Green Pass e libertà: analisi biopolitica del prezzo dei nostri diritti

Uno strumento eccezionale verso una nuova forma di società, dove il credito sarà dato dalla coincidenza del nostro agire e pensare

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di Lorenzo Maria Pacini, ComeDonChisciotte.org

Nel capitalismo tecno-sanitario della sorveglianza, la pervasività del controllo sociale trova nel Green Pass lo strumento icona della fase transitoria che stiamo vivendo. Delle varie modalità con cui si ottiene la certificazione verde, lasciando un attimo da parte la questione dei sieri e delle guarigioni dall’invisibile agente virale, è interessante osservare il tampone e le sue funzioni. 

La prima è senza dubbio quella di strumento diagnostico circa i contagi da Sars-Cov2, o perlomeno così viene dichiarato all’interno della finzione giuridica che permette la sussistenza della cosiddetta pandemia a livello internazionale, sebbene da più parti sia stata affermata la non validità scientifica dello strumento. Anche prendendo per buona l’efficacia dei tamponi, è chiaro che senza di essi la pandemia finirebbe da un momento all’altro, perché è grazie al calcolo della positività, e non in virtù delle ospedalizzazioni effettive o ancor meglio delle terapie intensive, che viene mantenuta l’emergenza, attribuendole l’aggettivo “sanitaria”. La logica è quella di cerca l’ago nel pagliaio, andando a rilevare non la malattia ma la presenza di un agente virale nel corpo, cosa del tutto normale e facilmente spiegabile persino da uno studente delle scuole secondarie che abbia fatto almeno un paio di lezioni di biologia.

Laddove l’essere umano è considerato non più bios ma semplice zoe, il controllo biopolitico diviene l’ordinaria amministrazione in uno Stato, che assomiglia più ad un’azienda a regime zootecnico, in cui l’istituzione marchia e controlla ogni istante e processo dell’esistenza dei (s)oggetti contenuti nel recinto dei confini laboratoriali. D’altronde, un rizoma ormai evidente della postmodernità è la cancellazione dei confini mescolando vita e morte, dando luogo ad una vita morta, il bios necros, degradando la dignità del corpo animato spiritualmente, in greco bios, a quello della mera materia, la zoe. La vita non è più l’apertura trascendente ma la sussistenza orizzontale, rizomatica, drammaticamente gettata nella finitezza di un qualcosa che non ha speranza né possibilità di andare oltre.

È così che i non-morti diventano i padroni di un nuovo immaginario collettivo assieme ai non-mortali: è il tempo degli zombie, dei cyborg, dell’intelligenza artificiale, di tutte quelle forme ibride o meglio ancora interamente tecniche che simulano la vita ma non la contengono. Ove si è predicato il superamento del riduzionismo ileomorfico di Aristotele, volendo valicare la semplificazione apparente del “movimento” come principio della vita e punto centrale della topografia esistenziale entro le coordinate dimensionali conosciute, si è giunti non ad eccedere bensì a rimpicciolire ancora di più i criteri di riconoscimento della vita, declinandola solo nell’aspetto tecnico, nella zoe, rifiutando ogni altro elemento; si giunge a odiare la vita dal suo principio al suo compimento perché non è considerabile più vita, poiché esce dalla nuova definizione assiomatica. Vita adesso è byte, è dato, è impulso. Niente che sia imprevedibile è concesso. Solo ciò che è controllabile e controllato è accettabile come esistente. 

La vita è stata trasformata in una malattia; il vivere stesso è un virus, specie se considerato sotto la lente dell’ecologismo “green” (cosa ben diversa dall’ecologia) che interpreta l’essere umano come un parassita da estirpare dal pianeta Terra, ma guarda caso anche questo solo a discapito di una certa categoria di persone, lasciando intozza l’élite che dal pulpito predica la sottomissione a regimi di autoannientamento mentre gozzoviglia nelle proprie lussuose comodità. Così facendo, è ovvio che siamo tutti malati o potenziali tali, anche senza saperlo, e la salute diviene appannaggio di una certificazione il cui statuto giuridico non è più dato dall’evidenza medica empiricamente valutabile, ma dall’autorità costituita di una casa farmaceutica, di un ministero governativo, di un codice a barre o QR scaricabile sul telefono.

