DI LORENZO ANSALONI
Asfalto Bagnato
Nel 1973, Huynh Cong Út vinse il premio Pulitzer con una
foto che sarebbe stata destinata ad imprimersi nella memoria
collettiva come un’icona della guerra e delle sue efferatezze. È
la foto di una bambina vietnamita, Kim Phuc, che corre nuda per la
strada, terrorizzata e disperata dopo un attacco con bombe al napalm
sul suo villaggio. La foto fece il giro del mondo e riportò
alla coscienza dell’opinione pubblica la crudeltà di una
guerra che (soprattutto a partire dal 1968) diventava via via sempre più impopolare.
Si sa che la guerra è sempre sporca ma
finché agli spettatori ne viene risparmiata la diretta visione
risulta più facile continuare le operazioni belliche
incontrando minori resistenze. L’attenzione governativa per
l’informazione in tempo di guerra non nasce certo con il conflitto
vietnamita ma per molti versi quest’ultimo ha rappresentato una sorta
di spartiacque. Non solo lo si può considerare la prima guerra
autenticamente televisiva ma è stato percepito
dall’establishment politico-militare e dagli stessi giornalisti come
un conflitto i cui esiti e sviluppi furono ampiamente influenzati dai
mass media. Sarebbe eccessivo addossare a quest’ultimi la sola
responsabilità degli esiti finali del conflitto (molti altri
fattori hanno concorso) cosi pure negarne ogni rilevanza, ma sta di
fatto che la percezione generale attribui ai media il ruolo maggiore
nel determinare la sconfitta statunitense. Conseguentemente, i
successivi governi americani non lasceranno al caso la copertura mass
mediatica di un’operazione bellica che entrerà a pieno titolo tra i
molteplici aspetti della sua pianificazione (Kumar 2006. p. 50).
Un sistema di controllo dell’informazione di guerra è stato
approntato e affinato nel corso degli ultimi trent’anni. Testato con
l’invasione di Grenada (1983), Panama (1989) e nella Prima Guerra del
Golfo, trova ora la sua piena e vincente applicazione nell’attuale
conflitto iracheno.
L’intervento armato in Iraq è stato
giustificato e legittimato dall’amministrazione Bush sulla base di
due principali tesi:
- Il possesso di “weapons of
mass destruction” (WMD) (armi di distruzione di massa) da parte
del governo iracheno. - Legami tra il regime di Saddam Hussein e al-Qaeda.
In Italia il dibattito ha preso direzioni
leggermente diverse: si è parlato abbondantemente dei presunti
armamenti non convenzionali iracheni e della brutalità del
regime di Baghdad, molto meno di presunti collegamenti tra il governo
iracheno e al-Qaeda.
A distanza di più di quattro anni
dall’inizio delle ostilità non sono state ritrovate armi di distruzione di massa su territorio iracheno né si è avuta
la prova dei presunti link tra Saddam e al-Qaeda. Potrebbe anche
trattarsi di un grossolano errore di valutazione ma in realtà
elementi per una più attenta e ponderata analisi del
“pericolo” Iraq erano disponibili ben prima del 19 marzo
2003, data d’inizio della guerra. Il 7 marzo 2003 il Direttore
Generale del IAEA (International Atomic Energy Agency), l’organo
incaricato delle ispezioni in Iraq dall’ONU, rilasciava una nota
in cui si legge:
“After three months of intrusive inspections,
we have no date found no evidence or plausible indication of the
revival of a nuclear weapons programme in Iraq“.(Dopo tre mesi
di ispezioni intrusive non abbiamo nessuna prova o indicazione
plausibile di una ripresa irachena di un programma di armamenti
nucleari)“There is no indication that Iraq has attempted to
import uranium since 1990“.(Non c’è nessuna indicazione
che l’Iraq abbia tentato di importare uranio dal 1990 in poi)
Non
solo le motivazioni addotte a supporto della guerra si basavano su
dati falsi (e falsati) ma anche le conseguenze sono state ben diverse
da quelle pubblicizzate dalla propaganda interventista. Si doveva
combattere il terrorismo ma un recente frammento declassificato del
National Intelligence Estimate avverte quello che non solo era
prevedibile ma che oggi è sotto gli occhi di tutti:
The Iraq
conflict has become the “cause celebre” for jihadists,
breeding a deep resentment of US involvement in the Muslim world and
cultivating supporters for the global jihadist movement.(Il
conflitto iracheno e diventato la “cause celebre” per gli
jihadisti, generando un profondo risentimento per il coinvolgimento
degli Stati Uniti nel mondo mussulmano e alimentando il numero di
sostenitori del movimento globale jihadista.)
