GLI USA GIOCANO A MONOPOLI…

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DI FULVIO GRIMALDI
Mondocane Fuorilinea

… I RUSSI GIOCANO A SCACCHI

LA SINISTRA GIOCA A NASCONDINO.

Notizie dall’oltretomba Sinistro.

Mentre aumenta il fetore della carogna mediatica in decomposizione

[Aggiornato al 2008: ricordo che è disponibile per presentazioni e ordinazioni il mio nuovo lungometraggio “L’ASSE DEL BENE” Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador, il Che: DOVE LA SINISTRA C’E’! ([email protected] – 06 99674258)]

Scrivi!

Sono un arabo

E la mia carta d’identità è il numero cinquantamila.

Ho otto figli

E il nono arriva dopo l’estate.

Ti arrabbierai?

Scrivi!

Sono un arabo. Ho un nome senza titolo.

Paziente in un paese

dove la gente è furibonda.

Le mie radici

sono affondate prima della nascita del tempo

prima dell’aprirsi delle ere

prima dei pini e degli ulivi

prima che crescesse l’erba

Scrivi!

Sono un Arabo.

Avete rubato i frutteti dei miei avi

e la terra che ho coltivato

insieme ai miei figli.

Ci avete lasciato niente

tranne questi sassi.

Lo Stato vorrà anche questi

come ci è stato detto?

Perciò!

Scrivi in cima alla prima pagina:
Non odio la gente,

né la invado.

Ma se mi affamano

la carne dell’usurpatore sarà il mio cibo.

Guardati…

Guardati

Dalla mia fame

E dalla mia ira.


(Mahmud Darwish, 1941-2008)

Il silenzio che uccide chi lo pratica

Prima di parlare
del suicidio collettivo operato dall’intera brigata di puttane

che lavora al servizio dei poteri criminali nel lupanare
bipartisan sinistra-destra dell’informazione occidentale, ho voluto citare
alcuni versi, allora da me così tradotti, di un componimento del 1964 del poeta
nazionalpopolare (nel senso più eletto del termine, come Gramsci, come il Che)
palestinese, scomparso pochi giorni fa. Nessuna delle diverse, attente e
generose, associazioni di solidarietà con la Palestina ha dato vita a qualche pubblica manifestazione di ricordo e
cordoglio, alla lettura delle sue meravigliose e laceranti poesie. Nessuna ha
diffuso la notizia, ha raccontato l’uomo, la sua opera, ha allestito una
cerimonia. Figuriamoci gli antimperialisti che si erano spesi – e bruciati –
per l’orrido Sion-Veltroni nelle amministrative, i
partiti… La stessa assenza di fronte alla più grande operazione di solidarietà
militante e di sfida ai carcerieri nazisionisti mai
compiuta: lo sbarco ad agosto dei 44 attivisti
internazionali del Free Gaza Movement, con le loro due imbarcazioni Free Gaza e Liberty, sulle coste del campo di concentramento
da un milione e mezzo di detenuti chiamato Gaza; la loro temeraria e e diciamo pure eroica navigazione con i pescatori
palestinesi, decimati a fucilate per aver tentato di contribuire alla
sopravvivenza della loro gente, oltre i limiti abusivi imposti dal boia
israeliano perché donne, uomini e bambini di Gaza o sentano la ragione della
schiavitù, o crepino. Nessuno – neanche le associazioni palestinesi, forse
perché Gaza è governata da Hamas? – ha accompagnato la storica spedizione di
rottura del più feroce blocco mai imposto dopo l’embargo iracheno, almeno con
informazioni e manifestazioni d’appoggio, nei ben due anni di preparativi in
collegamento con il notissimo International Solidarity Movement,
nella sua rischiosa navigazione, nelle sue traversie in mare (il sabotaggio
elettronico, le minacce di morte). E i partiti che si dicono comunisti,
dov’erano quando si è trattato di sostenere la più
pericolosa, coraggiosa, giusta e vincente azione di lotta contro la fucina mondiale
del razzismo e del genocidio? E, rimanendo nello stesso ambito dei temerari
leoni della sinistra, avete sentito, da parte delle associazioni serbe e
filo-jugoslave, un solo guaito di solidarietà, una sola riga di rettificazione
dell’inganno mediatico, una sola  obiezione alle complicità del
“manifesto” e di “Liberazione” con la canea antiserba, a proposito della
cattura di Radovan Karadzic

e della sua consegna ai boia dello pseudo-tribunale
Usa dell’Aja? Una sacrosanta difesa di quest’uomo satanizzato (non solo con la truffa di Sebrenica)
al pari di Milosevic e vittima di un’inversione della colpa che basterebbe un
minimo di memoria storica per sputtanare?

La regola è la
prudenza. Don Abbondio è sempre incinto.

 

Kalachnikov, pallottole e poesia

Si chiamava Mehdi – e non sopravvisse al Settembre Nero del terrorista
al servizio

dei colonialisti, Hussein di Giordania –  colui che mi lesse per la prima volta le
poesie di un Mahmud Darwish

appena spuntato alla notorietà e, subito, portabandiera spirituale della Resistenza.
Era informato Mehdi, conosceva e amava Lenin e i
poeti. Era il capo della nostra base. Rileggemmo poi a turno tutti noi,
palestinesi, italiani, inglesi, egiziani, francesi, “Io sono un
arabo
”, tante volte, superate le ore dell’addestramento, del
confronto politico, dell’aggiornamento informativo, nell’attesa notturna delle
incursioni, in quelle

caverne-avamposto dei monti sopra Ajeloun.
In fondo alla valle luccicava un Giordano ancora puro, quasi biblico, non
depredato e immerdato dagli abusi dell’occupante.Tra le
nostre grotte di creta e il fiume, banani, ulivi, orti e contadini curvi su povere
ricchezze. Ricchezze desertificate dalle bombe ogni qualvolta i fedajin violavano il falso confine del Giordano, muro di
contenimento, allora d’acqua, inciso dal predatore-invasore nel corpo arabo
vivo. E sapeste quanta motivazione, quanta ragione davano

ai Kalachnikov dei fedajin
i versi di Darwish!  Kalachnikov e
poesia: rabbia, giustizia, coraggio. E amore.