A ragion veduta possiamo parlare di biocrazia, governo della vita, non in segno soggettivato ma oggettivato, compiendo una inversione linguistica, perché a governare non è la vita, ma è essa ad essere governata. 

Il trionfale successo della biopolitica di foucaultiana memoria, ci introduce alla seconda funzione rilevabile nei tamponi: incidere simbolicamente l’immaginario collettivo. Questo avviene attraverso la comunicazione sacrale che ne viene fatta e il diretto collegamento con l’utilizzo pratico, perché il tampone resta l’ultima spiaggia per l’ottenimento del lasciapassare verde, imponendosi – o meglio venendo accettato – come compromesso “del male minore”. Il vulnus che crea l’utilizzo del tampone è quello di imprimere in maniera quasi definitiva l’accettazione di tutta una narrazione ben precisa, di un immaginario collettivo, appunto, che niente ha a che fare con la vita reale, eppure è tragicamente reale. Nasce una nuova consuetudine, perché tale ormai è, densa di significato simbolico e passaggio obbligato della liturgia mediatica per l’accettazione sociale.

Assistiamo ad una rivoluzione antropologica diversa dalle altre che conosciamo, perché passa attraverso la tecnica come perno del funzionamento dell’intero apparato. È emersa una vulnerabilità valoriale ed antropologica, con ripercussioni sui modelli di comportamento e di pensiero quotidiani. I problemi sono di carattere strettamente pratico, perché il Covid è un fenomeno e, come tale, ha un modo di comunicare e di essere fruito; c’è un aspetto carismatico del virus, che è stato capace di compattare strati sociali latenti in procinto di esplodere e di farli emergere con forza rispetto all’usuale andamento sociale. La drammaticità del welfare state ha radici consolidate nel tempo, le problematiche emerse dal 2020 sono soltanto la punta dell’iceberg di quell’ordocapitalismo liberale responsabile, come ideologia, della distruzione anche del valore ordinativo e sacrale dello Stato, appartenente sia all’occidente che all’Oriente. Il dominio assunto sui mezzi di comunicazione di massa ha provocato, poi, una fuoriuscita dalle aule e dai laboratori accademici del linguaggio settoriale e di quella riflessione e ricerca che sono propri degli esperti, invadendo la vita quotidiana delle persone, generando una profonda confusione ed alimentando la ridefinizione dei valori culturali, già vacillanti nella società post-moderna. Il Covid, quindi, è stato il cavallo di troia per una forma politica in un certo senso nuova, che porta con sé valori che sono a tutti gli effetti ideologici, i quali hanno dei segni invisibili innegabilmente emersi, tracciando anche una linea di demarcazione fra due mentalità, indirizzate a loro volta dai media, che interpretano le informazioni ricevute in maniera diversa; un problema, questo, che già l’antropologo Paul Farmer aveva descritto come violenza strutturale, vero e proprio gioco di prestigio di de-socializzazione che favorisce l’insorgere di ideologie egemoniche, mettendo la popolazione contro se stessa. Una dimensione ossimorica nella quale vengono introdotti certi concetti utili alle corporazioni transnazionali per neutralizzare la libera critica, che è motore della cultura, massima espressione dell’essere umano. Questa violenza opera a tutto campo, sia da dentro la struttura, attraverso i suoi membri con potere d’azione come ad esempio i politici, sia dall’esterno, tramite l’azione di agenti secondari come i mezzi di comunicazione, le istituzioni scientifiche, gli accoliti delle multinazionali del farmaco, della tecnologia e dell’ecologismo, in una costante litania di riprogrammazione asettica del tessuto sociale. 

L’individuo di oggi, a distanza di 20 mesi circa dall’inizio della vicenda emergenziale, non è lo stesso di prima; i nascituri di questo periodo non avranno le stesse fortune. C’è un modello di umanità nuova, che di per sé non è un male da scartare aprioristicamente, sia chiaro, ma che nella direzione chiaramente espressa e dichiarata dai “potenti del mondo”, come li chiamava Giulietto Chiesa, è quella della distruzione dell’essere umano. La schiavitù prima psicologica ed ora pure biologica passa attraverso un lungo e meticoloso processo di trasformazione della concezione stessa di cosa voglia dire “essere umani”; nessuna rivoluzione che veramente si voglia far durare viene compiuta nottetempo, c’è bisogno di programmazione, geografie delle culture e dell’esistenza, linguaggi manipolabili e immagini suggestive, arte prodotta e non intuita; senza una mitogonia non vive alcuna società. 