Il rapporto prosegue
identificando nell’intervento militare una delle cause che hanno
alimentato il radicalismo e portato ad una nuova generazione di
terroristi dotati di una rete più decentralizzata e
difficilmente individuabile.
Sul piano del bilancio delle vittime, un
rapporto (“The Human Cost of the War in Iraq“)
dell’università
di Baltimora e Baghdad, prendendo in considerazione il periodo
2002-2006, parla di un totale di 655.000 vittime dall’inizio
dell’invasione (cifre ben distanti dalle 30.000 vittime dichiarate
dalla Casa Bianca per lo stesso periodo) mentre il numero dei soli
militari americani morti dall’inizio delle ostilità ha
superato abbondantemente quota 3000 (grossomodo lo stesso numero di
persone che persero la vita negli attentati del 11 settembre). Anche
sul piano della stabilità il bilancio non è certo
roseo: Il New York Times (1/11/2006 “Military Charts Movement of
Conflict in Iraq Toward Chaos“) entra in possesso e pubblica una
parte di un documento classificato del Commando Centrale degli Stati
Uniti. Un’unica slide, parte di un documento dedicato ad un breefing
interno in cui da un grafico si evince facilmente come la situazione
interna irachena sia prossima al caos. Risultato anche in questo caso
non sorprendente se si pensa che l’attuale territorio iracheno non ha
nessuna legittimazione dal punto di vista storico e culturale
risultando, almeno in parte, un’invenzione dell’imperialismo
britannico che con confini tracciati a tavolino, sancì
l’attuale forma dello stato nazione comprendente tre distinte culture
(Curdi, Sciiti e Sunniti) che storicamente non avevano molto a che
spartire. (Cfr. Strika 1993. p. 36 e successive).
Un recente rapporto del Comitato Internazionale
della Croce Rossa insiste sugli stessi punti denunciando lo stato drammatico di un
paese gravemente minato nelle sue infrastrutture (sistema sanitario,
acqua e elettricità in particolare) e di una popolazione
civile che sta pagando il prezzo più alto del protrarsi del
conflitto.
Cercherò di dimostrare nelle sezioni che seguono
come i media americani abbiano fallito nel loro ruolo di controllore
(watchdog) della democrazia rendendosi in buona parte responsabili
degli esiti funesti dell’invasione e aggregando il consenso interno
alla politica dell’amministrazione Bush.
Project for the New American
Century (PNAC): il movente.
Il Project for the New American Century
(PNAC) (Progetto per un nuovo secolo americano) è un’associazione no-profit
fondata nel 1997 “whose goal is to promote American global
leadership” (il cui scopo è di promuovere la leadership
americana a livello globale).
