CUORI NERI E PROBLEMI DI IDENTITA' (PARTI I-VIII)

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blank DI MIGUEL MARTINEZ
Kelebek

Se parlo di un libro, è solo per dire che cosa mi ha ispirato quel libro, non per recensirlo.

In questo caso, si tratta di un testo molto noto: Cuori neri, di Luca Telese, che racconta le storie di 21 estremisti di destri, nazionalrivoluzionari o neofascisti morti negli anni Settanta.

Il libro ha suscitato una bufera emotiva. E quando la gente si lascia prendere dalle bufere emotive, vuol dire che ha qualcosa da nascondere, soprattutto a se stessa.

E’ la ricerca di queste cose nascoste che mi interessa di più.

Su Cuori neri, ho molto da dire, e quindi penso che ne nascerà uno dei miei soliti saggi a puntate.

Quasi tutte le recensioni del libro di Telese si possono riassumere in due filoni diametralmente opposti.

Da una parte, c’è chi dice, in sostanza, “Ecco che anche uno di sinistra riconosce l’esistenza e l’umanità dei nostri morti, nonché le colpe dei loro assassini, confermando ciò che noi diciamo da sempre“.Dall’altra, c’è chi dice, “Ecco l’ennesimo transfuga da sinistra, che si permette di gettare fango sulla sinistra, trascurando il fatto che noi avevamo ragione e loro torto, al di là di singoli fattacci che purtroppo capitano”.

Ora, come avrete già capito, il primo giudizio viene espresso da persone che possiamo qualificare come di “destra“.

Il secondo da persone che possiamo qualificare come “di sinistra“.

Se ci pensate bene, vuol dire che gli stessi termini che non significano nulla quando si tratta di votare per l’invio di truppe in Afghanistan, o per il taglio delle pensioni, diventano concretamente significative quando si tratta di parlare di fatti di cronaca di trent’anni fa.

Insomma, “destra” e “sinistra” assumono un significato tangibile, solo quando si tratta dell’intangibile.
E questa è già un’acquisizione importante.

Notate poi come sia importante per entrambi che l’autore sia “di sinistra”.

Quando ho letto il libro, non sapevo nulla di Luca Telese. Non ostenta le proprie idee politiche, ma nella misura in cui queste emergevano dal testo, mi sembrava che fossero idee liberali e anticomuniste (ma sicuramente non fasciste).

Ora, uno che non dice nulla “di sinistra” può essere “di sinistra”?

Evidentemente sì, ma è chiaro che a questo punto si tratta di una definizione identitaria e quasi etnica (il famoso “popolo di sinistra” con il suo famigerato “DNA”), e non di una definizione ideologica.

E’ un po’ come quando leggo alcuni autori ben intenzionati, che scrivono che “Noam Chomsky è ebreo eppure critica Israele”.

In realtà, Chomsky non mi risulta che creda alla Torà e nemmeno che scriva romanzi ambientati negli shtetl dell’Europa orientale. Quando si dice che “è ebreo”, vuol dire semplicemente che discende da persone che in passato furono ebrei. Cosa che francamente non è molto interessante sapere.

Quindi, quando si dice che Luca Telese è “di sinistra”, si intende che è di famiglia di sinistra, oppure che ha avuto in passato idee di sinistra. O forse che le ha ancora, ma del tutto privatamente. Ma poiché la politica è per definizione pubblica, allora è come non averle.

Eppure la presunta identità di sinistra di Luca Telese, che dovrebbe essere del tutto irrilevante, diventa un elemento cruciale di giudizio sul libro, per entrambi gli schieramenti.

Esiste una prima spiegazione, banale, di questo fatto.

Se anche uno che dovrebbe identificarsi con il tuo nemico, dice che hai ragione, vuol dire che hai veramente ragione. Quindi la destra ha un interesse evidente per sottolineare che Telese è di “sinistra”, e la sinistra per dire che invece è un transfuga o addirittura uno che si maschera da uomo di sinistra.

La spiegazione è valida, però non è sufficiente, per almeno due motivi.