Versi di Darwish inanellati nella collana di saggezza, ricordi di
soprusi, lezioni di storia e di lotta, visioni del futuro che Mehdi, comandante nel Fronte Democratico per la Liberazione della
Palestina, ci appendeva alle orecchie, all’ora in cui l’orizzonte a est, oltre
il fiume, si faceva violetto come di sangue rappreso, nei mesi dei nostri
avamposti di grotta. Kalachnikov e poesia dall’inverno all’estate 1970, prima del Settembre Nero: Marx, Fanon, Lenin, il Che,
Fidel, Brecht, Majakovsky…

 

Prima arabi, poi palestinesi

Perdonate l’excursus
personale, sono i ricordi più belli della mia camminata. Quelli che hanno
rischiarato tutti i sentieri, da allora a sempre. Scriveva il poeta: “ Sono un arabo”, non “sono un palestinese”. Perché il primo
conteneva il secondo e lo faceva più grande. Oggi questo fondamento e orizzonte
della liberazione lo si è spento.Si
è separato, isolato. Solo di Palestina è accettabile
parlare. Appena accettabile.  La Palestina, ricordava
George Habash, massima voce strategica della
Resistenza, è una costola del movimento di liberazione e
rinascita nazionale arabo. Solo in questo contesto

vivrà e vincerà. Oggi qualcuno grida “Palestina libera”, nessuno
grida “Iraq libero!”, “Arabi liberi”! E’ più facile. Ma
non fa bene ai palestinesi. All’imperialismo-sionismo sta molto meglio così..

 

La fetida carogna

L’apocalisse
mediatica non ha risparmiato nessuno, dal Mar Nero fino al tramonto estremo.
Hanno tuffato la guerra del Caucaso nell’inchiostro che l’abominio occidentale
secerne come un pus che tutto contamina, e ne hanno tratto un mostriciattolo
deforme, capovolgimento e parodia della realtà. Tutti. Chi
con maggiore accanimento, chi funambulando

penosamente in equilibrio sulla corda tesa tra complicità e acquiescenza.
Con l’ex-rivoluzionario, ex-pannelliano, ex-bombarolo
neocon, Adriano-Fregoli-Sofri, che da “Repubblica” e
dalla fetecchia Cia “Il Foglio”, espelle il solito
merdoso sciocchezzaio da pseudointellettuale di regime che lo mantiene in
bilico tra i picchi paralleli della futilità e dell’abominio (ci vuole un suo compare
di iperegotismo e masturbatorie elucubrazioni, come l’ex-canterino Ivan della
Mea sul “manifesto”, per esaltare questo miserabile
plaudente alle bombe sui serbi, palestinesi, iracheni, afghani…). Si sono
tutti, da “Libero” al “manifesto”, fatti trombettieri davanti e valletti dietro
il rullo compressore della cosiddetta “comunità internazionale”. Hanno
raccattato le deiezioni della propaganda e l’hanno sparata contro gli indifesi
cervelli del mondo, realizzando una lobotomizzazione

generale. “Comunità internazionale” costituita da una minoranza infima non solo
dell’umanità, di cui pretende di rappresentare un sesto, ma dei propri popoli.
E’ il solito nocciolo perverso, bianco, cristiano, che da duemila anni s’avventa su paesi e popoli per succhiarne il sangue e
sbranarli. Cinque miliardi di latinoamericani, africani, asiatici, ma anche
bianchi cristiani scampati a roba come la CNN o il “manifesto”, non sono “comunità
internazionale”. Non contano un cazzo. E’ per questo che vecchie carogne come
il barboso fondatore di un grosso giornale, girando con il lumicino non del
nudo Diogene, ma di palazzo De Benedetti, non trovano
più l’ opinione pubblica?

 

Compatto, il
sistema mediatico della “comunità internazionale”, cioè della criminalità
politico-economica organizzata, ha presentato il conflitto tra Georgia, Ossezia
del Sud e Russia come rovesciato allo specchio. Un farabutto, golpista grazie
alla solita “rivoluzione colorata”, Saakashvili,
della serie di delinquenti messi dall’imperialismo a capo delle nuove colonie
per destatalizzarle e mafizzarle, scatena un’armata
di sgherri armati e addestrati da USraele

(non c’è regime fascista o fascistoide al mondo che
non goda dell’assistenza dei nazisionisti) contro un
paese, un popolo, un’etnia che non hanno voluto farsi imporre la secessione
golpista dalla Russia dei primi anni ’90. Nel giro di 24
ore compie una strage spaventosa, rade al suolo la capitale e costringe alla
fuga 30mila ossetini (cui non verrà mai dedicata una
parola o una pagnotta della solidarietà internazionale). La Russia reagisce in difesa
di cittadini della sua nazionalità e, come tutte le mosse di Putin da quando ha
rimesso in piedi lo Stato e la società russa dopo lo sfacelo Eltsiniano, si attiene rigorosamente al diritto
internazionale, rispetta la popolazione civile nelle terre georgiane
dove ha ricacciato in quattro e quattrotto

l’armata Brancaleone che, al pari di quella che due anni fa invase il Libano,
era messa su e guidata dagli israeliani e, al pari di quella, vide castigata la
sua protervia con beneficio della pace. Stop, almeno momentaneo, al
cannibalismo territoriale e alle pulizie etniche dell’imperialismo occidentale,
con giusta soddisfazione dello schieramento antimperialista, con indiscutibile
consenso a Putin-Medveded, mercatisti
quanto vuoi, diffamati universalmente al di là di ogni
realtà, ma barriera salvifica contro il Gozilla euro-israelo-statunitense. Primo,
lungamente atteso altolà, dopo lo tsunami genocida su Iraq, Somalia, Balcani,
Afghanistan, Granada, Panama, Nicaragua, Libano.

 

Il riflesso antisovietico, anticomunista, antirusso.