Espressione del conservatorismo
americano, la PNAC conta (o contava) tra le sue fila molti nomi
illustri dell’attuale amministrazione Bush e del partito repubblicano
in generale: Dick Cheney (vice presidente), Donald Rumsfeld
(ex-segretario della difesa), Paul Wolfowitz (ex-sottosegretario
della difesa) sono probabilmente i nomi più conosciuti. Dopo
l’elezione di Bush alla Casa Bianca nel 2000 circa una ventina di
membri della PNAC trovarono posto all’interno dell’amministrazione
Bush a testimonianza, almeno, di una comunanza di vedute tra i
principi della PNAC e le linee del governo. I primi sono stati
definiti, e non senza ragione, espressione di un nuovo imperialismo
americano. Negli statement of principles (dichiarazioni di principio)
dell’organizzazione, leggiamo:
We need to strengthen our ties to
democratic allies and to challenge regimes hostile to our interests
and values.(Dobbiamo rinforzare i nostri legami con gli alleati
democratici e sfidare regimi ostili ai nostri interessi e valori.)
Più in generale, nella PNAC trovavano una realizzazione
compiuta le idee che diversi falchi dell’amministrazione repubblicana
erano venuti maturando dalla fine della Guerra Fredda. Già nel
1992 Wolfowitz e Libby, nel documento classificato del Pentagono
Defense Planning Guidance, gettarono le basi di quella che da allora
sarebbe stata conosciuta come “Dottrina Wolfowitz“. Ripresa
dalla PNAC, la dottrina Wolfowitz, teorizzava il ritorno ad una
politica estera aggressiva sul modello reaganiano che avrebbe dovuto
mirare a sbarrare la strada ad ogni potenziale sfida all’egemonia
statunitense impedendo a poteri ritenuti ostili o contrari agli
interessi americani di esercitare un controllo su risorse strategiche
(Cfr. Ryan 2002). E che questa posizione comportasse come corollario anche
una risoluzione del “problema” Iraq sembra evidente dalla
lettera pubblica inviata al presidente Clinton il 26 gennaio 1998
(firmata tra gli altri da Wolfowitz e Rumsfeld):
We urge you to seize
that opportunity, and to enunciate a new strategy that would secure
the interests of the U.S. and our friends and allies around the
world. That strategy should aim, above all, at the removal of Saddam
Hussein’s regime from power. We stand ready to offer our full support
in this difficult but necessary endeavor.(La incoraggiamo a cogliere
questa opportunità e a enunciare una nuova strategia che
garantirebbe gli interessi degli Stati Uniti e dei nostri amici e
alleati nel mondo. Questa strategia dovrebbe mirare soprattutto alla
rimozione del regime di Saddam Hussein dal potere. Siamo pronti a
fornirle il nostro pieno supporto in questo difficile ma necessario
compito.)It hardly needs to be added that if Saddam does acquire the
capability to deliver weapons of mass destruction, as he is almost
certain to do if we continue along the present course, the safety of
American troops in the region, of our friends and allies like Israel
and the moderate Arab states, and a significant portion of the
world’s supply of oil will all be put at hazard.(Non c’è
bisogno di aggiungere che se Saddam acquisisse la capacità di
distribuire armi di distruzione di massa, come quasi certamente farà
se continuiamo nell’attuale linea politica, la sicurezza delle truppe
americane nella regione, dei nostri amici e alleati come Israele,
degli stati arabi moderati e di una significativa porzione delle
scorte mondiali di petrolio verrebbe messa a rischio.)We believe
the U.S. has the authority under existing UN resolutions to take the
necessary steps, including military steps, to protect our vital
interests in the Gulf. In any case, American policy cannot continue
to be crippled by a misguided insistence on unanimity in the UN
Security Council.(Crediamo che gli Stati Uniti abbiano l’autorità
d’intraprendere i necessari passi (incluse azioni militari)
conformemente alle esistenti risoluzioni ONU al fine di proteggere i
nostri interessi vitali nel Golfo. In ogni caso, la politica
americana non può continuare ad essere bloccata da una
fuorviante insistenza sull’unanimità [di voto] nel Consiglio
di Sicurezza dell’ONU.)
Già nel 1998, la PNAC identificava
nell’Iraq il principale obiettivo di quella che sarebbe dovuta essere
la politica americana. Nessuna menzione del rispetto dei diritti
umani, né del carattere dittatoriale del governo iracheno.
