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FINE CORSA. SOPRAVVIVERA' LA SPECIE UMANA ALLA FINE DEL PETROLIO?

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A cura di God
Il 9 Giugno 2006
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blankDI JEREMY LEGGET

Einaudi Stile Libero, pp. 392

Tutto quello che volevamo sapere sul petrolio e che nessuno ci ha mai spiegato in modo chiaro. Quanto ne resta? Perché ne usiamo così tanto? È vero che non ci sono alternative a questa dipendenza? Jeremy Leggett è un geologo di fama internazionale che ha lavorato per un decennio nell’industria petrolifera. Con rigore scientifico e con passione narrativa spiega come abbiamo portato al collasso la Terra e quali sono le soluzioni tecnologiche per salvarla dal nostro assalto

“Mi auguro che questo libro non diventi un necrologio per la specie umana. Ma la negazione di ogni evidenza e le falsità che esso svela suggeriscono che, a meno che non cambiamo rotta molto rapidamente, possiamo aspettarci che le catastrofi documentate da Leggett ci coglieranno alla sprovvista”.
George Monbiot, “The Guardian”

A seguire, il capitolo 1 del libro“Insufficienza”

Abbiamo permesso che il petrolio diventasse di vitale importanza per ogni cosa che facciamo: il novanta per cento di tutti i trasporti, terrestri, aerei o marittimi, utilizzano il petrolio; il novantacinque per cento dei prodotti che troviamo nei negozi richiede l’utilizzo del petrolio; il novantacinque per cento dei prodotti alimentari richiede l’utilizzo del petrolio (1). Per ogni bovino allevato e immesso sul mercato ci vogliono sei barili di petrolio, quanto basta per andare in auto da New York a Los Angeles (2). Al momento, il mondo consuma più di ottanta milioni di barili di petrolio al giorno, ventinove miliardi di barili l’anno.

Questa cifra sta salendo rapidamente, come già accade da decenni, e l’aspettativa generale prevede che continuerà a farlo nei prossimi anni. Secondo il governo statunitense, la richiesta globale di petrolio arriverà a toccare i centoventi milioni di barili al giorno, quarantatre miliardi l’anno, entro il 2025 (3). L’Agenzia internazionale per l’energia (aie), l’organizzazione istituita dai paesi industrializzati per questioni relative al petrolio e alle altre risorse energetiche, riporta dati non meno impressionanti: la relazione Energy Outlook del 2004 prevede entro il 2030 un consumo di centoventuno milioni di barili al giorno (4). A mettere in dubbio l’effettiva plausibilità di una tale domanda, o la possibilità dell’industria petrolifera di soddisfarla, sono in pochi. Invece dovrebbero essere in molti, perché l’industria petrolifera non si avvicinerà nemmeno lontanamente a una produzione giornaliera di centoventi milioni di barili. Le basi più elementari dei presupposti su cui si fonda il nostro futuro benessere economico sono marce.

La nostra società vive una fase di rifiuto collettivo della realtà che, quanto a proporzioni e implicazioni, non ha precedenti nella storia.

Gli Stati Uniti assorbono un quarto della domanda mondiale di petrolio e, poiché negli ultimi trentacinque anni la loro produzione interna è calata costantemente, a fronte di una domanda che invece è in costante aumento, la quota di petrolio americana è destinata ad aumentare, e con essa le importazioni di greggio. Attualmente gli Stati Uniti consumano venti milioni di barili al giorno, di cui cinque importati dal Medio Oriente, che ospita i due terzi delle riserve di petrolio mondiale ed è una regione da sempre al centro di conflitti particolarmente lunghi e intensi (5). Ogni giorno quindici milioni di barili di greggio attraversano sulle petroliere le turbolente acque dello stretto di Hormuz, tra Arabia Saudita e Iran (6). Il governo americano potrebbe azzerare la necessità di quei cinque milioni di barili, e fermare di conseguenza lo spargimento di molto sangue, imponendo alla propria industria automobilistica di migliorare l’efficienza energetica di auto e furgoni di appena 0,96 chilometri per litro di benzina (7), invece consente alla General Motors e alle altre case automobilistiche di costruire veicoli con consumi esorbitanti. Molti suv (Sport Utility Vehicles) percorrono in media solo 1,4 chilometri con un litro di benzina. Negli Stati Uniti la quota di mercato dei suv nel 1975 era pari al due per cento, mentre nel 2003 è arrivata al ventiquattro per cento, quindi fra il 1987 e il 2001 l’efficienza energetica media di un veicolo è calata da 9,27 a 8,64 chilometri per litro di benzina, in un periodo in cui altri paesi producevano auto in grado di percorrere fino a ventidue chilometri con un litro (8).