E la sinistra, e il
“manifesto”? Imbarazzo in soffitta della prima, ansimante equilibrismo tra una
tradizione visceralmente antisovietica e antirussa (figlia diretta e oggi del tutto incongrua di uno storico anticomunismo) e
l’abbagliante evidenza del gangsterismo dell’aggressore e dei suoi mandanti.
L’inviato se ne rimane per tutta la guerra rintanato all’ombra di Saakashvili, piagnucolando alla Sgrena sulle traversie
della popolazione di Gori e Tblisi.
Il commentatore, Astrit Dakli,
costretto dall’enormità della sproporzione tra attacco
criminale e legittima ed equilibrata difesa ad accantonare la sua
proverbiale slavofobia, che però rimedia deprecando
monotonamente i guai che alla povera Europa verrebbero da una Russia non più
scendiletto occidentale dei predatori occidentali, facendo nuovamente pendere
la bilancia delle minacce a noialtri verso l’orso sovietico, condotto al
guinzaglio da chi in ogni esternazione del giornale viene definito velenosamente
“zar”. Lasciamo da parte farloccate pseudosinistre come quelle del Campo Antimperialista,
l’ormai agonizzante congrega di strani e ambiguoni

che ha per condottiero ideologico il trapanatore di teste sunnite Moqtada al Sadr, o il criptosocio USA Ahmadi Nejad e che inaugura le sue kermesse con il guru Costanzo Preve, uno transitato dalla
rivoluzione marxista alle merende con la più schifosa pubblicistica neonazista.
Il campetto conclude la sua “analisi” mettendo in
guardia dal “nuovo imperialismo russo”. Cerchiobottismo

mimesi del collateralismo. Contano assai di più i lancianebbie
del “manifesto”, che parecchia credibilità vanta tra
le schiere disperse e confuse della sinistra vera. Ci si chiede se non
avvampino di rossore, quelli del “manifesto”, quando sentono fanatici
nazisionisti, tutti consiglieri dello psicopatico
John McCain, come Lieberman,
Kagan, Rubin, paragonare
per gravità di minaccia all’ordine mondiale la Russia di Putin  ai “demoni del nazionalismo etnico di
Slobodan Milosevic”, o quando sbattono il muso sul fatto che il mafioso Saakashvili venne installato da una “rivoluzione delle
rose” identica a quella collaudata tre anni prima a Belgrado, con le stesse
marionette locali e gli stessi burattinai: Soros,
Israele, UsAid, National Endowment

for Democracy, Istituto
Internazionale Repubblicano e altre articolazioni in borghese della Cia. E poi ripetuta in Ucraina, tentata e fallita in Libano, Venezuela e
Uzbekistan. Ma come, non ha sempre parlato “il
manifesto” di “ultranazionalisti serbi”, quando si trattava di chi difendeva un
residuo di sovranità e dignità dallo sbranamento euro-statunitense. Ma come,
non urlò “il manifesto” dalla prima pagina “La primavera di Belgrado”, quando
il golpe “non violento” dei sopra citati rovesciò Milosevic e la Serbia e li consegnò alla celle della morte di Carla del Ponte, stipendiata dal
Dipartimento di Stato? Insiste ancora, l’uomo d’onore Tommaso De Francesco, balcanista a iniezione di stereotipi imperialisti, nel
parallelo Kosovo-Ossezia, caro a tanti: quelli hanno
voluto l’indipendenza del Kosovo, ne consegue che questi rivendichino
l’indipendenza di Sud-Ossezia e Abkhazia.

 

Ossezia del Sud come Kosovo?

Manco per niente,
caro TDF. Meni il can per l’aia e lo mandi diritto sul
gancio dell’accalappiacani. Il Kosovo era parte storica della Serbia, il suo
luogo di nascita. Ne fu espulsa metà della popolazione non allineata con i
trafficanti di droga ed esseri umani investiti dall’Albright del dominio sui
traffici sporchi (ma redditizi per le banche Usa) tra Oriente e Europa e dell’ospitalità alla più grande base
d’aggressione statunitense d’Europa. I due popoli del Caucaso, invece, li devi
paragonare alla Krajina, o all’enclave di Mitrovica, o, perché no, al Sud Tirolo, mai stato Italia,
ma strappato al mondo germanico con una criminale guerra imperialista del tutto

innecessaria (Vienna ci aveva offerto Trento e
Trieste se non fossimo entrati in guerra). Popolazioni che colpi di mano illegali
e complotti imperialistici, hanno voluto strappare al loro contesto,
sminuzzare, inserire in contesti statali non solo estranei, ma ostili e
razzisti. Lo squartamento della Jugoslavia e poi della Serbia era un crimine
contro l’umanità e contro il Diritto Internazionale. La liberazione di Ossezia
del Sud, in cui nel referendum del 2006 il 99% della popolazione aveva votato
per il distacco dalla Georgia, e Abkhazia di quella e
di questo è la difesa.

 

La tempestiva scoperta di chi fa le “rivoluzioni colorate”. Sette anni
dopo.

Curioso questo
“manifesto” che nell’agosto del 2008, con Ennio Remondino

(quel giornalista vezzeggiato dalla sinistra che non mancava di inserire in
ognuno dei suoi mille servizi il riferimento al “despota” Milosevic) si accorge
che la “rivoluzione delle rose” in Georgia, come quella arancione in Ucraina, erano il doppione della “primavera di Belgrado” esaltata
dagli inebriati della “Primavera di Praga”, di Budapest, di Berlino, di Tirana,
di Danzica. Bastava la parola e quelli si eccitavano. In un giornale che tutte
queste rivoluzioni le aveva viste attraverso gli occhiali rifilatigli dalla Cia
e dagli associati

dirittiumanisti e vi aveva
inneggiato. E oggi ecco che in un colonnino in ritardo di sette anni scopre che
quelli di Otpor (e della Radio B-92, cara ai
Disobbedienti, benché fosse del circuito Cia di Radio Liberty) erano pagati
dagli Usa, addestrati da generali del Pentagono a Budapest e zelanti
esportatori dell’operazione Otpor in paesi da destabilizzare per l’Occidente, verso Est, sempre più verso
Est. Era il settembre 2001. Autunno, altro che primavera, per la Serbia. Otpor,
diretta dalla créme borghese e rampante di Belgrado,
aveva rastrellato un po’ di fascisti, un po’ di sottoproletari, un po’ di
canaglia e parecchi ingenui, e li aveva lanciati – armati! – contro il
parlamento. Si trattava di urlare “democrazia” e. al
tempo stesso, bruciare le schede che avevano dato la vittoria ai partiti di
sinistra. Ma che bravo “il manifesto”! Solo sette anni
dopo! Scusate l’autoriferimento, ma è doveroso. Io
quelle cose le avevo scritte negli stessi giorni in cui accadevano, da
Belgrado, quando stavo in mezzo alla truppe di Otpor, ne vedevo le facce, ne sentivo le espressioni , ne
intervistai gli stessi dirigenti visti da Remondino,
per sentirli dire che era “un onore essere aiutati
dal servizio segreto di una grande democrazia come gli Usa
”. Quelle
cose finirono solo in rete, nella rivista ”l’Ernesto”
e nei microfoni di Radio Città Aperta, prima che io ne fossi cacciato e
Veltroni votato. Erano le corrispondenze da Belgrado per il mio giornale
d’allora, “Liberazione”, con un caporedattore esteri

di nome Salvatore Cannavò, oggi capo della “Sinistra Critica”. Cannavò presi i
miei servizi, li buttò nel cestino e definì Otpor “costola del movimento no global”, da invitare alla prossima
adunata a Nizza. Quanto a me, che denunciavo i rettili Cia di Otpor, ero ovviamente pagato da Milosevic… Casarini, che a Belgrado da radio B-92 aveva inveito contro
Milosevic, se ne è rimasto in silenzio.