Circa un mese dopo i membri della PNAC furono tra i principali
sostenitori del “Iraqi Liberation Act” con cui il Congresso
autorizzava lo stanziamento di 97 milioni di dollari di aiuti ai
gruppi dell’opposizione irachena (ivi incluso l’Iraqi National
Congress: in una certa misura una creazione artificiosa sponsorizzata
con aiuti statunitensi). La volontà di occuparsi di Saddam
Hussein era dunque ben presente prima degli attacchi del 11 settembre
e fu ulteriormente ribadita in una successiva lettera inviata al
presidente Bush il 20 settembre 2001 (9 giorni dopo l’attacco):
It
may be that the Iraqi government provided assistance in some form to
the recent attack on the United States. But even if evidence does not
link Iraq directly to the attack, any strategy aiming at the
eradication of terrorism and its sponsors must include a determined
effort to remove Saddam Hussein from power in Iraq.(Potrebbe essere
che il governo iracheno abbia fornito una qualche forma di assistenza
ai recenti attacchi agli Stati Uniti. Ma anche se non c’è
nessuna prova che colleghi l’Iraq all’attacco, ogni strategia tesa
ad eradicare il terrorismo e i suoi sponsor deve includere un deciso
sforzo indirizzato alla rimozione di Saddam Hussein dal potere.)
Documento interessante nella misura in cui testimonia la propensione
per un intervento armato in Iraq anche in assenza di una diretta
evidenza di connessioni tra Baghdad e al-Qaeda (Cfr. Calabrese 2005).
Nel meeting del 12 settembre 2001 (il giorno dopo l’attacco
terroristico al World Trade Center) del National Security Council (NSC),
Rumsfeld e Cheney si dichiararono a favore di un’immediata azione nei
confronti di Saddam Hussein incontrando però l’opposizione di
Powell che ammonì il presidente ricordando come ogni azione
necessiti dell’appoggio dell’opinione pubblica (Altheide and Grimes
2005, Foyle 2004). L’intervento in Iraq fu rimandato al fine di
guadagnare il tempo necessario per organizzare e raccogliere il
consenso necessario.
In conclusione, l’invasione del Iraq e il
cambiamento di regime erano già stati pianificati e messi in
agenda prima degli attacchi terroristici e prima della vittoria
repubblicana alle elezioni del 2000. Bush in in certo senso ha
ereditato o sposato una linea di politica estera che aveva avuto la
sua gestazione tra le fila della PNAC.
Lo studio di Kull sulle Misperceptions
Steven Kull (insieme a Clay Ramsay e Evan Levis)
dell’Università del Maryland hanno pubblicato un articolo su
Political Science Quarterly che ha avuto molta risonanza in ambiente
accademico. Avvalendosi di una serie di sondaggi, Kull ha condotto
una studio finalizzato a rintracciare la presenza di tre principali
misperceptions (false credenze) nel pubblico americano mettendole di volta in volta in
correlazione con i mass media a cui i soggetti erano esposti e con la
decisione finale di accordare o meno il loro supporto all’intervento
militare in Iraq. Sono state prese in considerazione tre
misperceptions:
- 1- È stata trovata una chiara evidenza di una
collaborazione tra il governo di Saddam Hussein e al-Qaeda.
- 2- Armi
di distruzione di massa (WMD) sono state trovate in Iraq.
- 3- L’opinione pubblica mondiale, nel suo complesso, supportava la
decisione degli US di una guerra in Iraq.
Tutte queste credenze sono
false e contrarie ai fatti. Prima dell’inizio della guerra la
credenza che l’Iraq possedesse WMD, propriamente parlando, non poteva
considerarsi una credenza falsa perché mancavano prove della
sua falsità. In analoga misura, mancando prove a sostegno
della sua validità, andava considerata semplicemente come una
credenza infondata e non supportata da nessuna evidenza, solo
probabilmente falsa dati i resoconti degli ispettori dell’IAEA.
