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Follia, cura e repressione: alcune riflessioni non allineate sulla tragica morte della collega Barbara Capovani

Riceviamo e pubblichiamo dal medico e psicanalista Paolo Azzone in merito al caso della psichiatra aggredita da un ex paziente e deceduta a causa delle ferite riportate.
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A cura di Redazione CDC
Il 5 Maggio 2023
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Follia, cura e repressione: alcune riflessioni non allineate sulla tragica morte della collega Barbara Capovani

Di Paolo Azzone

Un delitto atroce. Una collega, una donna, la madre di tre bambini, è stata massacrata da uno squilibrato invaso dall’odio, accecato dall’immaginaria potenza che solo l’esercizio della violenza sa offrire. L’immagine di questa donna richiama alla mente altre vittime, altri colleghi caduti sul campo in una professione indubbiamente pericolosa.

Un brivido mi corre lungo la schiena. E sperimento un’altra volta la paura, la rabbia, il desiderio di vendetta.

La reazione emotiva scatenata da queste tragedie è pericolosa. C’è il rischio di lasciarsi trascinare da emozioni primitive e irrazionali. Scorrendo i media e le chat sui social trovo proprio queste reazioni istintive e percepisco il pericolo umano e sociale che rappresentano. Proprio per questo sento il bisogno di consegnare ai lettori alcune riflessioni.

Psichiatria e controllo sociale

La realtà del trattamento dei pazienti psichiatrici gravi ha poco in comune con la rappresentazione che ne danno i media e con lo stesso ordinamento giuridico. La legge Basaglia prevedeva la chiusura degli ospedali psichiatrici e privava la psichiatria nel suo complesso di qualsiasi funzione non strettamente terapeutica. In sostanza poneva fine al ruolo di controllo sociale affidato per secoli alle istituzioni della salute mentale.

Oggi la figura di Basaglia viene periodicamente rievocata e celebrata, non tanto dai professionisti del settore, che per lo più lo ricordano a stento, ma dalle autorità, dalle istituzioni pubbliche, dalla stampa.

Nei fatti, tuttavia – è bene che il lettore lo sappia – della sua riforma non rimane assolutamente nulla. Oggi la maggior parte dei pazienti psichiatrici più gravi sono sottoposti a misure di sicurezza in ambienti comunitari. In sostanza sono sottoposti a ricoveri obbligatori in strutture di lungodegenza. Per mesi, per anni. Spesso per sempre.

L’unica differenza che possiamo riscontrare rispetto alla reclusione manicomiale è la dimensione delle strutture (oggi in effetti molto più piccole) e la loro natura giuridica (strutture in larga maggioranza private anziché pubbliche).

In questo contesto segnalo due serie difficoltà:

  • almeno la metà dei pazienti affidati alle nostre cure non sono portatori di patologie psichiche, ma rientrano nella più generale e specifica realtà della devianza: balordi, alcolisti, tossicodipendenti e addirittura delinquenti comuni. È chiaro che non possiamo dare alcun contributo alla gestione di queste vicende umane, che in genere richiedono strutture più contenitive e approcci strettamente educativi.
  • Lo psichiatra si trova spesso schiacciato tra l’apparato giudiziario ed il paziente autore di reato. Gli si chiede di incontrare, curare, ma anche di sorvegliare, controllare, garantire la sicurezza del paziente, e della collettività. Di fatto, però, non dispone di strumenti adeguati ad interagire con soggetti caratterizzati da elevata capacità delinquenziale.

Insomma siamo come i coscritti della prima guerra mondiale, che ufficiali spietati mandavano alla morte senza troppi scrupoli.

Riduzionismo materialista

Insomma se alcuni pazienti psichiatrici odiano i servizi psichiatrici e noi operatori che li animiamo, non possiamo dire che abbiano tutti i torti. Gli psichiatri non sono stati capaci di opporsi ad una completa distorsione del processo di cura territoriale per come si era configurato negli anni ‘70.

La legge Basaglia fu il frutto di un più vasto movimento culturale europeo, denominato antipsichiatria. Autori come Thomas Szasz, Ronald Laing, Michel Foucault misero in discussione lo status scientifico della psichiatria e denunciarono la sua integrazione nei sistemi repressivi della società borghese.

La loro opera ebbe un’enorme risonanza negli anni ‘70, ma è ora dimenticata. Oggi la psichiatria si è nuovamente volta ad un modello che concettualizza la malattia mentale come un fatto puramente somatico. Con Engel (1), non dubita che lo stato epistemico della schizofrenia sia identico a quello delle malattie cardiovascolari o del diabete. In questo contesto i benefici dei trattamenti farmacologici vengono comunemente sopravvalutati rispetto a vari paradigmi psicosociali e la mente umana viene abitualmente concettualizzata come un dispositivo inanimato, come una macchina disfunzionale che solo il farmaco miracoloso potrà riparare.

Il dissenso del paziente, la sua non rara diffidenza paranoide verso cura e curante appaiono in questa prospettiva come un fastidioso intralcio, un ostacolo da rimuovere con qualsiasi mezzo. Si può allora configurare (e spesso si configura nei fatti) una relazione medico-paziente caratterizzata da radicale contrapposizione, sospetto e aperta ostilità. In questo contesto l’ostinata opposizione del paziente ed i frequenti interventi repressivi del sistema giuridico-sanitario si rinforzano reciprocamente, in una spirale destinata a incrementare e cronicizzare odio paranoico e violenza terapeutica.

