FUGA DA BAGHDAD

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DI GIANLUCA FREDA
Blogghete!

Sono affezionato alla ragazza irakena che si firma, sul suo blog, con lo pseudonimo di Riverbend. Per anni è stata una delle mie principali fonti d’informazione sulla realtà della vita quotidiana in Iraq dopo la brutale aggressione statunitense del 2003. Quell’atroce realtà di sofferenza quotidiana che i media non ci hanno raccontato per non incorrere nell’ira dei loro padroni americani, intenti a proclamare le loro “missioni compiute” e a inscenare ridicole farse elettorali in paesi che della loro “democrazia” sanguinaria avrebbero fatto volentieri a meno. La prima traduzione di un articolo straniero che pubblicai su questo blog fu proprio quella di un pezzo di Riverbend, in cui si denunciava la regressione della libertà e dei diritti delle donne irakene seguita all’invasione americana. Sei mesi fa Riverbend aveva annunciato la sua intenzione di lasciare, insieme alla propria famiglia, un Iraq divenuto ormai un inferno invivibile. Sono seguiti, sul suo blog, lunghi mesi di silenzio. Ora ha scritto un nuovo articolo in cui racconta i dettagli della sua fuga in Siria, il dolore di abbandonare, forse per sempre, il suo paese natale, la rabbia per le atrocità commesse dagli americani e dai loro complici. Lo traduco di seguito, per chi è curioso di sapere com’è andata a finire.ANDANDO VIA DA CASA…

DI RIVERBEND
Baghdad Burning

Due mesi fa le valigie erano già pronte. La mia grande valigia solitaria restò seduta sul mio letto per quasi sei settimane, così piena di vestiti ed oggetti personali che ci siamo voluti io, mio fratello E. e il bambino di sei anni dei nostri vicini per riuscire a chiudere la lampo.

Riempire quella valigia è stata una delle cose più difficili che io abbia mai fatto. Era una Missione Impossibile: La tua missione, R., se accetterai, sarà quella di passare in rassegna gli oggetti che hai accumulato in quasi trent’anni di vita e decidere di quali non puoi fare a meno. La difficoltà della tua missione, R., sta nel dover contenere questi oggetti nello spazio complessivo di 1×0,7×0,4 metri. Inclusi, ovviamente, i vestiti che dovrai indossare nei prossimi mesi e tutti i ricordi personali: foto, diari, animali di pezza, CD e roba simile.

L’ho fatta e disfatta per quattro volte. Ogni volta che la svuotavo, giuravo che avrei eliminato gli oggetti non strettamente necessari. Ogni volta che tornavo a riempirla, aggiungevo più roba di quanta ce ne fosse la volta prima. Alla fine, dopo un mese e mezzo, E. insistette perché la chiudessimo per evitare che fossi tentata di aggiornare in continuazione il suo contenuto.

La decisione di far portare ad ognuno di noi una sola valigia era stata presa da mio padre. Diede un’occhiata agli scatoloni di ricordi assortiti che stavamo preparando e fu perentorio. Vennero acquistate quattro grandi valigie identiche, una per ogni membro della famiglia, più una quinta più piccola, che fu tirata fuori da un armadio, per la documentazione di cui avremmo avuto bisogno: certificati di laurea, documenti d’identità, ecc.

Aspettammo… e aspettammo… e aspettammo. Si decise che saremmo partiti nella seconda metà di giugno, una volta finiti gli esami, visto che volevamo partire insieme a mia zia e ai suoi due bambini. Era il momento considerato più opportuno da tutte le persone coinvolte. Il giorno che avevamo deciso di indicare come IL GIORNO, fummo svegliati da un’esplosione a meno di 2 km. di distanza e ci informarono che c’era il coprifuoco. Il viaggio fu rimandato di una settimana. La sera prima della partenza programmata, l’autista del fuoristrada che doveva portarci al confine ci avvisò che non poteva partire: suo fratello era appena stato ucciso in una sparatoria. Ancora una volta, si dovette rimandare.

Ci fu un momento, durante le ultime giornate di giugno, in cui non facevo altro che sedermi sulla mia valigia chiusa e piangere. Ai primi di luglio, ero convinta che non saremmo mai andati via. Ero sicura che i confini dell’Iraq fossero ormai lontani, per me, quanto i confini dell’Alaska. Ci avevamo messo più di due mesi a decidere di partire in macchina anziché in aereo. C’era voluto un altro mese per scegliere la Siria invece che la Giordania. Quanto ci sarebbe voluto per programmare di nuovo la partenza?