Dalla fine della Seconda guerra mondiale, quasi tutti i presidenti degli Stati Uniti hanno ordinato un qualche tipo di intervento militare in Medio Oriente. I capi di stato americani possono pure mascherare i loro pastrocchi militari a est del canale di Suez ergendosi a costruttori di democrazia, ma la strategia perseguita ormai da lungo tempo è ovvia e, per colmo di paradosso, è stato proprio il presidente americano più liberal a dichiararla apertamente: nel 1980 Jimmy Carter annunciò che l’accesso al Golfo Persico era un fattore di interesse nazionale di vitale importanza, da difendere «con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare» (9). E questo è quello che da allora hanno fatto gli Stati Uniti, pagando un conto di migliaia di miliardi di dollari che continua a salire (10).

Una strategia del genere non può non implicare una sempre più allarmante ambiguità morale, quantomeno questo è il sospetto che attanaglia metà del paese. Una nazione che ha donato al mondo perle di democrazia come il Piano Marshall, è costretta dalla sua dilagante dipendenza dal petrolio a prendere oscure decisioni in politica estera che la portano ad armare alcuni regimi dittatoriali, bombardarne altri, e arrabattarsi per mettere insieme delle giustificazioni plausibili.

Tuttavia l’assuefazione al petrolio e i turbamenti etici non colpiscono solo gli Stati Uniti. Le autostrade europee si estendono ormai dal Clydeside alla Calabria, da Lisbona alla Lituania, e i prodotti agricoli che potrebbero essere destinati al consumo locale vengono trasportati inutilmente sulle arterie stradali fino ad attraversare in lungo e in largo tutta l’Unione europea. I cinesi tentano a loro volta di emulare questo modello, nonostante siano costretti a imporre pause di produzione nelle fabbriche a causa della scarsità di gasolio e nonostante si disperino per la quantità minima di petrolio ricavabile dal loro sconfinato territorio (11).

Questi ultimi cinquant’anni di crescente dipendenza dal petrolio sarebbero difficili da comprendere persino se sapessimo di possederne riserve inesauribili. Tuttavia, ciò che rende ancora più sconcertante l’entità di questa assuefazione globale è che, per tutto il tempo in cui ci stavamo infilando in questa trappola, abbiamo sempre saputo che le riserve di petrolio sono limitate. Agli attuali livelli di consumo, il serbatoio mondiale inizierà ad andare in riserva – a fronte della crescente domanda di carburanti – molto prima della fine del secolo. È un dato di fatto indiscutibile, bisogna solo capire quando accadrà. Uno degli obiettivi di questo saggio è spiegarne le cause.

Ma allora perché non ci siamo attivati per anticipare l’introduzione di fonti energetiche alternative alla dipendenza da petrolio? Idrogeno, biocarburanti, pile a combustibile e batterie più avanzate sono alcune delle tecnologie che in futuro potranno fornire energia per i trasporti, mentre l’energia solare e altre fonti alternative possono generare l’elettricità necessaria per scomporre l’acqua in idrogeno e caricare le batterie. Sappiamo anche questo da decenni, come sappiamo che se adottassimo norme di risparmio energetico e trasporti di massa innovativi potremmo risparmiare interi giacimenti di petrolio. Forse queste alternative non riusciranno a rimpiazzare il greggio né in tempi brevi né con facilità, se pensiamo allo spazio minimo che occupano nei mercati attuali. Ma funzionano, e in gran parte dei casi attendono da anni un semplice via libera. Questa situazione, a prescindere dall’ingenuità umana, è stata creata ad arte: viviamo in una società che più di trent’anni fa è stata capace di mandare un uomo sulla luna, siamo proprio sicuri che non avremmo potuto trovare un sostituto del petrolio se l’avessimo voluto veramente? E mi domando ancora: perché non abbiamo cominciato molto prima a sviluppare rapidamente delle soluzioni a questo problema? Il secondo proposito del saggio è di analizzare tale interrogativo.

