traduzione, una TM, e i vocaboli tradotti, creando una base terminologica, una TB. Quando si traduce un testo successivo sullo stesso argomento, il programma lo confronta con la TM e la TB memorizzate e, in base alla percentuale di somiglianza (concordanza) impostata, tira fuori una o più stringhe tradotte simili.

Inizialmente questi programmi erano nati per velocizzare la stesura ed aumentare la precisione, nella stessa lingua, di manuali simili; p.es. il manuale di una 500 sarà sicuramente molto simile a quello di una 600, la terminologia comune ai motori è spesso e volentieri identica, le operazioni di manutenzione, seppure su motori o altre parti differenti, avranno comunque una maggiore o minore ripetitività. Conseguentemente sarà molto più facile, con le opportune modifiche e adattamenti, scrivere un manuale in maniera più rapida ed accurata, cioè più economica e, teoricamente, con minore rischio di errori…, ed è qui che cominciano i guai.

Tutto quello che riguarda i computer si basa su un banalissimo principio, che io ho battezzato con l’acronimo MIMO!, cioè

“Monnezza In, Monnezza Out!”

Se nel programma inseriamo un errore, un’inesattezza, quell’errore o inesattezza ritorneranno finché non ce ne accorgeremo e non lo avremo corretto e, se non lo correggiamo a ritroso, resterà nei precedenti manuali . Aggiungeteci il fatto che per le traduzioni (almeno per quelle tecniche) si utilizzano ormai soltanto CAT tools e, voilà, qualsiasi errore (Monnezza In) si replicherà a volontà (Monnezza Out). Ancor peggio, dato che ormai è abbastanza comune trasferire o anche acquistare TM e TB per argomento, l’errore non corretto va letteralmente in giro per il mondo, diventa “una bugia ripetuta milioni di volte” che viene presa per una verità. Volete un esempio? Eccovelo.

Non so quanti di voi seguano quella brillante trasmissione che è “Affari a quattro ruote” e quanti di voi si siano mai domandati che cos’è quel fantomatico “cilindro maestro” di cui si sente praticamente sempre quando si parla dell’impianto frenante. Il testo originale è “main cylinder” che, evidentemente, un traduttore/doppiatore frettoloso e/o impreparato e/o ignorante in materia di meccanica automobilistica, traduce letteralmente senza sapere di cosa si tratti. È la banalissima “pompa dei freni”, almeno stando alla definizione che ne dà il Dizionario Tecnico Hoepli Marolli (EN-IT/IT-EN).

Un ricordo personale: tantissimi anni fa, per un breve periodo, assieme alla mia miglior metà ci iscrivemmo a Psicologia per vedere di prenderci il famoso “pezzo di carta” (non riuscimmo a causa di una storia kafkiana che solo in parte potrebbe collegarsi a questo pezzo, ma di questo forse un’altra volta). In breve, preparammo, da lavoratori improvvisatisi studenti, Neurofisiologia come primo esame; studiammo come pazzi, frequentammo le lezioni e convincemmo il Prof. a farci anticipare l’esame dato che dovevamo comunque lavorare. Era cliente dell’azienda in cui lavoravamo e ci accontentò, facendoci andare in clinica da lui. La prima domanda, alla mia miglior metà (che, unica nella mia vita e nella Storia, riuscì infine a farmi studiare qualcosa), fu sul “principio del tutto o nulla”; la sua risposta fu esattamente il contrario di quanto potete leggere nel link. Rifà la domanda a me, stessa risposta. Sbarra gli occhi e ci chiede su quale testo abbiamo studiato, glielo diciamo; ghigna, “Non è possibile l’ho tradotto io”. “Prof., pagina tale, paragrafo tale”. Esce e torna col libro in questione, lo apre, legge e sbotta: “Quel bastardo del proto! Non ha corretto le bozze!” Diciamo che non ho motivo per non credergli, in questo caso la colpa era del proto, ma rimane il fatto che un testo importante conteneva un errore concettuale grave.

Da autodidatta non ho alcuna idea di cosa si insegni nei corsi universitari per la laurea in traduzione; non ho idea di come si possa insegnare a tradurre. Posso pensare che una solida conoscenza della lingua straniera voluta sia fondamentale e che, soprattutto, lo sia quella della lingua italiana ma, dopo aver dato ripetizioni ad un paio di nipoti ed aver sentito gli sfondoni dei loro insegnanti di inglese, sia in inglese che in italiano, beh, confesso, mi sono cadute le braccia (d’altronde mi sono cadute le braccia vedendo all’opera un ingegnere della Motorizzazione esaminatore di istruttori di scuola guida, ma anche questa ve la racconto un’altra volta). Ne volete ancora un’altra? Questa è stupenda: discussione linguistica sul principale sito web di traduttori sulla traduzione dell’avverbio “randomly”; viene proposta, da sedicente collega che si fregiava di un Ph.D. dopo il suo nick, “a random” (sic!). Avendo io commentato, fantozzianamente, che era

una cagata mostruosa”,

sono stato “bandito” (e non bannato, accidenti a voi!) per 5 giorni!