 

Biden l’attraente

C’è di tutto e di
più nel “giornale comunista”. Si accompagnano le olimpiadi
cinesi, nel livore per la loro perfetta riuscita (a parte il baraccone di
sponsor, doping e boss trafficoni che qui tralasciamo), in perfetta sintonia
con la canea colonialista e citando atleti rincoglioniti, con lacrime sui
tibetani e inni bertinottiani al Dalai Lama,
foruncolo Cia del pianeta ed erede della più spietata e oscurantista dittatura
feudale vista nel millennio trascorso.  Questo Dalai Lama, autentico figlio di brava
donna, che all’inizio dei Giochi fa il generoso, invitando a rispettarli e poi
spara al centro dell’attenzione mondiale per il
fulmine Bolt la strabufala di centinaia di tibetani
ammazzati (inevitabilmente smentita, ma le smentite, si sa, sono acqua calda su
pietre roventi). Ci si innamora e poi disamora prima
di Hillary, poi, meno, un po’ meno – è solo nero, neanche donna – di Obama. Si riesce – Marco d’Eramo,
nota colonna filoisraeliana e quella dama da Quinta Strada, Giulia d’Agnolo Vallan, che si erge sulla
plebe dei lettori inserendo una parola inglese ogni tre
italiane – a raccontare la nomina a candidato vicepresidente del
senatore Joseph Biden, senza esporre, neanche tra le
righe, la sua natura di sudicio neocon guerrafondaio,
sostenitore della tripartizione dell’Iraq, dichiaratosi “sionista pur non essendo
ebreo”, prosecutore della dottrina sionista, formulata da Oded

Jinon nel 1982, dello spezzettamento etnico-confessionale di tutta la nazione araba, determinato
a far sparire Palestina, Libano, Siria, Russia e chiunque intralci il rullo
compressore dei mostri di guerra occidentali. Una garanzia di continuità bushista per la cleptomane necrocrazia
occidentale. La baronessa Vallan lo dice dotato di “esperienza di governo e affari esteri, di appeal

(attrattiva) verace, spontaneo con impiegati e operai, di humour (spirito)
pungente e ottime battute”.
Punto. D’Eramo
la batte: “”Biden è stimato
e considerato il miglior partner possibile”. Punto. Solo a un imbecille o
complice può sfuggire che questo vecchio arnese di 36
anni di parlamentarismo reazionario non sa un piffero di politica estera se non
che bisogna spaccare la testa a tutti gli altri. E il  campione analista del “manifesto” non
ha scoperto che fu proprio Biden a essere spedito da Obama presso il bandito Shaakasvili

in piena aggressione georgiana per garantirgli la continuità del flusso di armi
dei profittatori di guerra Usa. Questo Biden che, se
l’accoppiata della frode nuovista vince,  dista solo un
battito di cuore dalla presidenza degli Usa, ha onorato la sua carriera con il
voto a favore della distruzione di quattro paesi, Jugoslavia, Iraq,
Afghanistan, Somalia. Ha sulla coscienza qualche milione di morti. Ha votato
per il famigerato “Patriot Act” , con cui i
criminali di Washington hanno disintegrato le libertà civili. Ha superato le
più efferate richieste dei suoi ufficiali pagatori dell’aggregato delle carte
di credito, capeggiato dal capofila MBNA, quando fabbricò quella bomba atomica
della guerra di classe che fu la “Legge della bancarotta”, cappio al collo dei
cittadini più deboli, poveri, malati, sfigati, fregati
del suo paese. D’Eramo annuncia che si trasferirà su
un altro pianeta in caso di mancata vittoria del ticket Obama-Biden.
Che, invece, lo tratterebbero felice su questo.

 

La manovalanza di Giuliana Sgrena

Ma della tecnica di costruire falsità sulle falsità,
fino alle vertiginose altezze delle Torri Gemelle, “il manifesto” e il fratello
scemo “Liberazione” sono architetti provetti. A gettare malta nelle crepe che
la realtà apre nell’alzheimer mediaticamente indotto
nella gente ci pensa anche Giuliana Sgrena, il santino
del “manifesto” che aspettò due anni e le rivelazione del bravissimi Sigfrido Ranucci (RaiNews24) prima di raccontarci cosa le avevano
detto le donne di Falluja fosforizzata. E dalla quale
ancora ci attendiamo che ci riveli chi fosse quel quarto uomo, nella vettura
con Calipari, di cui si affermò ufficialmente la presenza per tre giorni e che
poi svaporò nel nulla per sempre. Forse il caposequestratore

sottratto a forza di milioni al controllo dei mandanti Usa?  Scheletri nell’armadio? Non ce lo dirà mai.

Invece, cosa ci
dice la teodem del “manifesto” in preda a estasi antislamica peggio diella

vivandiera dell’UCK, Santa Teresa? Imperversano guerre e macelli, scoppiano
bombe e attentati dalle Filippine all’Algeria, passando per Pakistan, Turchia,
Iraq, Russia. Il segno chiarissimo è di occultare ogni barlume di orrore
davanti agli oceani di sangue di guerra sotto la
bandiera della “lotta al terrorismo” innescata l’11 settembre e vivificata
dalla terroristizzazione di chiunque esca da questo
seminato geneticamente modificato, barboni compresi. Anzi, poveri scontenti
dell’intero mondo compresi. In tutta questo ambaradan apocalittico, la celebrata inviata di guerra ci
distrae inveendo contro gli islamici e i veli con cui imprigionano le donne,
tanto da mandare ai giochi olimpici povere atlete avvolte nei burka, o quasi. Noi, per la verità, avevamo visto atlete
musulmane, maghrebine e altre, con nientemeno che calzoncini alla coscia.
Certo, per la teodem dai bollori antislamici