C’è anche una prospettiva etnoscientifica, linguistica e demologica da considerare. Abbiamo assistito ad una massiccia e forzata introduzione di numerosi nuovi termini nel linguaggio delle masse, quale preludio del Great Reset, secondo uno schema temporale ben preciso, una sequenza necessaria, tanto che prima un lockdown, poi una mascherina, poi un siero ora un codice digitale è pubblicizzato con una valenza escatologica, proposto come salvezza, mentre il Grande Reset verrà solo dopo questa transizione obbligata, seguendo quella traccia indicata da Klaus Schwab, presidente del World Economic Forum, ma ancora prima narrataci da altri attori del globo come Jacques Attali, da Bill Gates, da George Soros. Molti sono stati, infatti, gli avvertimenti profetici, preannunciati negli anni, ed ora viene proposta questa formattazione come un qualcosa di inevitabile, anzi positivo e necessario per uscire dalla crisi sanitaria, susseguitasi a quella economica ed in perfetta anticipazione di quella cimatica. Questi personaggi cambiano la lingua perché cambiando la lingua, si cambiano le persone, riprogrammandone le configurazioni neurologiche immettendo parole che hanno un significato molto forte, con vari ossimori, facendo emergere una narrazione dei fatti che presenta le crisi come un’esigenza, unico modo per cambiare. Un linguaggio diverso che è proprio della magia, degli esorcismi, delle pratiche occulte, perché accessibile solo a pochi, esoterico nel suo significato autentico, essoterico nella sua applicazione ossessiva, così che alla maggioranza delle persone appare poco chiaro e talvolta spaventoso. È qui che la paura diventa lo strumento di potere per eccellenza, scusa adottata per privare la popolazione della libertà individuale e collettiva. 

La domanda da porsi, fatte queste considerazioni, è ironica e profonda: che prezzo ha la nostra libertà? Quanto costano i nostri diritti? 

Allo stato attuale delle cose, circa 15 euro, esentasse e diritti d’autore. Pagando questo prezzo, otteniamo 48 ore di vincolato esercizio dei nostri diritti e delle nostre libertà. Scaduto questo spazio interstiziale fra due mondi paralleli, uno cognitivo-emozionale e l’altro politico-relazionale, siamo fuori dai giochi. Letteralmente, ciò che sta avvenendo è che stiamo pagando per avere ciò che ontologicamente siamo, ovvero esseri umani, uomini e donne vivi, liberi. La nostra dignità, il nostro essere umani viene prima della legge, prima della struttura politica, prima della prassi sanitaria, eppure l’adattamento è talmente ben riuscito che l’esperimento di ingegneria sociale può dirsi un successone meritevole di un Oscar hollywoodiano. 

Questa seconda funzione è incredibilmente più potente della prima, perché è la consacrazione solenne di una forma politica che è chiamata tanatopolitica, dal greco Thanatos che vuol dire “morte”, dunque “politica della morte”, della quale ho ampiamento scritto e trattato a più riprese. 