Il primo è che, almeno nel libro, Luca Telese si presenta in tutt’altro modo, addirittura come uno che lavora per “Il Giornale”.

Il secondo motivo, a mio avviso molto più interessante e che spero di esplorare meglio nei prossimi post, riguarda un tema che abbiamo trattato più volte su questo blog: il concetto di identità e di riconoscimento.

Miguel Martinez
Fonte: http://kelebek.splinder.com
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04.11.2006

CUORI NERI E PROBLEMI DI IDENTITA’ (II)

Si dice che la politica sia l’arte del possibile.

Ne discende una conseguenza interessante.

Scegliere tra varie cose possibili, si può fare solo nel presente, avendo in mente il futuro.

Il passato, come sappiamo perfettamente tutti per amara esperienza, è invece il mondo dell’impossibile: cioè il luogo dove, qualunque cosa cerchiamo di fare, non possiamo spostare nemmeno un filo d’erba.

Il passato, quindi, non è politico.

Certo, il passato ci offre esempi di errori, e questo ci può essere utile per fare le nostre scelte, ma sembra che nemmeno i più cinici decision makers ci riflettano molto.

I morti – quelli di cui parla Luca Telese, come tutti gli altri, di qualunque parte, fazione o etnia – fanno parte totalmente del passato e sono quindi estranei al dominio della politica.

Non possono fare nulla per il presente, e noi non possiamo fare nulla per loro, se non, forse, pregare (ma si prega eventualmente per il loro presente nell’aldilà, non per il loro passato).

Se ci ancoriamo ai morti, rimaniamo quindi immobili, e non possiamo fare più scelte: restando con i morti, usciamo dalla politica, e veniamo in qualche modo vampirizzati.

La storia e il passato sono latte versato, e il buon senso ci insegna che in questo caso è inutile piangere.

Qui però troviamo un paradosso.

Le scelte presenti – come quella, già citata, di mandare i soldati italiani in Afghanistan – suscitano pochissime emozioni del tipo che siamo soliti chiamare politiche.

Le discussioni invece sui morti, e quindi sul passato, e quindi sull’irrimediabile, risvegliano un tipo di furore e angoscia che si rappresenta come politico: abbiamo detto che sia chi esalta, sia chi denigra Luca Telese ha una chiara identità politica.

Riassumo.

La politica, essendo l’arte del possibile, esclude il pianto sul latte versato.

Eppure, l’identità delle persone è costituita, in grandissima parte, di lacrime spese sul latte versato. Le persone tendono a chiamare questa identità “politica”, e certamente l’identità ha conseguenze concrete sul presente: ma è solo allora che diventa realmente politica.

Questo vuol dire che la politica reale si nutre di identità; ma anche che c’è qualcosa di falso nel chiamare “politica” ciò che è invece questione di identità.

Torniamo così alla questione attorno a cui stiamo girando: l’identità.

Miguel Martinez
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04.11.2006

CUORI NERI E PROBLEMI DI IDENTITA’ (III)

Luca Telese è intervenuto ieri nei commenti. Credo che il suo intervento meriti la visibilità di un post.

Miguel Martinez

———————–

Carissimi,
mi avete segnalato questi saggi, come potete immaginare, seguo il dibattito con curiosità visto che del mio libro si parla. Sulla prima puntata, visto che proprio di me si parla, sarà necessario un chiarimento (anche se è la centesima volta che lo faccio) su qeusto benedetto nodo dell’identità.

Primo) Sono una persona di sinistra che lavora a Il giornale. Non sono un transfuga, un rinnegato un abiurante come ce ne sono tanti a destra. I miei valori, la mia formazione e buona parte delle mie idee politiche sono di sinistra (anche se rivendico il diritto alla criticità con le varie sinistre uliviste di governo).

Chi legge il GIornale lo sa, i colleghi lo sanno, anche i lettori del Corriere (è stato scritto che sono stato portavoce di RIfondazione sin dalla prima recensione del Corriere) e anche tutti quelli che partecipano alla presentazione. Ha ragione l’estensore di Kelebek. La mia identità politica dovrebbe essere irrilevante, ma siccome se nel parla, ci terrei a precisare che non sono affatto “organico alla Casa dele libertà”.