sono molto più emancipate e dignitose le velociste, saltatrici, mezzofondiste
bianche e cristiane con slippini e perizoma. Chi non
ne converrebbe? Sempre nel contesto delle
deflagrazioni a 360 gradi, che s’inventa Sgrena? Una specie di riflusso da sue
passate libagioni: una gragnuola di
invettive contro l’Algeria araba alle cui nefandezze avrebbero risposto gli
attentati “naturalmente di Al Qaida”, contro lo
Stato. Attentati tutti compiuti in Cabilia, la terra
dei berberi tanto cari a Sgrena quanto all’Eliseo e
agli Usa, da tempo quinta colonna secessionista e filo-francese. Il presidente
algerino Bouteflika era appena tornato da una visita
a Tehran! Intrattiene anche buoni rapporti con Hugo Chavez.
Non svende alle petrolifere tutte le riserve, fornisce tanto gas a un’Europa
che, tra Algeri e Mosca, rischia la tentazione di rendersi energeticamente
indipendente da USA – GB. Naturalmente Al Qaida

s’incazza. Mica la Cia,
o il Mossad, sia mai. Ecco un altro
tocco di malta sgreniana a sostegno dell’edificio
della “guerra infinita al terrorismo”. Del resto, è una litania, in quel
giornale, la ripetizione, da parte proprio di tutti, delle
guerra al terrorismo come “vendetta”, “reazione”, “risposta” degli Usa agli
attentati di Al Qaida. Attentati di Al Qaida, alla faccia
di tutte le contestazioni documentate della grottesca versione ufficiale
sull’11/9 da parte un’armata internazionale di esperti, studiosi,
tecnici, testimoni, pentiti. E una “reazione”, “risposta”, “vendetta” a tanta
nefandezza islamica sarà magari eccessiva, ma dai, ci può pure stare.

 

 

Al Qaida come l’araba fenice (che ci sia
ognun lo dice, dove sia nessun lo sa)

Tanta malta
Giuliana Sgrena la butta nei baratri che continuano ad aprirsi nella
megagalattica frode con cui si manda avanti la “guerra al terrorismo”. Gli
occupanti e i loro schiavetti a mezzo servizio con l’Iran di punto in bianco,
alla fine del 2006, smettono di parlare di “insorti”, “saddamisti”,
“resistenza”, “rivoltosi”, “ribelli”. Li chiamano
tutti “Al Qaida”. Al Qaida

non c’è mai stata in Iraq. Quando qualche nugolo di infiltrati
e scemotti, sollecitati dall’occupante, presero a
firmare comunicati con “Al Qaida”, o “Emirato
islamico dell’Iraq”, hai voglia a far circolare comunicati della già conclamata
Resistenza, in tutte le sue articolazioni, dell’autorevolissimo Consiglio degli
Ulema, degli stessi capitribù e capicomunità, che Al Qaida è roba da provetta Usa-Sion
e che, ove spuntasse, verrebbe presa a fucilate. Ma

tant’è. La sempre più evidente e irriducibile lotta di liberazione di un popolo
poteva suscitare perplessità, se non simpatie, se non solidarietà, se non
effetto contagio. Meglio vestirla dei panni lordi di sangue di
coloro cui si attribuiscono le carneficine in giro per il mondo, dalle Torri a
Madrid, da Londra a ovunque. Siti “islamici” della Cia ce n’è
a strafottere per spararci in testa comunicati e
rivendicazioni. Sono anche stati scoperti, ma che fa. Basta non dirlo.
Prendendo spunto dall’immagine di una ragazzina di 13
anni, in condizione di semincoscienza, scoperta con
una cintura esplosiva, ecco che la crociata teodem

inalbera la picca e va a fondo. Chi gliel’ha messa la
cintura? Forse gente del tipo di quei militari israeliani che presero un
adolescente disabile mentale, gli misero il giubbetto delle bombe, lo trascinarono
davanti ai fotografi? E qui è tutto un seguito di fonti e conferme autorevoli:Si dice che la famiglia sostenesse Al Qaida… si dice che l’abbiano reclutata parenti… Si ritiene

che a organizzare l’attacco sia stato Al Qaida…”. Poi
la mitica inviata di guerra si avventura in un’analisi del confronto sul
terreno che è pari pari un briefing del comandante in capo Petraeus.

 

La stampella Sgrena al raggiro terrorista

Parlerò in altra
occasione dei Consigli del Risveglio sunniti, strutture inventate dagli Usa per
usarle contro la Resistenza
a forza di 300 dollari al mese a combattente, e per contenere l’invasività
degli sciti, apostoli e quinta colonna dell’Iran khomeinista.
Aderirono disperati con famiglia, parte di quel 50% di iracheni
che non ha lavoro ed è alla fame; boss locali ansiosi avidi di essere corrotti,
ma anche molti militanti della liberazione che, dalla strage di Samarra in poi (2004), avevano dovuto subire un vero e
proprio genocidio da parte degli sciti: sui cento ammazzati al giorno, sempre
dopo tortura, quasi sempre con gli occhi e i genitali trapanati. Il nemico
immediato, il più robusto grazie alla sponsorizzazione iraniana erano i
briganti sciti di Moqtada, di Dawa,
dello SCIRI, e la stessa marmaglia inquadrata in polizia ed esercito. In effetti l’idea funzionò, nel senso che pose un freno
all’eccidio dei sunniti e riequilibrò un po’ a favore dell’occupante il
rapporto di forze con il socio-rivale persiano. Cosa a quest’ultimo
non gradita, per cui tornò a riattivare i propri viceconsoli a Baghdad.
Iniziò il ripulisti dei Consigli del Risveglio da parte dell’esercito
del premier Al Maliki, rimozioni, arresti,
eliminazioni (che si accompagnavano a quelle con cui la Resistenza vera colpiva
rinnegati e collaborazionisti). Gli Usa a guardare imbambolati, come un pugile
suonato. E’ persiana la mano che tiene il coltello per il manico in Iraq. E
“l’antiamericanismo” di Moqtada serve a confondere le
acque e catturare il consenso di un popolo che mille volte preferirebbe

gli Usa in quel cappio che Moqtada strinse al collo
di Saddam.