La biosicurezza è divenuta la metodologia di sovversione delle democrazie borghesi, che stanno cedendo il passo ad un nuovo dispotismo di pochi oligarchi, i quali a suon di decreti di dubbia fattezza stanno demolendo l’ordinamento giuridico degli Stati e cambiamento senza via di ritorno la vita dei popoli. Un processo di decostruzione che ha un suo verso positivo e condivisibile, ma il problema che si prefigura è: verso quali nuove forme stiamo andando? Davanti alla soppressione dei diritti e delle libertà più importanti della persona, con l’annientamento della sua dimensione metafisica in nome di una materialità esasperata ad assoluto, e l’imposizione di nuovi modelli tecnocratici ed ecofinanziari non lascia certo sperare l maggior parte della gente. Un’ingegneria sociale eccellente, bisogna riconoscerlo. Le proposte che ci vengono prefigurate come già decise dall’alto sono quelle proprie del transumanesimo integrale, senza se e senza ma, scenari che fino a pochi anni fa erano appannaggio solo di una certa letteratura distopica e protoscientifica, e che adesso sono stati messi in atto con colpi di scena nei differenti teatri delle discipline umane. La pervasività è una caratteristica quasi ontologica del transumanesimo, perché esso, per potersi compiere, ha un estremo bisogno di adesione incosciente, da una parte, e di “carne da macello” umana, dall’altra, come laboratorio sperimantale. Gli stessi processi di persuasione e dominio politico ci ricordano l’esigenza del sistema di avere adesione e nutrimento: se infatti le persone cominciassero a risvegliarsi, tutto ben presto crollerebbe, perché fondamento del potere politico è l’esercizio del potere dei membri della comunità sociale, l’accettazione della delega e la formazione di una convenzione. Tutto questo è rilevabile a partire da quei paradigmi indiziali, che sono il principio della ricerca non solo nelle scienze umane ma anche nelle scienze dure. Ciò che oggi è palese è che c’è un nuovo mondo, con nuove regole di vita sociale con le quali ci dobbiamo scontrare. Negare ciò significa non prendere atto della realtà circostante, per quanto soggettivamente la si possa intendere, e talvolta c’è anche il rischio che si presenti come una colpevole ignoranza di cui la Storia ci chiederà conto.

Comprendiamo che Green Pass è uno strumento eccezionale per i fini cui è stato concepito, perché è un lasciapassare, sì, ma verso una nuova forma di società, ove il credito sarà dato dalla coincidenza del nostro agire e pensare (se ancora vi sarà qualcuno di capace) in conformità con i comandamenti dello Stato. Ha un che di tragicomico il riflettere su questo processo, perché tolti gli offuscamenti emozionali alla nuda ragione resta un paradosso concettuale che però si concretizza nella realtà fattuale.

Ecco che si manifesta, in mezzo a tanta oscurità, la luce di una redenzione che ci è almeno in parte affidata. Oggi, l’atto più rivoluzionario è combattere per la libertà, fare cultura, ricostruire la socializzazione. Il punto di partenza per contrastare le mefistofeliche menzogne dei media e smuovere le menti dal sonno della ragione è, ancora una volta nel corso dei secoli dell’umanità, la cultura, con la consapevolezza della grande responsabilità di portata epocale che ognuno di noi incarna in questo momento. 

Ora che tutto crolla, che le maschere cadono e il mondo è in bilico, si spalanca davanti a tutti noi l’opportunità di rivelare qualcosa di nuovo. È questo tempo apocalittico (Apocalisse in greco significa “rivelazione”) a chiamarci a scelte radicali e decisive, a prendere una posizione scegliendo da che parte stare. Non è un caso che proprio nelle piazze non si trovino più solo persone che parlano contro, ma anche persone che parlano per. La dialettica della contrapposizione animo/nemico è funzionale al sistema di potere stesso e di in-voluzione sociale, perché alimenta una dualità che è generata in seno ad esso; parlare di creare qualcosa di nuovo, di bellezza, di amore (parola proibitissima!) è, invece, l’atto più autenticamente rivoluzionario. Ecco perché quanti stanno parlando in questo senso vengono censurati, bloccati, intimati e minacciati sempre di più, perché le loro parole non sono di distruzione ma di edificazione.

Restare in piedi in mezzo alle rovine e diventare punti di riferimento per gli altri col proprio esempio, è l’atto politico di resistenza; riunirsi in gruppi e comunità, è l’atto politico di ricostruzione sociale; cambiare se stessi per cambiare il mondo in cui viviamo, è l’atto politico di rivoluzione.

Se non ora, quando? Se non noi, chi?

 

Scritto da Lorenzo Maria Pacini – Direttore Editoriale di Idee&Azione. Professore di Filosofia e Sociologia presso UniDolomiti di Belluno, Accademia San Pietro di Pavia, Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (CH) – Istituto di Neuroscienze Dinamiche Erich Fromm

 

 

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