Secondo) Ma allora perchè uno di sinistra scrive un libro su 21 morti ammazzati di destra? In questo caso non sono veri nè il primo nè il secondo caso ipotizzati dal nostro recensore. O meglio: da tempo mi sono convinto che questo paese debba ricucire la ferita dell’odio, delle infinite guerre civili, della faziosità feroce falsa e propagandistica che negli anni di piombo ha alimentato il conflitto perchè conveniva ai generali degli eserciti senza divisa.

Da persona di sinistra ho trovato intollerabile la copertura politica e morale che si è data a molti delitti proprio in virtù del “doppiopesismo” cronico che affligge questo paese. Che suona più o meno così: “Se a uccidere è stato un mio compagno o un mio camerata”, allora in realtà non è un dleitto. E’ stato un atto di giustizia, o tutt’alpiù un errore. Io invece credo che a questo paese serva assolutamente una memoria se non “condivisa” almeno “comune”. Ovvero: smetterla di credere che contino solo i propri lutti di parte, che il bene assoluto stia in casa propria, e che il “male assoluto” sia l’identità del proprio nemico.

Ho trovato una straordinaria dignità nelle famiglie e nelle madri degli anni di piombo, sia in quelle di destra che in quelle di sinistra. In definitiva ho sentito che un dovere, e come una possibilità concreta, ricostruire un frammento di storia terribile al di là delle fazioni. Ci ho provato.

Alcuni segnali che ho rcievuto mi hanno detto che ci sono riuscito, altri (più minoritari) mi hanno fatto pensare che solo per averci provato ti spareranno contro tutta la vita. Il risultato di questo tentaitvo è Cuori neri, e le mille cose positive che sono state scritte su questo libro (compreso il fatto che chi lo leggeva senza conoscermi non cpaiva come la pensassi) sono state il più bel regalo che potessi ricevere per tre anni di lavoro appassionato.
Luca Telese

Ps. Questa famosa recensione di Valrio Marchi era piena di contestazioni assurde. Molti di questi recensori feroci mi contestano cose che in Cuori neri non ci sono, e che ci hanno letto solo loro. Pazienza, non è un prezzo che non si possa pagare.

Miguel Martinez
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07.11.2006

CUORI NERI E PROBLEMI DI IDENTITA’ (IV)

Per qualche misterioso motivo, questo blog attrae sempre commentatori di livello insolitamente alto.

Tra i commenti all’ultimo post, però c’è stato anche qualche inevitabile fraintendimento.

Primo, io non critico chi radica la propria politica nei morti. Volevo solo sottolineare il paradosso della cosa, che trovo interessante.

Secondo, parto dal libro di Luca Telese (a proposito, chi l’ha letto?) per cercare di buttare giù riflessioni generali sulla questione del rapporto tra società, memoria, identità, e non per fare polemiche sulla politica-cronaca di oggi.

La politica dei morti non è una questione solo di questi ultimi anni, come sostiene qualche commentatore.

La politica dei morti si fa almeno dai tempi degli eroi greci, o dei santi martiri cristiani.

Terzo, diversi sottolineano come i morti non si cambino, ma la memoria che ne abbiamo sì. Verissimo, ma ci arriveremo.

Due testi fondamentali per capire i meccanismi psicologici e sociali della politica contemporanea li ha scritti, pensate, un egittologo, Jan Assmann – La memoria culturale e Mosè l’egizio. Questo dimostra che per gettare nuova luce su cose che ci sembravano assodate, non c’è nulla di meglio che guardare le cose con gli occhi di una disciplina apparentemente molto diversa.

Io ho deciso di scrivere questa serie di riflessioni sull’identità sotto una duplice spinta: la lettura (anche se non recente) del libro di Luca Telese, e quella di un testo di Harald Haarmann che fa il punto degli studi contemporanei sulla storia delle lingue [1].