Il terzo obiettivo del libro è di porre la seguente domanda e tentare di trovare una risposta: fra quanto tempo si esauriranno le riserve di greggio? Essendo una fonte esauribile, arriverà inevitabilmente il giorno in cui raggiungeremo la quantità massima di petrolio estraibile, dopodiché, all’indomani di quel giorno, che viene spesso indicato come il picco di produzione del petrolio, comincerà un progressivo e generalizzato declino della produttività dei giacimenti. Riformulando la domanda con altre parole e considerando gli strabilianti livelli della domanda globale, quando arriverà il picco di produzione del petrolio?

Ritengo che questo interrogativo dominerà gli affari degli stati nazionali prima che si chiuda il primo decennio del nuovo secolo. Ora traccerò gli ampi parametri che lo caratterizzano.

Ottimisti contro pessimisti

Attualmente è in corso un’aspra battaglia, che si svolge in gran parte lontano dai riflettori, riguardo al momento in cui si verificherà il picco e agli avvenimenti che si succederanno una volta che l’avremo raggiunto. Una fazione è formata da coloro che definirò gli «ottimisti», ossia le persone convinte che nei giacimenti rimangano ancora duemila miliardi di barili di petrolio da sfruttare e che confidano nella futura e ragionevolmente prevedibile scoperta di nuove riserve. Questo gruppo comprende quasi tutte le compagnie petrolifere, i governi e i relativi organismi, la maggior parte degli analisti finanziari e dei giornalisti economici. Come potete immaginare, con uno schieramento simile sono gli ottimisti ad avere il sopravvento nella contesa, nell’attuale stato delle cose.

L’altra fazione è costituita da un gruppo di esperti che definirò i «pessimisti», i quali hanno lavorato nel cuore dell’industria petrolifera, soprattutto in qualità di geologi. Molti di loro sono diventati membri dell’Aspo, l’Associazione per lo studio del picco del petrolio. A questi esperti si sta unendo un piccolo gruppo, sempre più nutrito, di analisti e giornalisti. Stando alle stime dei pessimisti, rimangono solo mille miliardi di barili di petrolio nelle riserve, se non di meno.

Per una società che ha permesso alle proprie economie di legarsi quasi indissolubilmente all’approvvigionamento di quantità sempre maggiori di petrolio a basso costo, la differenza fra mille e duemila miliardi di barili è mostruosa. È approssimativamente la differenza che passa tra il lago di Ginevra pieno e il lago di Ginevra mezzo vuoto, se fosse colmo di petrolio e non di acqua (12). Se restassero effettivamente più di duemila miliardi di barili, il picco arriverebbe solo dopo il 2030. In questo caso si potrebbe continuare a parlare, almeno in linea di principio, di approvvigionamenti «in crescita» e «a basso costo», e avremmo abbastanza tempo per sviluppare fonti energetiche alternative al petrolio. Se invece rimanessero meno di mille miliardi di barili, il picco arriverebbe presto, sicuramente prima della fine di questo decennio. Sarebbe quindi impossibile parlare di domanda «in crescita» e di petrolio «a basso costo», e non avremmo probabilmente il tempo materiale per effettuare il passaggio a fonti alternative sostenibili.

Se avessero ragione i pessimisti, la nostra storia recente offre indicazioni inequivocabili sul futuro che ci attenderebbe. Il grafico illustra le variazioni del prezzo del petrolio a partire dal 1965. Approfondiremo questo argomento più avanti, ma intanto lasciate che riassuma i temi principali: dal 1965 si sono verificati cinque picchi nel prezzo del greggio, ognuno dei quali è stato seguito da un periodo di recessione economica di diversa gravità (13).