Ebbene di questo,
che pure appare nelle analisi dei migliori e più documentati commentatori in
rete, in Sgrena non c’è traccia. Ci sono i kamikaze di Al Qaida,
le bombe di Al Qaida, i Consigli del Risveglio contro
Al Qaida. Non conta che le stragi tra civili non sono
mai stati, mai avrebbero potuto essere, di una
Resistenza che senza l’approvazione delle masse non è. Non conta che le vere
azioni di resistenza oggi, con gli statunitensi asserragliati nei loro presidi,
fanno strame di poliziotti e militari delle forze fantoccio, man  mano che ci provano a sostituirsi alla
presenza dell’occupante. Non conta soprattutto, che decine di testimoni,
riportati in centinaia di cronache, hanno illustrato la tecnica della macchina
sequestrata a un cittadino qualunque e portata a un posto di controllo,
dell’autista che deve venirla a prendere domani, che quando la ricupera gli si
ordina di portare un messaggio in un certo punto, meglio

dove c’è tanta folla, e da lì telefonare. Al chè scoppia tutto. E quei due soldati inglesi
travestiti da arabi, scoperti a Basra con una vettura
zeppa di esplosivo pronto all’innesco, mentre stavano dirigendosi verso la
moschea? E quei numerosi conducenti che la loro macchina, riavuta dagli
occupanti, l’hanno esaminata e trovata foderata di tritolo che la telefonata
avrebbe fatto saltare? Niente, per Sgrena non c’è niente. C’è solo, sette volte
nel pezzetto, Al Qaida (anzi Al Qaeda, lo scrive
all’inglese). Gli inventori di Al Qaida e autori del
terrorismo imperialista, dall’11/9 in poi, ringraziano commossi.

 

Caucaso: un megapacco mediatico

Ma vediamo cosa è davvero successo nel Caucaso e cosa
ne viene alla geopolitica mondiale. La vulgata dei gazzettieri, mercenari e
falsari per interesse o vocazione, che si è abbattuta compatta come la colata
di fango di Sarno sull’opinione pubblica, ci ha dipinto questo quadretto:
L’uomo più o meno d’onore Saakashvili,
con un colpo di testa che  doveva forzare
la mano agli “alleati” occidentali, ha voluto riprendersi la provincia riottosa
del Sud Ossezia, contando sull’immediato soccorso militare e politico dei
suddetti. I mille militari Usa che dalle sue parti avevano appena concluso esercitazioni che adombravano proprio una simile
operazione, il concorso annoso di armi, istruttori e intelligence  statunitensi e israeliani, lo avrebbero
illuso, poveretto, sull’arrivo dei rinforzi USraeliani

ai quei quattro briganti di strada che, mutuati dal modello del terrorismo
ceceno, aveva spedito a radere al suolo Tskhinvali,
la capitaletta osseta, e sterminare il maggior numero
possibile di vite della maggioranza russofona di quel paese. Una
pulizia etnica all’UCK in Kosovo, alla kurda a Kirkuk, all’israeliana in Palestina. Le “democrazie
occidentali”, però, prese in contropiede dall’avventatezza del “rivoluzionario
delle rose”, avevano esitato, tergiversato, temuto, animati da spirito di pace
e dialogo, Israele aveva occultato, se non rallentato, il proprio contributo al
revanchismo georgiano, paurosa di ritorsioni russe in
Iran e Siria, gli Usa erano paralizzati dal trambusto elettorale e dal timore
della banda Bush di concludere l’amministrazione in
una nuova palude tipo Iraq e Afghanistan 

e gli europei se ne restavano rintanati, sbigottiti dal rischio alla
sicurezza dei rifornimenti energetici russi che sarebbe stato determinato da un
loro intervento a fianco dello sconsiderato georgiano.

Di questo impasse avrebbe dunque approfittato il “neoimperialista”
Putin, non solo per riprendere il controllo su Ossezia e Abkhazia,
promuovendone l’indipendenza, ma per calcare con i suoi stivali fette del
territorio georgiano e uccidere così quella “giovane democrazia”, minacciando
al tempo stesso tutto ciò che in direzione Nato si agitava alle sue frontiere
occidentali. Si era così potuto salutare, con
soddisfazione, il ritorno a quella contrapposizione, un tempo anche ideologica,
oggi geostrategica, tra Occidente democratico e i
nuovi “zar totalitari ed espansionisti”. Quella guerra fredda, in prospettiva
calda, per cui l’industria militare, l’apparato economico e l’intera struttura
propagandistica della cristianità bianca aveva tanta
nostalgia e che pro tempore aveva sostituito con il “terrorismo” (comunque
ancora buono per le strategie colonialiste verso il Sud del mondo e per la
marcia verso i propri stati di polizia).

 

Chi vince, chi perde?

L’unica cosa vera
del megapacco era questa conclusione: la nuova guerra fredda, propedeutica al
possibile conflitto mondiale tra Occidente e i barbari asiatici, russi e
cinesi.

Tanto che, scaduta
l’ennesima data per l’attacco alle centrali nucleari di Tehran, la guerra USraele-Iran, data per certa da quattro anni, cavalcata
rumorosamente da arnesi dei servizi Usa come Scott Ritter
e Seymour Hersh, creduta certa perfino dalla
minuscola pattuglia di analisti seri, è passata in secondo, terzo, quarto
piano. Dalla sceneggiata, recitata con pari impegno

dai due soci-briganti dell’appropriazione indebita dell’Iraq, persiani e USraeliani, proficua per il controllo dell’area e della nazione
araba per entrambi i collisi-collusi, si è passati allo scontro reale. I russi,
osservanti rigorosi delle regole di cui l’imperialismo se ne
impippa, giocano a scacchi, posizionano le loro
pedine a difesa del re, Russia-Cina, e della regina,
l’equilibrio multilaterale, unica garanzia di convivenza.

Pedine collocate
all’interno delle repubbliche asiatiche, in buona misura recuperate
dall’accerchiamento Usa di inizio millennio, nei paesi
non colonizzati del Medio Oriente (Siria, Sudan) e dell’Africa, in America
Latina e nella parte di opinione pubblica ormai insofferente all’avventurismo
dei criminali di guerra euro-israelo-statunitensi..