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Da non molti anni, i linguisti sottolineano come la ricerca dell’identità sia la componente chiave della creatività culturale; anzi, “la teoria dell’identità costituisce in qualche modo la teoria di base di tutte le scienze umane”.

Nella creazione dell’identità, la lingua svolge un ruolo fondamentale: è attraverso i nomi che definiamo le cose, che tessiamo legami umani, che definiamo parentele, amicizie e inimicizie.

Inoltre, le parole (ma anche i simboli in genere) assumono un ruolo sempre maggiore, più viviamo in una realtà mediata e specializzata.

Le parole penetrano in noi, formando indelebilmente persino il nostro accento, nei primi anni di vita.

E’ chiaro che la formazione infantile non è tutto: ogni tappa successiva della nostra vita lascia una traccia, anche se queste tracce diventano progressivamente più deboli. E non è un caso che progressivamente diventi anche sempre più difficile imparare una nuova lingua.

Non siamo totalmente passivi di fronte all’identità che la società ci impone: possiamo scegliere noi stessi di dipendere dall’identità socialmente formata, o di metterla continuamente in discussione: è il vecchio “conosci te stesso”, è l’individuazione. Che per forza di cose è quasi sempre una scelta minoritaria, almeno finché un intero sistema sociale non entra in crisi.

Che cosa c’entra tutto ciò con il libro di Luca Telese, mi chiederete? Perché mette a testa in giù un commento che è stato fatto al mio ultimo post:

“Non sono invece d’accordo sull’assolutizzazione della categoria dei “morti” che, una volta morti, dovrebbero essere lasciati navigare nel limbo di una memoria indistinta. Al contrario! I morti sono pur sempre morti per un qualche motivo: il partigiano ammazzato dal nazista è morto per un motivo ben diverso dal repubblichino ucciso a sangue freddo dal partigiano, magari dopo l’armistizio. Se neghiamo ai morti la possibilità di essere definiti in quanto “morti per”, ne neghiamo anche la dignità umana.”

No, non si è “morti per”, né ai tempi della resistenza/guerra civile, né negli anni Settanta.

Si è morti “a partire da”.

A partire da un cumulo enormemente complesso di condizioni sociali, relazioni umane, lasciti culturali, linguistici, religiosi, politici, sessuali, comportamentali e di eventi personali. Tra tutte queste cose, ci sono anche piccole scelte individuali.

Sembra una cosa ovvia, dimostrata da tutte le scienze umane e sociali, eppure in Italia è diffusa un’immagine contraria, che vede nei singoli esseri umani portatori coscienti di astratti progetti ideali, meritevoli se hanno scelto il progetto eticamente giusto, colpevoli se hanno scelto quello eticamente sbagliato.

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[1] Harald Haarmann, Weltgeschichte der Sprachen. Von der Frühzeit des Menschen bis zur Gegenwart, Verlag C.H. Beck, München, 2006.

Miguel Martinez
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07.11.2006

CUORI NERI E PROBLEMI DI IDENTITA’ (V)

“Rossi e neri”, negli anni Settanta, era uno sgradevole luogo comune giornalistico, con un fondo di verità, perché nominava due gruppi umani realmente contrapposti, e non solo astratti progetti politici.

Questo è anche soddisfacente per la nostra struttura mentale. Quando vediamo un conflitto, tendiamo istintivamente a dividere tutto in due soli schieramenti, e poi scegliere di tifare per una di quelle parti.

Oggi però gioca un ruolo importante anche un terzo schieramento: coloro che si dichiarano liberali.

I liberali non sono né rossi né neri, è vero. Ma se la mente umana riesce solo a vedere due schieramenti, e i liberali sono uno di questi, dove vanno a finire gli altri? “Rossi” e “neri” vengono schiacciati in un unico, altro schieramento, quello immaginario del “totalitarismo”, o del “complotto rosso-bruno“.

Per questo motivo, e non per diaboliche macchinazioni berlusconiane, si tende a perdere di vista che è esistita una reale differenza tra “rossi” e “neri”.