Oggi il movimento antipsichiatrico non sembra suscitare più l’interesse di filosofi ed intellettuali. Sparuti gruppi di pazienti, familiari ed operatori organizzano un dissenso fragile e minoritario. In questi ambienti trova talvolta sfogo un’ostilità, una violenza verbale gratuita e cieca. Sembra che anche l’autore dell’efferato delitto di Pisa frequentasse questi contesti.

Contro questi ambienti e questi orientamenti è facile allora puntate il dito. Così fa ad esempio Open di Mentana e, nell’ambito degli addetti ai lavori, Francesco Bollorino con un recente contributo sul suo sito Pol.it dal titolo eloquente Psicopatologia dell’antipsichiatria.

Le associazioni di familiari e pazienti con orientamento avverso alla psichiatria biologica svolgerebbero una pericolosa funzione di incoraggiamento del dissenso sanitario. I media, come anche Francesco Bollorino, non esitano a sottolineare esplicitamente le implicite convergenze con il mondo no-vax, che sarebbe animato dalle stesse pericolose tendenze antiautoritarie.

Bollorino non sembra avere consapevolezza del ruolo repressivo e discriminatorio che la psichiatria rischia ogni giorno di svolgere. Non è sensibile alle preoccupazioni di pazienti e familiari per la conservazione, pur nella condizione di malattia, dei diritti fondamentali di uomini e cittadini. Le culture che si contrappongono al sapere psichiatrico sono per lui pure e semplici manifestazioni di una primitiva negazione della natura biologica della malattia mentale e della funzione salvifica della violenza e della repressione.

Soluzione poliziesca o soluzione terapeutica?

La tragedia di Pisa ha avuto in qualche modo una funziona catartica. Dopo decenni di silenzio e acquiescenza agli orientamenti istituzionali, gli psichiatri sembrano ritrovare la loro voce. Si formano ovunque chat animate con insolito interesse ed impegno da migliaia di colleghi. Si organizzano fiaccolate in ogni provincia. Ovunque gli Ordini dei Medici si associano alle società scientifiche nella richiesta di giustizia e di interventi legislativi.

Assistiamo così ad un fenomeno peculiare. La feroce aggressione contro Barbara Capovani viene in qualche modo sottratta agli strumenti interpretativi del sapere psichiatrico e viene ricondotta ad un fenomeno più generale: la violenza contro gli operatori sanitari. E’ questo un tema del resto molto caro oggi alle forze politiche e sindacali quando si confrontano con i problemi della sanità. Si chiedono inchieste rapide, pene severe, un’applicazione rigorosa delle misure coercitive.

Personalmente non credo affatto a queste soluzioni manifestamente repressive. Credo che come professionisti del settore sanitario dovremmo essere più consapevoli che la violenza non può essere efficacemente controllata se non si ha il coraggio di aggredirne le cause.

Il clima di ostilità e sospetto nei confronti dei sanitari non nasce oggi e non è certo un fenomeno spontaneo. Agli anni ottanta risale la campagna mediatica contro la colpa medica. Il medico cominciò allora a configurarsi nella narrativa mediatica come un incapace e un corrotto. Le varie inchieste sulla malasanità diffondevano l’immagine di un ambiente malato e l’onta per tangenti incassate dai politici della sanità si riversava insensibilmente sull’immagine del medico italiano medio.

Del resto, oggi si perdonano tutti i reati, ma si fa un’eccezione per i medici che si condannano con una certa leggerezza. Il caso della collega Veronica Puddu è eloquente.

L’obiettivo generale di questa campagna è stato quello di minare il rapporto di fiducia tra medico e paziente. Questa area di relazione personale rappresentava e rappresenta infatti un elemento di forte preoccupazione per il potere sanitario e le multinazionali del farmaco che lo sostengono e lo esprimono.

Nello stesso tempo, ai sanitari è stato chiesto di allinearsi alla politica economica dello stato, di privilegiare le esigenze di risparmio, rispetto alle istanze di salute del malato. Schiacciato tra i diktat delle aziende sanitarie e la crescente sfiducia dei pazienti il medico si è aggrappato ingenuamente all’ancora di salvezza sapientemente predisposta dalle oligarchie accademiche: le famigerate linee-guida. Questo processo ha raggiunto il massimo del suo sviluppo con la Pandemia COVID-19, ma era ampiamente in corso da anni. In questo modo il medico abdicava definitivamente al suo ruolo di professionista ed essere umano e si offriva al malato come grigio rappresentante di una burocrazia anonima e disumana.

Occorre essere consapevoli che in questa prospettiva la mera richiesta di giustizia e sicurezza senza una denuncia dei processi che snaturano la nostra professione non può che risultare controproducente. Anzi la campagna contro le aggressioni ai sanitari è uno specifico prodotto della propaganda che mira a spezzare il legame umano e professionale tra il medico ed il paziente. Tra medico e paziente non bastavano più avvocati e linee guida, ma occorrevano ormai violenza e repressione. Non possiamo immaginare una vittoria più grande per il regime sanitario che avvelena la nostra vita e la nostra professione.

Di Paolo Azzone

Paolo Azzone. Medico e psicoanalista.

NOTE

(1) = Engel G.L. (1977) The need for a new medical model: a challenge for biomedicine. Science, 196: 129-136.

(2) = http://www.psychiatryonline.it/node/6986

(3) = https://tg24.sky.it/cronaca/2023/01/19/dottoressa-alba-veronica-puddu-condanna-cagliari

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