Successe tutto quasi nell’arco di una notte. Mia zia telefonò con l’eccitante notizia che uno dei suoi vicini sarebbe partito per la Siria entro 48 ore perché suo figlio aveva ricevuto delle minacce; voleva che un’altra famiglia si mettesse in strada insieme a loro con un’altra auto. Come per le gazzelle nella giungla, spostarsi in gruppo è più sicuro. Ci furono due giorni di attività frenetica. Controllammo che tutto ciò di cui potevamo aver bisogno fosse preparato e messo in valigia. Recuperammo un lontano cugino di mia mamma, chiedendogli di restare nella nostra casa con la sua famiglia e di venire da noi la sera prima della partenza (non potevamo lasciare la casa vuota, perché qualcuno se la sarebbe presa).

L’addio alla nostra casa fu pieno di lacrime. Un’altra delle mie zie e uno zio vennero a salutarci la mattina della partenza. Era un mattino solenne e negli ultimi due giorni mi ero allenata per non piangere. Non piangerai, continuavo a dirmi, perché ritorneremo. Non piangerai perché è solo una piccola gita, come quelle che facevamo a Mosul e a Basrah prima della guerra. Nonostante cercassi di garantire a me stessa che saremmo ritornati sani e salvi, trascorsi molte ore prima di partire con un groppo enorme saldamente piazzato in gola. Avevo gli occhi rossi e mi colava il naso, nonostante tutti i miei sforzi. Dissi a me stessa che m’ero presa un’allergia.

La notte prima di partire non dormimmo, perché sembravano esserci così tante piccole cose da fare… fu una fortuna che non ci fosse elettricità: il generatore di zona era guasto ed era inutile sperare nella “elettricità nazionale”. Non c’era proprio tempo per dormire.

Le ultime ore passate in casa sono confuse. Era tempo di partire e io andavo di stanza in stanza dicendo addio a tutte le cose. Dissi addio alla mia scrivania, che avevo usato durante le scuole superiori e l’università. Dissi addio alle tende, al letto e al divano. Dissi addio alla poltrona che io e E. avevamo rotto quando eravamo bambini. Dissi addio al grande tavolo su cui ci riunivamo per mangiare e per fare i compiti. Dissi addio ai fantasmi dei dipinti in cornice che una volta pendevano dal muro, perché i dipinti erano stati rimossi da tempo e conservati. Ma io ricordavo dove ognuno di essi era appeso. Dissi addio allo stupido gioco da tavolo su cui finivamo sempre per litigare: il Monopoli arabo, con le carte mancanti e le banconote che nessuno aveva avuto il coraggio di buttare via.

Sapevo bene, come lo so adesso, che erano solo oggetti; le persone sono molto più importanti. Eppure, una casa è come un museo, nel senso che racconta una certa storia. Guardi una tazza o un giocattolo di peluche e un intero capitolo di ricordi si apre di fronte ai tuoi occhi. All’improvviso mi venne in mente che desideravo partire molto meno di quanto avessi creduto.

Finalmente arrivarono le sei di mattina. Il fuoristrada ci aspettava fuori mentre prendevamo il necessario: un thermos di tè caldo, biscotti, succhi di frutta, olive (olive?!) che mio papà insisteva a voler portare con noi in macchina, ecc. Mia zia e mio zio ci guardavano pieni di tristezza. Non c’è altro modo di descriverlo. Era lo stesso sguardo che io avevo negli occhi quando guardavo altri parenti e amici che si preparavano a partire. Una sensazione di impotenza e disperazione, mista di rabbia. Perché tutte le brave persone dovevano andarsene via?

Piansi mentre partivamo, nonostante avessi promesso di non farlo. La zia pianse… lo zio pianse. I miei genitori cercarono di essere stoici, ma c’era pianto nelle loro voci mentre dicevano addio. La parte peggiore del dire addio è il chiedersi se vedrai mai più le persone che hai davanti. Mio zio mi allacciò lo scialle che mi ero messa intorno ai capelli e mi consigliò vivamente di “tenerlo addosso fino al confine”. La zia venne dietro di noi mentre la macchina usciva dal garage e versò a terra una coppa d’acqua. E’ una tradizione, serve ad assicurarsi che i viaggiatori torneranno sani e salvi… prima o poi.

Il viaggio fu lungo e senza eventi di rilievo, eccetto la sosta a due checkpoint presidiati da uomini a volto coperto. Ci chiesero i documenti, diedero un’occhiata sommaria ai passaporti e ci domandarono dove stessimo andando. Fecero la stessa cosa con la macchina dietro di noi. I checkpoint sono terrificanti, ma ho imparato che la tecnica migliore è evitare il contatto degli occhi, rispondere con educazione alle domande e pregare sottovoce. Io e mia madre ci eravamo curate di non indossare monili vistosi, non si sa mai, e avevamo gonne lunghe e sciarpe intorno alla testa.