Quasi sempre, i “rossi” riassumono questa differenza con qualche variante del seguente concetto: “noi comunque avevamo buone intenzioni, loro avevano cattive intenzioni“.

Quindi chi è di sinistra, cioè il “noi” della frase, è umanamente migliore degli altri.

E’ un pensiero necessario, perché offre una ricompensa psicologica a chi sta vivendo una tragica sconfitta. In questo senso, è perfettamente lecito e comprensibile.

Allo stesso tempo, questa affermazione ha tre difetti importanti.

Il primo è che chi è certo di essere il migliore del mondo, considera che negli altri non vi sia nulla di valido, e finisce per non poter imparare nulla dagli altri. Ma chi non impara e non ascolta, si condanna da solo a non capire la realtà, che finirà poi per travolgerlo. Secondo Bernard Lewis (che però forse esagera) è stato proprio questo meccanismo a far fallire l’impero ottomano.

Il secondo difetto è che questa storia, che noi siamo moralmente superiori a loro, se la sono raccontate tutte le fazioni della storia umana, da sempre. E non può essere sempre stata vera.

Il terzo difetto è che è un’invenzione. Noi capiamo pochissimo delle nostre stesse intenzioni, figuriamoci di quelle degli altri. Comunque, guardando dentro di me, e per quello che mi è permesso anche dentro le persone che conosco piuttosto bene, direi che le intenzioni sono sempre buone. O almeno ci raccontiamo delle storie che troviamo abbastanza credibili, per convincere noi stessi. Per questo si dice che le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni.

Quando abbiamo una spiegazione, tendiamo a non cercarne altre. La falsa spiegazione della superiorità morale fa perdere di vista la vera differenza che esisteva tra “rossi” e “neri”.

Che è questa: i “rossi” possedevano la Parola, i “neri” no.

Possedere la Parola vuol dire avere un sistema coerente di pensiero, una chiara capacità di dire chi si è e cosa si vuole, una “ideologia” se si vuole.

Parleremo più avanti del mutismo dei “neri.”

Ma i “rossi” avevano un magnifico sistema, che è quello che in Italia, all’epoca, passava – a torto o a ragione – per marxismo.

Un sistema che permette di spiegare praticamente tutto. E certamente spiega molto. Per citare quello che abbiamo scritto nell’ultimo post, Marx ci abitua a cogliere il “a partire da” delle azioni umane. Quindi dovrebbe abituarci a porci continuamente domande, anche su noi stessi.

Il difetto del marxismo è la sua stessa perfezione. Quando tutto diventa spiegabile, tutto è già spiegato. E non c’è più nulla da imparare. Occhi e orecchie si chiudono, e assieme a loro il cuore.

Il luogo comune di destra secondo cui “quelli di sinistra pensano di avere la verità in tasca” ha quindi qualcosa di vero, se non altro perché Marx si avvicina parecchio alla verità.

Allo stesso tempo, una Parola perfetta può costituire una perfetta maschera per qualcos’altro.

Nel Seicento, l’Inghilterra visse l’unica rivoluzione politica della sua storia, che ha gettato le basi del mondo capitalista moderno. Quella rivoluzione, che fece decine di migliaia di morti, fu vissuta con straordinario entusiasmo da uomini che produssero, a proprio rischio e spesa, migliaia di volantini e locandini.

Tutti questi testi erano dedicati all’esegesi di versetti della Bibbia. Oggi stentiamo a capire che cosa ci fosse in quei discorsi, in grado di smuovere le persone. O meglio, capiamo che attraverso quegli oscuri versetti, esprimevano qualcosa di molto importante, senza però lasciarci la chiave.

Allo stesso modo, la lettura dei volantini che Lotta Continua distribuiva davanti ai cancelli della Fiat ci offre un sistema rigoroso (e noioso) che parla con una specie di rabbiosa astrazione dei processi economici.

Ma la lettura di uno di quei volantini non ci permette affatto di capire per quale motivo il figlio di un architetto – ad esempio – abbia lasciato la famiglia per andare a vivere a Torino in una casa non riscaldata, alzandosi alle tre di mattina per andare davanti ai cancelli di Mirafiore a dare proprio quel volantino.