In termini di traduzioni “fecali” mi è appena venuta in mente la frase di chiusura di Windows10, “Sto eseguendo l’arresto“…, ma chi l’ha “localizzata” (tradurre adattando alla lingua di destinazione)? A questo punto perché non inserire, come suono di sistema, anche una bella sirena della polizia?

Tutta questa sbrodolata per far capire quale sia la responsabilità del traduttore: è l’equivalente del famoso oracolo della Sibilla: “Ibis, redibis, non morieris in bello” / “Ibis, redibis non, morieris in bello”, oppure anche “Porta patens esto, nulli claudatur honesto” / “Porta patens esto nulli. Claudatur honesto”. Ma in una traduzione non parliamo solo di semplici punti, ancorché importanti.

Ultimamente, facendo la revisione di una traduzione, ho appreso con grande sorpresa che erano state messe sotto sanzioni le autocisterne (tankers) russe…, un dubbio che potesse trattarsi di qualcos’altro, chessò, petroliere?

Qui ci sta a pennello l’immortale “È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo.” Certo, ma è uno sporco lavoro che va fatto in modo pulito…

Provate ad immaginare un errore di traduzione non corretto su uno di quei manualoni che i piloti di aerei si portano in cabina di pilotaggio; non vi vengono i brividi? A noi è capitato di tradurre un manuale di procedure operative di aeroporto, con particolare attenzione allo sghiacciamento delle ali; ci abbiamo lavorato in team con altri quattro colleghi e vi posso assicurare che l’abbiamo preso molto sul serio (spero vi faccia piacere saperlo) e, ciononostante, ci auguriamo che sia stato opportunamente revisionato da personale specificamente preparato.

Purtroppo, come ho detto più sopra, l’inglese che si studia a scuola vale molto poco, una lingua va “vissuta” perché si possa apprenderla, l’ho sperimentato sulla mia pelle al primo corso aziendale a cui partecipai con colleghi inglesi…, credevo di saperlo parlare e capire…, fu un duro colpo alla mia autostima (lasciando perdere quella notte in cui, a Londra, avevamo perso la strada ed avemmo la sfortuna di chiedere informazioni ad un giovane “cockney”…, come non detto…).

Peggio ancora per l’italiano, ormai orfano di quel residuo di un’altra “era [della] logica“ che è il congiuntivo, la forma verbale principe per quanto riguarda la capacità di pensare, la base della “consecutio temporum”. Per quelli che non hanno studiato il buon vecchio Latino, andate a guardare il link per capire quanto sia necessario il corretto uso del congiuntivo, ma solo pochissimi lo usano ancora.

E qui casca l’asino quando si traduce dall’Inglese, che non ha questa forma verbale se non in maniera molto embrionale ed è proprio per questo motivo che la filosofia anglosassone è prettamente di stampo economico. Una filosofia complessa ha bisogno di una lingua complessa, perché il pensiero umano (dell’umano pensante, ovviamente) è complesso, non è un semplice sistema binario On/Off.

Tradurre dall’Inglese in Italiano è spesso sofferenza, perché spesso bisogna interpretare, quando non indovinare domandandosi che cavolo vogliono dire, tanto più che, pur avendo la lingua inglese il maggior numero di vocaboli al mondo, moltissimi vocaboli hanno moltissimi significati diversi, da capire in contesto, e lasciamo perdere le  loro espressioni idiomatiche. Non parliamo poi del percorso inverso, mettere in un linguaggio elementare le complessità (quando non i bizantinismi, certamente) dell’Italiano, specie nel campo legale.

Potrei andare avanti per un pezzo ancora, ma “le cose lunghe diventan serpi” e quindi, proprio per concludere dato che mi accorgo che sto diventando noioso anche per me stesso, andare “a orecchio” può avere conseguenze dolorose, come quello che capitò tanti anni fa ad un giovane “pappagallo” che, su una qualche spiaggia, vedendo una bella figliola anglosassone, se ne uscì con un “Oh, what a beautiful corpse!”… e si presse un sonoro schiaffone dalla predetta, che non si vedeva proprio come “cadavere”.

Quindi, per concludere, “Occhio alla penna!” (che non è quella usata per scrivere) e, se proprio vi sentite coraggiosi e volete “partire in quarta”, lasciate perdere la leva del cambio ed impugnate una spada.

CptHook (IMC)

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