I picchi maggiori furono i primi due. Con il primo shock petrolifero, nel 1973, il prezzo del petrolio venne più che raddoppiato e raggiunse il corrispettivo attuale di circa trentacinque dollari al barile. La causa scatenante fu un embargo imposto dall’Opec (l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) e promosso dall’Arabia Saudita in risposta al chiaro appoggio offerto a Israele dagli Stati Uniti al tempo della guerra dello Yom Kippur. La fornitura di greggio si ridusse solamente del nove per cento e la crisi durò non più di qualche mese, ma il suo effetto fu semplice, e impossibile da dimenticare per i testimoni dell’epoca: si scatenò il panico generale.

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L’embargo ebbe vita breve, in parte perché i Sauditi temevano che, se l’avessero prolungato, avrebbero dato vita a una depressione globale che avrebbe messo in ginocchio le economie occidentali e di conseguenza anche la loro. Di fatto, il pur breve embargo provocò una terribile recessione economica. Io l’attraversai facendo i compiti a lume di candela. In quel periodo non vidi molto mio padre: era a fare la fila per la benzina.

Il secondo – e più tremendo – shock petrolifero fu innescato dalla deposizione dello scià di Persia nel 1979, e prolungato dallo scoppio della guerra fra Iran e Iraq nel 1980. Se il primo shock non fece salire il prezzo del greggio così in alto come in questi giorni, il secondo lo fece schizzare a più di ottanta dollari al barile in valuta attuale. Si diffuse nuovamente il panico, sebbene le forniture globali si ridussero solamente del quattro per cento.

La crisi si concluse nel 1981, quando i prezzi precipitarono, fondamentalmente per tre motivi. Primo, l’Arabia Saudita aprì i rubinetti: grazie ai suoi enormi giacimenti, scoperti fra gli anni Quaranta e Cinquanta, era in grado di agire da swing producer, ossia poteva aumentare la sua produzione di petrolio per abbassare i prezzi oppure diminuirla per farli impennare, proprio come aveva fatto nel 1973. Secondo, arrivò sul mercato il nuovo greggio proveniente da giacimenti giganti collocati in regioni più stabili del pianeta, fra cui il Mare del Nord. Terzo, governi e compagnie private fecero largamente ricorso alle proprie riserve di petrolio.

Questi tre motivi dovrebbero essere in cima alla lista delle ragioni per cui dovremmo allarmarci oggi, poiché se dovessimo affrontare un nuovo shock petrolifero, non potremmo più risolvere la situazione allo stesso modo. Innanzitutto, esistono buone ragioni per credere che l’Arabia Saudita si stia avvicinando al proprio picco nella produzione di petrolio, o l’abbia già raggiunto e perciò non potrà più fungere da swing producer, come vedremo in seguito. In secondo luogo, i pessimisti temono che non ci siano più giacimenti giganti da scovare, né tantomeno intere province petrolifere come il Mare del Nord. Infine, le scorte disponibili non sono sufficienti a soddisfare la domanda attuale. Il mondo moderno ruota intorno al principio delle consegne just-in-time. In generale, le nostre economie fanno un uso più efficiente del petrolio rispetto al 1970 – un argomento che gli ottimisti amano addurre spesso – ma il peso della domanda è molto più alto oggi di allora e continua a crescere incessantemente, o forse sono i capi di governo o delle compagnie petrolifere a imporre una situazione simile.

Il picco di panico

Il costo di estrazione di un barile di petrolio non varia molto nel tempo. In linea di massima, oggi si aggira intorno ai cinque dollari al barile, sebbene ci siano delle differenze fra i diversi giacimenti, in base alla loro posizione geografica e alla stabilità politica dei paesi in cui si trovano. Ciò che influisce maggiormente sul prezzo del greggio è il grado di fiducia che i petrolieri ripongono nelle scorte e nella domanda. Al momento, i prezzi del greggio hanno toccato il secondo picco più alto mai raggiunto. Alcuni esperti asseriscono che raggiungeranno i massimi storici entro il 2005 (14). Questa situazione è maturata a causa di vari motivi, che approfondiremo in seguito. Ma una di queste ragioni non deriva, senza ombra di dubbio, dal timore che il picco di produzione del petrolio sia imminente. Di fatto, petrolieri e analisti non tengono in grande considerazione le argomentazioni dei pessimisti. Se così fosse, e se il clima dei mercati dovesse cambiare passando alla convinzione che viviamo in un mondo in cui i giacimenti di petrolio hanno smesso di crescere e anzi si stanno esaurendo, allora il prezzo del greggio schizzerebbe in un baleno sopra i cento dollari al barile.