Diverso è il caso della credenza “Sono state ritrovate
WMD in Iraq”: dopo l’inizio del conflitto ad oggi, questa
affermazione è semplicemente falsa e contraria ai fatti.
Misperception è da intendersi in quest’ultima accezione. Le
tre credenze sopra elencate sono quindi da considerarsi tutte allo
stesso modo false (per un quadro sugli andamenti dell’opinione pubblica mondiale sull’intervento armato in Iraq si veda Goot 2004).
Il primo risultato, se vogliamo il meno
interessante, è una diretta proporzionalità tra la
presenza di false credenze in un campione di riferimento e la sua
propensione a dichiararsi favorevole ad un intervento armato in Iraq.
I soggetti il cui giudizio era inficiato da una o più delle
misperceprions prese in esame si è dimostrato 4,3 volte più
favorevole alla guerra rispetto a soggetti che non presentavano nessuna di
queste misperceptions (Kull, Ramsay, Lewis 2003-04 p.580). Il passo successivo consisteva
nell’investigare la possibile fonte delle false credenze: il campione
(3334 soggetti) preso in esame ha dichiarato per il 19% di informarsi
principalmente attraverso i quotidiani e per un 80% attraverso
telegiornali televisivi. I risultati mostrano come i soggetti che
seguivano e ottenevano le loro informazioni attraverso alcuni network
erano più soggetti al formarsi di false credenze rispetto ad
altri. Una classifica globale delle tre misperceptions in questione
assegna la maglia nera dell’informazione a Fox News: l’80% dei suoi
ascoltatori presentava una o più false credenze, seguita da
CBS (71%), ABC (61%), CNN (55%), NBC (55%), quotidiani e carta
stampata (47%), NPR/PBS (23%) (Kull, Ramsay, Lewis 2003-04 p.582). Sfortunatamente Fox News
è il più seguito mentre i due network pubblici NPR e
PBS sono il fanalino di coda in termini di ascolti.
Sorprendentemente, quando si è passati all’analisi del livello
di attenzione nel guardare o leggere le news, si è notato come
non vi fosse nessuna significativa correlazione tra esso e la
probabilità di sviluppare false credenze con una singola
eccezione: Fox News. In questo caso all’aumentare del grado di
attenzione con cui i soggetti seguivano le news, si è
riscontrato un aumento percentuale delle false credenze
(sull’atteggiamento parziale di Fox News si veda anche Ryan 2006 e
Kellner 2004a). Lo studio di Kull identifica nella presenza delle
false credenze il fattore più importante nel predire il
supporto alla guerra (Kull, Ramsay, Lewis 2003-04 p.596) tallonato a breve distanza
dall’intenzione di votare per il presidente Bush e il fatto che i
media americani siano la principale fonte di queste false credenze
non può non risultare preoccupante.
I media (in buona parte)
hanno fallito nel loro ruolo di watchdog della democrazia assumendo
posizioni in alcuni casi schiettamente filo governative (es. Fox News) e
abbandonando ogni pretesa di obbiettività e ogni spirito
critico. Noi ci basiamo su informazioni nei nostri processi
decisionali più semplici: se dobbiamo sbrogliare una certa
pratica burocratica cerchiamo di informarci preventivamente sugli
orari di apertura dell’ufficio preposto e pianifichiamo la nostra
agenda di conseguenza. Se questa informazione dovesse risultare falsa
rischiamo di trovare l’ufficio chiuso. Una decisione come quella di
accordare o meno il supporto all’intervento armato in Iraq non è
sotto questo rispetto molto differente: le informazioni ottenute dai
media (semplificando) andranno a costituire gli assiomi o le premesse dei
ragionamenti che addurremo pro o contro una tale decisione ma se
queste premesse sono false è ovvio che la correttezza della
conclusione non può più essere garantita.