La Siria è l’unico paese, oltre alla Giordania, che consenta alle persone di entrare senza visto. I giordani si comportano in modo orribile con i rifugiati. Le famiglie rischiano di essere riportate al confine giordano o di vedersi negare l’ingresso all’aeroporto di Amman. Per molte famiglie è un rischio troppo alto.

Aspettammo per ore, benché l’autista che era con noi avesse “conoscenze”, cioè fosse andato e venuto dalla Siria così tante volte da sapere quali persone corrompere per garantirci l’attraversamento sicuro del confine. Sedevo nervosa sull’orlo del sedile. Le lacrime si erano fermate circa un’ora dopo aver lasciato Baghdad. Vedere le strade sporche, le case e gli edifici in rovina, l’orizzonte ricoperto di fumo, mi aveva aiutato a capire quanto fossi fortunata ad avere la possibilità di andarmene in un posto più sicuro.

Quando fummo fuori da Baghdad, il petto non mi fece più male come mentre la stavamo lasciando. Le macchine intorno a noi sul confine mi rendevano nervosa. Odiavo dovermene stare in mezzo a così tanti possibili veicoli esplosivi. Una parte di me avrebbe voluto studiare i visi delle persone che avevo intorno, famiglie per lo più, ma l’altra parte, quella che per gli ultimi quattro anni si è allenata a stare lontano dai guai, mi diceva di tenere gli sguardi per me. Era quasi finita.

Finalmente arrivò il nostro turno. Me ne stavo seduta rigidamente in macchina aspettando che i soldi passassero di mano; i nostri passaporti vennero esaminati e finalmente timbrati. Ci fecero entrare e l’autista sorrise di soddisfazione: “E’ stato un viaggio facile, Ahmadulillah”, disse in tono scherzoso.

Mentre attraversavamo il confine e guardavamo sventolare le ultime bandiere irakene, le lacrime ricominciarono. L’auto era silenziosa, eccetto che per il cicaleccio dell’autista che ci raccontava delle scappatelle avute durante i suoi viaggi oltreconfine. Diedi un’occhiata a mia madre, che era seduta accanto a me, e anche il suo viso era pieno di lacrime. Non c’era semplicemente nulla da dire mentre lasciavamo l’Iraq. Avrei voluto singhiozzare, ma non volevo sembrare una bambina. Non volevo che l’autista pensasse che non fossi grata per la possibilità che mi era stata offerta di abbandonare ciò che negli ultimi quattro anni e mezzo era diventato un posto d’inferno.

Il confine siriano era quasi altrettanto gremito, ma l’ambiente era più rilassato. La gente usciva dalle auto e si stiracchiava. Alcuni si riconoscevano tra loro e si salutavano o si scambiavano tristi storie e commenti attraverso i finestrini della macchina. Cosa più importante, eravamo tutti uguali, sunniti e sciiti, arabi e curdi… tutti uguali dinanzi agli ufficiali del confine siriano.

Eravamo tutti rifugiati, poveri e ricchi. E i rifugiati hanno tutti lo stesso aspetto. Troverete sui loro volti un’espressione inconfondibile, di sollievo misto ad apprensione. Sembrava quasi che le facce fossero tutte uguali.

I primi minuti dopo aver passato il confine furono insostenibili. Insostenibile sollievo e insostenibile tristezza… Com’è possibile che la distanza di qualche chilometro e di forse venti minuti separi in modo così netto la vita dalla morte?

Com’è possibile che un confine che nessuno può vedere o toccare sia il discrimine tra le autobombe, le milizie, gli squadroni della morte e… la pace, la sicurezza? E’ difficile da credere, perfino adesso. Sono qui seduta che scrivo queste righe e mi domando perché non si sentano più esplosioni.

Mi domando perché le finestre non tremino più per gli aerei che ci passano sulla testa. Cerco di liberarmi dal timore che uomini armati vestiti di nero irrompano dalla porta, dentro le nostre vite. Cerco di abituare gli occhi alle strade libere dai posti di blocco, dai veicoli blindati, dalle immagini di Moqtada e da tutto il resto…

Com’è possibile che tutto questo sia a una breve gita in auto di distanza?

Versione originale:

Riverbend
Fonte: http://riverbendblog.blogspot.com/
Link
06.09.2007

Versione italiana:

Fonte: http://blogghete.blog.dada.net
Link
Traduzione di Gianluca Freda

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