Un mio amico investitore è giunto alla conclusione che questa prospettiva sia inevitabile. Ha cambiato il suo portafoglio di investimenti per giocare d’anticipo rispetto al momento in cui «il mercato si sveglierà». Questo picco di panico, come lo definisce lui, non travolgerà soltanto i petrolieri. Diversi settori economici e finanziari prevedono, sistematicamente, un futuro in cui si continueranno a scoprire scorte crescenti di petrolio a basso costo. L’incremento dei prezzi non farà che rendere più attraenti le premesse per ulteriori esplorazioni e questo porterà alla scoperta di nuovi giacimenti, che di conseguenza faranno abbassare i prezzi fino al ciclo successivo. Società gigantesche redigono piani quinquennali basandosi sul presupposto che avranno agile accesso a greggio e gas a basso costo. Provate a considerare, per esempio, quanto questo debba essere importante per un’azienda chimica che tratta prodotti plastici derivati dal petrolio, o per un’azienda alimentare che dipende dall’oro nero per ogni fase del trasporto dei propri prodotti, compresi quelli deperibili, più il confezionamento in bottiglie e scatole varie e l’aggiunta di conservanti e additivi. Ma se gli economisti e i pianificatori delle grandi compagnie si sbagliassero, cosa accadrebbe? Riuscite a immaginare il crollo di fiducia che si verificherebbe se un’importante fetta di analisti finanziari di tutti i settori quotati in Borsa concludesse che si sono sbagliati?

Se il picco del petrolio è di fatto imminente, bisognerà prendere in considerazione la depressione economica come una prospettiva reale. L’Arabia Saudita aveva ragione a temere questa possibilità negli anni Settanta. La grande depressione degli anni Trenta, scatenata dallo storico crollo della Borsa del ’29, comportò dei tremendi sacrifici economici. Tra il 1929 e il 1932, il commercio mondiale subì un tracollo sconvolgente, nell’ordine del sessantadue per cento (15). In molti paesi la disoccupazione dilagante e l’inquietudine sociale portarono all’avvento del fascismo, che in alcune nazioni assunse dimensioni tali da cambiare il corso della storia. Le Borse, invece, impiegarono cinquant’anni a recuperare il volume di affari precedente al crollo (16).

La domanda da mille milioni di dollari

Per rispondere alla fatidica domanda di quanto manchi al raggiungimento del picco del petrolio, dobbiamo prima affrontare altri tre quesiti correlati fra loro, che riguardano le «riserve esistenti», le «riserve aggiuntive» e «la rapidità di immissione sul mercato» del greggio. Esploreremo tali quesiti nel terzo capitolo, ma per affrontarli e comprenderli nel migliore dei modi dobbiamo prima scoprire in che modo il petrolio si forma, si accumula, viene scoperto e viene estratto. Ecco perché nel secondo capitolo capitolo primo faremo una piccola digressione nella meravigliosa scienza della geologia. Essa offrirà al lettore varie delucidazioni sui molti eventi che hanno segnato la Storia della Perla Azzurra. Per me sarà un tuffo nel passato.

Note

(1) Chris Skrebowski, Joining the Dots, intervento presentato alla conferenza «Oil Depletion: No Problem, Concern or Crisis?» tenutasi presso l’Energy Institute di Londra il 10 novembre 2004.

(2) Un barile di petrolio contiene quarantadue galloni americani, pesa 0,1364 tonnellate e può riempire diverse volte il serbatoio di un normale veicolo. I sei barili riportati derivano da The Price of Steak, in «National Geographic», giugno 2004, p. 98. L’articolo pone come esempio un manzo di 1,250 libbre, 567 chili. 1 barile = 42 galloni, 6 barili = 252 galloni a 30 miglia per gallone = 7590 miglia (12 214 km). New York e Los Angeles distano 2800 miglia (4500 km).