Manipolazione
dell’informazione e propaganda: Gli arnesi del mestiere
Senza quanto
accaduto l’11 settembre nessun intervento armato (in Afghanistan o in
Iraq) sarebbe stato possibile (Cfr Foyle 2004). L’opinione pubblica
americana è tradizionalmente contraria a interventi armati
contro altri stati ammenoché non vi sia una minaccia diretta per la
sicurezza nazionale.
Nei giorni immediatamente seguenti l’attacco, il
supporto interno per un intervento armato era molto alto: il 15
settembre (quattro giorni dopo l’attacco) un sondaggio condotto per
Gallup/CNN/USA Today indicava in Osama bin Laden il principale
responsabile dell’attacco (64%) seguito dall’Iraq (41%) mentre parte
del campione nominava anche i palestinesi (35%) e il Pakistan (31%)
(Foyle 2004). L’opinione pubblica, nonostante identificasse come
primo responsabile bin Laden, era per certi versi pronta a supportare
una reazione contro l’Iraq (Cfr. Althaus, Largio 2004). Data la volontà
dell’amministrazione di occuparsi della questione Iraq (preesistente
agli attacchi del 11 settembre: vedi sezione sulla PNAC) rimane
aperta la questione del perché il governo non abbia colto la
palla al balzo e attaccato immediatamente Baghdad. A questo proposito
va detto che scegliere di non occuparsi di al-Qaeda e attaccare
direttamente l’Iraq avrebbe suscitato molte perplessità: se è
vero che il supporto per un’azione militare fu molto alto nei giorni
seguenti all’attacco terroristico alle Twin Tower è
altrettanto vero che il principale responsabile venne individuato in
bin Laden. Un attacco diretto all’Iraq sarebbe risultato
incomprensibile non solo per gran parte dell’opinione pubblica
americana ma anche e soprattutto per l’opinione pubblica mondiale.
Non ultimo sarebbe risultato estremamente problematico ottenere una
qualche forma di legittimazione dall’ONU. In un sondaggio (del
12/8/2002) dell’ABC News/Washington Post il 75% del campione ritenne
che Bush dovesse ottenere il consenso del Congresso prima di
intraprendere un’azione militare contro l’Iraq e in un altro
sondaggio commissionato da Gallup/CNN/USA Today, il 68% degli
intervistati ritenne necessaria un’approvazione dell’ONU (Foyle 2004,
p.278). Un’azione unilaterale contro Baghdad nelle prime settimane o
mesi seguenti l’attacco dell’11 settembre sarebbe quindi risultata
estremamente problematica dal punto di vista della raccolta del
consenso sia interno che internazionale e un attacco simultaneo ad
entrambi gli obiettivi (Afghanistan e Iraq) troppo dispersivo e
rischioso (Foyle 2004, p.275). Nell’amministrazione americana ha
prevalso quindi una tattica più prudente e accurata: nelle
parole di Colin Powell: “Any action needs public support. It’s
not just what the international coalition supports; it’s what the
American people want to support. The American people want us to do
something about al Quaeda” (Foyle 2004, p.275) (Ogni azione necessita del supporto dell’opinione pubblica. Il punto non è solo cosa la coalizione internazionale sia disposta ad appoggiare ma anche cosa gli americani vogliano appoggiare. Gli americani vogliono che si faccia qualcosa per al Quaeda).
La raccolta del
consenso attuata dall’amministrazione Bush non è stata quindi
lasciata al caso ma ha assunto la forma di un piano particolarmente
curato che possiamo riassumere nei seguenti punti:
- Uso di artifici
retorici o di vere e proprie fallace logiche nei discorsi ufficiali - Uso di giornalisti embedded
- Uso di informazioni false, parziali o
decontestualizzate
Lorenzo Ansaloni
Fonte: http://asfalto_bagnato.blog.tiscali.it/
Link: http://asfalto_bagnato.blog.tiscali.it/gm3289987/
05.06.2007