Gli Usa, superato
l’iniziale balbettio terzaforzista di alcuni europei
intrecciati economicamente ed energeticamente con la Russia (Germania, Francia,
Italia), come successo con l’Iraq, incalzano con il gioco di monopoli piantando
la pedina Nato, grazie  all’allineamento
europeo, su fabbriche, palazzi, mercati, basi, terreni, lungo tutta la
frontiera occidentale della Russia, nel Mar Nero, dove  ormai scorrazzano liberamente le
testate atomiche della Sesta Flotta. Come plusvalore, si mangiano
anche il più dell’Unione Europea inserendo nel suo seno, in aggiunta alla marca
est-europea già acquisita, le serpi velenose, in quanto più amerikane
che europee, degli Stati criptonazisti del Baltico,
l’Ucraina, la Moldova,
e, più di tutti, la Georgia
della rete di oleo- e gasdotti che, a suo tempo, non
si era riusciti a sottrarre al transito russo mobilitando i terroristi ceceni
rinforzati dagli ascari Al Qaida afghani. Nel monopoli statunitense bocconi decisivi erano anche e
soprattutto giornali e televisioni. Non gli avrebbe potuto

andare meglio. Se li sono pappati tutti. Con il risultato che le fratture
aperte nel conformismo dell’opinione pubblica verso il  sadismo degli psicopatici di
Washington, Londra e Tel Aviv, a forza di non più occultabili barbarie ,
genocidi, tortura, abusi, stermini bombaroli, sono state almeno in buona parte  saldate dall’incombere della rinnovata
minaccia russa, parasovietica, parahitleriana. Risultato non da poco. E’ da
vedere chi a questo punto tiene in mano i dadi.       

 

L’Occidente doveva
oscurare il dato che alla Georgia non spettava il benché minimo diritto
internazionale per rivendicare sovranità su Abkhazia
e Ossezia del Sud. Nel 1991, quando la Georgia si dichiarò indipendente, simultaneamente
si dichiararono tali anche Ossezia del Sud e Abkhazia. Gli è andata meglio che alle Krajine

serbe grazie al fatto che alle spalle avevano una Russia
non più materasso eltsiniano. A garanzia di questa
decisione, corrispondente alla volontà popolare, i peacekeepers
russi stanno lì in virtù anche di un accordo politico firmato dalla Georgia,
universalmente riconosciuto fino a quando i militari georgiani, presenti nelle
forze di interposizione, non hanno preso a sparare sui
colleghi russi e poi, subito, a uccidere migliaia di osseti, costringendone il
resto alla fuga, distruggendone la capitale e molti villaggi. I russi non hanno
fatto che ristabilire lo stato sancito dagli accordi. Avventura improvvida del
gangster Saakashvili? Si pensi alle manovre alleate
congiunte condotte giorni prima a 100 km dal confine russo, alla presenza a Tblisi, nei giorni precedenti l’assalto al Sud Ossezia, di
Joseph R. Wood, assistente per la sicurezza nazionale del vicepresidente Usa e
dio della guerra e del terrorismo Dick Cheney, alla
visita a Saakashvili della signora Cheney subito dopo il ritiro russo e poi anche dal
sanguinario consorte, all’imperversare in Georgia di ben mille contractors israeliani sotto i generali
Israel Ziv e Gal Hirsh

(pur reduci dalla debacle in Libano), nel plauso di ministri israeliani del
governo georgiano, come Yakobashvili (Relazioni con
il Sud Ossezia) e Kezerashvili (Difesa). Si pensi a
quei sei “Hummer”, i blindatoni
Usa, catturati in Georgia dai russi e trovati zeppi di quel sofisticato
armamentario per la guerra elettronica che ha guidato passo passo

le provocazioni di Saakasahvili in cielo, terra e
mare. Si pensi con quale prontezza la Sesta Flotta Usa ha
invaso, con missili a testata atomica, il Mar Nero, fornendo, tra dentifrici e
carta igienica, ai bastonati georgiani quanto gli occorre per il prossimo giro di
guerra e strusciandosi accanto alle navi da guerra russe con il rischio di una
scintilla che i dementi di Washington si augurano da tempo. Ma a ridicolizzare
l’idea di un’ iniziativa tutta del burattino georgiano,
di per sé grottesca per  l’assoluta
mancanza di autonomia nei confronti di chi lo ha messo e lo tiene in sella, ci
sono altri elementi.

 

Torna con Obama Brzezinski,
tornano gli assassini dei Balcani, torna l’Eurasia

I consiglieri per
la politica estera del autoproclamato reggicoda dei nazisionisti Barack Obama sono Madeleine Albright,
Segretaria di Stato di Clinton e fidanzata a Rambouillet
del tagliagole e narcotrafficante kosovaro Hashim Taqi, Richard Holbrooke, il
truffaldino disfacitore della Jugoslavia e Zbigniew Brzezinski, già consigliere di Jimmy Carter e da quattro
decenni massima personificazione dell’etica di guerra dell’elite Usa. Brzezinski aveva già indicato nel suo saggio “La grande scacchiera: Primato americano e imperativi geostrategici ” come, dopo la conquista delle Americhe, il centro per il dominio mondiale fosse diventato
l’Eurasia. Adesso, con un futuro presidente meno inibito di Carter,
è venuto il tempo per l’attuazione delle sue teorie. In un
articolo sul “Time” chiede alla “comunità
internazionale” se non sia disposta “a dimostrare al Cremlino che vi sono “costi fatali per lo scandaloso uso della forza al servizio di
anacronistici fini imperiali
”. “Le olimpiadi invernali a Sochi, in
Russia, vanno boicottate”,
comanda Brzezinski

e “all’invasione della Georgia va risposto come
rispondemmo all’invasione dell’Afghanistan e a Hitler”.
Fu nel
giugno 2008 che questo “venerato maestro” della geostrategia
imperialista sottopose all’amministrazione il copione da seguire per rimettere
nell’angolo la Russia
(vedi il sito kavkazcenter). Profetizzato che la Russia avrebbe
destabilizzato la Georgia
per impossessarsi dell’oleodotto Baku-Ceyhan, giugulare
delle petrolifere Usa-Gb per prendersi gli
idrocarburi del Caspio, isolando così l’Asia Centrale dall’economia mondiale e
provocando una crisi apocalittica all’ Occidente, ha
suggerito il rimedio: controllare i paesi dell’Asia centrale come chiave per controllare
l’intera Eurasia e mantenere la supremazia planetaria degli Usa. La motivazione
per la “guerra infinita al terrore” sta tutta lì. Accusando la Russia di ambizioni
imperiali, paragonando Putin a Stalin e Hitler e facendo il parallelo tra
quanto Stalin ha fatto alla Finlandia e “l’invasione russa della Georgia”. Messo in chiaro, da parte della Squadra A dell’imperialismo obamiano Brzezinski-Albright-Holbrooke,
che i russi stavano tagliando il cordone ombelicale dei rifornimenti energetici
al lattante occidentale, ripetuto goebbelsianamente