(3 )Us Energy Information Administration (www.eia.doe.gov).

(4) Nel World Energy Outlook 2004 dell’aie è riportato un incremento della domanda di petrolio dell’1,6 per cento annuo fino ad arrivare a centoventuno milioni di barili al giorno nel 2030 (www.iea.org).

(5) Energy in Focus: bp Statistical Review of World Energy, giugno 2004. Disponibile in versione .pdf sul sito www.bp.com.

(6) http://www.eia.doe.gov/emeu/cabs/pgulf.html, Country Analysis Brief: Persian Gulf, settembre 2004. Nel 2003, circa il novanta per cento del petrolio esportato dal Golfo Persico attraversò lo Stretto di Hormuz a bordo di petroliere per un volume di greggio pari a 15-15,5 milioni di barili al giorno, diretto a est verso l’Asia, soprattutto in Giappone, Cina e India, e verso l’Europa occidentale e gli Stati Uniti.

(7) Paul Roberts, The End of Oil: The Decline of the Petroleum Economy and the Rise of a New Energy Order, Bloomsbury, London 2004, con citazione di dichiarazioni del guru dell’efficienza energetica Amory Lovins.

(8) http://www.fueleconomy.gov/feg/FEG2005GasolineVehicles.pdf, 2005 model year vehicles. La Prius consuma cinque litri di benzina per cento km in città e 4,2 litrisu strade extraurbane. È stata lanciata in Giappone il 10 dicembre 1997, e negli Stati Uniti nell’agosto del 2000. (http://www.motortrend.com/roadtests/alternative/112_news46/, Is Toyota Prius the Most Important 2004 Model?). In tutto il saggio ho utilizzato le misurazioni e il vocabolario automobilistico degli Stati Uniti.

(9) Michael Klare, Blood and Oil: The Dangers and Consequences of America’s Growing Dependency on Imported Petroleum, Metropolitan Books, London 2004, p. 46.

(10) All’agosto 2004 la seconda guerra contro l’Iraq era già costata più di centoquaranta miliardi di dollari, secondo il Center for American Progress. Il Congressional Budget Office ha valutato tre possibili scenari legati all’occupazione dell’Iraq, che prevedono costi a partire da centosettantanove miliardi fino a trecentonovantadue miliardi di dollari da stanziarsi per un periodo compreso fra il 2005 e il 2014 (lettera del Congressional Budget Office indirizzata al senatore Kent Conrad, alto membro del Committee on the Budget, http://usgovinfo. about. com/gi/ dynamic/offsite.htm?site=http://www.cbo.gov/).

(11) Elizabeth Economy, The River Runs Black: The Environmental Challenge to China’s Future, Cornell University Press, Ithaca (ny) 2004.

(12) Newsletter dell’Associazione per lo studio del picco del petrolio (aspo), dicembre 2004.

(13) Ogni tipo di petrolio ha un suo prezzo. Quelli più comunemente usati, a cui faccio riferimento anch’io, sono il Brent e il West Texas Intermediate, che riportano quotazioni molto simili, perciò nella stesura del saggio non ho fatto distinzione fra i due valori.

(14) Al momento della stesura del saggio, il prezzo del petrolio ha superato i sessantadue dollari al barile.

(15) www.wikipedia.com.

(16) Per dettagli sulla Grande Depressione, cfr. Studs Terkel, Hard Times: An Oral History of the Great Depression, The New Press, New York 2005; Harold James, The End of Globalization: Lessons from the Great Depression, Harvard University Press 2002.

Link correlati

“La nostra società continua a negare il Peak Oil” di Shepherd Bliss (Countercurrents.org)
Nel suo ultimo lavoro il geologo britannico Jeremy Leggett, un ex “figlio dell’oro nero” poi passato a Greenpeace UK, affronta la serietà del controverso rapporto cambiamento climatico-Peak Oil

5º International Conference on Oil and Gas Depletion, San Rossore (Pisa), 18-19 luglio 2006, a cui parteciperà anche Jeremy Leggett

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