che Putin “è una minaccia”, “un autocrate”, un “restauratore sovietico”, “un
imperialista”, si passa al piano d’azione: ostracizzare la Russia, isolarla,
infliggerle sanzioni politiche ed economiche e soprattutto ricorrere al vecchio
trucco di Brzezinski quando attirò l’URSS nella
palude afghana: fallita la destabilizzazione della Cecenia: creare altri
focolai di logorante guerriglia e di sanguinario terrorismo metropolitano.
Per cui: vai, Saakashvili,
vai, fai casino in Ossezia, noi arriviamo dopo, una volta convinta l’opinione
pubblica mondiale che la minaccia mortale, il Mordor del fiancheggiatore letterario Tolkien,
nuovamente sta a Oriente. Una trappola? Sì, se si considera che, per motivi sia
etici che demografici, la Russia, in drammatico calo
delle nascite dal tempo dello sfacelo eltsiniano, non
può abbandonare né i 22 milioni di russi rimasti fuori dai confini dopo il
crollo dell’Urss, né le tante minoranze etniche russofone (osseti, abkhazi, centroasiatici) che devono scegliere tra la
sudditanza a pseudostati malavitosi sotto il tacco
statunitense, e il ritorno all’interno di una grande potenza che ne garantisca
difesa, dignità, progresso e immunità dai predatori occidentali.

 

Cosa c’è dietro e cosa viene dopo ll
conflitto in Caucaso

Cosa ha prodotto nell’immediato la
provocazione georgiana, al di là dell’attesa riemersione di un valido
antagonista e freno alle tirannie guerrafondaie occidentali, al di là anche
della deviazione dell’attenzione mondiale dall’abbagliante mattinata olimpica
cinese alla notte del ritorno dei morti viventi asiatici in Tibet e in Georgia.
Dello tsunami di un’informazione senza più remore
nella propria identificazione con la cupola mafiosa mondiale s’è detto. Polonia
e Usa hanno utilizzato l’occasione per sancire l’arrivo dello scudo
missilistico d’attacco, insieme a un flusso poderoso di armamenti, contro
l’opposizione del ben 70% dei polacchi. L’Ucraina non ha perso l’attimo e si è
dichiarata disposta a ospitare anche lei qualche bella batteria di missili
nucleari antirussi: non potrebbe essere minacciata da Tehran anche lei? Cechia, Ungheria, l’Italia che ha contrabbandato con Prodi
lo scudo d’attacco di nascosto anche dal parlamento, non sono più soli.
L’accerchiamento Usa della Russia e dell’avamposto antimperialista Bielorussia
e l’avanzata verso la Cina
si rafforzano. D’un tratto dal Baltico al Mar Nero non c’è stato Stato o pseudostato che non
strepiti per l’immediato ingresso nella Nato e, quindi, ovviamente in un’ Unione Europea sempre più alla mercé di infiltrati Usa,
degli Al Maliki e Karzai

polacchi, lettoni, ucraini, georgiani, bulgari, ungheresi, cechi e tutti gli
altri? La maggioranza dei 27 ! Altro che ruolo
autonomo dell’Europa, specie se, con il concorso di tutta questa bella gente e
l’apporto decisivo del Pentagono, gli Usa riusciranno a mettere le mani anche
sui rubinetti energetici dell’Asia, dopo quelli
mesopotamici (e domani sudanesi e africani). E sul mandato Usa a Saakashvili di assalire l’Ossezia del Sud non dice nulla un
dato dirimente come quello che non ha visto, al momento della deflagrazione,
aumentare il prezzo del greggio di neanche un centesimo, anzi continuare la
discesa, quando prima bastavano una sparata di Ahmadi Nejad, uno starnuto di Olmert, un voto per Chavez a
farlo schizzare in alto? I petrolieri Usa, vampiri della speculazione, sapevano
bene cosa era in gioco.

 

 

Equidistanti?

L’Europa, dopo
qualche borborigmo dissonante, è rientrata nel coro e si è fatta mettere in
rotta di collisione con il suo principale partner economico di lungo termine e,
con il voto dei nuovi entranti, ha dovuto mettere il silenziatore a qualunque
divergenza tra UE e Usa. Come nel caso dei Balcani e del Medio Oriente, anche
questa guerra è condotta contro l’Europa. La Nato, compatta, ha promesso sfracelli e immediate
inclusioni delle mafioclientele orientali. Con la
sollevazione dei terroristi ceceni manovrati dalla Cia e dal Mossad, sconfessati dalla stragrande maggioranza della
popolazione in successive votazioni,  con il Silk Road Strategy

Act  (Documento
strategico Via della Seta), con il GUUAM (Accordo Georgia, Ucraina, Uzbekistan,
Azerbaijan, Moldova) e con l’occupazione
dell’Afghanistan e dell’Iraq, gli Usa hanno scatenato operazioni belliche e
accordi economici tesi ad escludere la Russia dal sistema di rifornimenti energetici
dall’Asia all’Europa. La provocazione georgiana e l’inevitabile risposta russa
hanno fornito la ciccia ideologica – “le giovani democrazie
orientali assalite dall’imperialismo russo
” – per un consenso
pubblico logorato dal sempre più ridicolo fantasma Osama bin
Laden e dalla sempre più manifesta ipocrisia delle motivazioni per la guerra al
“terrorismo islamico”. Forse è tempo che dalle nostre parti si riattivi Gladio.
E pensare che, su questo sfondo, dove le ragioni stanno tutte da una parte e i torti tutti dall’altra, la “Reticella dei comunisti”, un
gruppetto postautonomia romano, intima ai comunisti
di “denunciare le conseguenze sociali devastanti della
competizione fra le diverse potenze, nessuna esclusa”
e impedire
ogni complicità con ognuna di esse. E “il manifesto” titola: “Chi tocca un russo muore: Medvedev

all’attacco della Nato”. Già, chi sta
alla finestra e chi canta con il pifferaio di Hamelin.
Sempre nel “manifesto” tocca tributare onore alla resistenza
del sempre eccellentemente informato Manlio Dinucci
che, al pari di Giulietto Chiesa clon
la solita competenza schierato accanto agli aggrediti, scompagina tutte le
ambiguità e superficialità del suo giornale: “E’ dal 1997
che la Georgia
riceve aiuti militari statunitensi
. E’ nel
2002, con il ‘Georgia Train and Equip Program’, che
Washington ha di fatto posto l’esercito georgiano sotto il proprio comando….La
prova generale è stata.

Fulvio Grimaldi
Mondocane Fuorilinea
24.08.2008

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