Porsi queste domande significa applicare Marx anche ai marxisti, insomma.

Miguel Martinez
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08.11.2006

CUORI NERI E PROBLEMI DI IDENTITA’ (VI)

I “rossi”, dunque, furono i signori della Parola, espressa in maniera abbastanza unitaria (nonostante moltissime sfumature) in innumerevoli assemblee, volantini, riviste, opuscoli e libri.

Dall’altra parte, troviamo il regno del mutismo.

Ovviamente, qualche “nero” ha anche scritto o ha anche parlato, ma solo come individuo, al massimo come piccolo gruppo isolato: non esiste alcuna idea o progetto che si possa dire comune a tutti i “neri”.

Eppure, come dimostra Luca Telese, i “neri” si sono impegnati con grande fervore e rischio personale.

Il mondo dei neri è talmente muto che ha dovuto aspettare l’arrivo di un antropologo appartenente a un’altra cultura, appunto Luca Telese, perché assumessero forma le loro storie.

Non solo.

I “fascisti si sa chi sono”, nel senso che si potrebbe stilare un elenco di nomi e cognomi su cui “rossi” e “neri” potrebbero concordare. I “rossi” sicuramente ci infilerebbero qualche nome di troppo, e i “neri” se ne accorgerebbero subito, ma senza sapere spiegare perché.

Eppure, i “neri” non hanno nemmeno un nome collettivo, comparabile con “sinistra” o “comunista” dall’altra parte.

Infatti, nel primo post di questa serie, ho parlato di “estremisti di destra, o nazionalrivoluzionari, o neofascisti“.

Non ho messo, volutamente, il termine “fascista” nella lista.

Alcuni “neri” accettano in effetti questo nome. Altri lo respingono, oppure dicono, “sì, fascista, ma non nel senso…” e propongono una lunga serie di esclusioni. In genere, comunque è un nome che subiscono semplicemente.

Io credo che sia un errore usare questo termine, per un motivo che facilmente sfugge.

Poniamo che ci sia oggi un gruppo che usi il fascio littorio, che porti la camicia nera e che passi giornate intere a leggere le opere di Mussolini. Un simile gruppo sarebbe deriso pubblicamente sui media, a rischio di attacchi fisici o di chiusura forzata da parte dello stato. E poi Mussolini non si sentiva mai in obbligo a restare fedele a Mussolini, tanto da permettersi di cambiare continuamente politica. Un immaginario gruppo ortodossamente fascista invece sarebbe costretto a restargli fedele.

Bene, la realtà di un simile gruppo sarebbe totalmente diversa dalla realtà del Partito Nazionale Fascista, come la realtà di un ghetto ebraico del Quattrocento era diversa dalla realtà di Gerusalemme ai tempi di re Giosia. Per quanto i rabbini medievali potessero fondarsi a parole sulla Bibbia, lo studio della Palestina del settimo secolo avanti Cristo non ci aiuta minimamente a capire la vita a Praga duemila e passa anni dopo.

Quello che “faceva un fascista” nel 1936 non era il saluto romano, ma il fatto che poteva dare ordini alla gente per strada, e la gente gli obbediva, talvolta con autentica gioia.

Quindi, partiamo dalla definizione possibile, “estremisti di destra“.

Questa definizione verrebbe respinta, probabilmente, dalla maggior parte dei diretti interessati. Per una serie di motivi che forse potremo esplorare più avanti, la maggior parte dei “neri” non si sente nemmeno di destra, figuriamoci di “estrema destra”.

Esiste in Italia molta gente che si dichiara di “sinistra” e che sa, più o meno cosa, vuol dire.

Esiste pochissima gente che si dichiari di “destra”.

“Destra” è quindi soprattutto un termine usato da quelli di sinistra, per definire collettivamente quelli non di sinistra.

E di gente “non di sinistra”, ce n’è tanta e della specie più varia.

Per definire se stessi, i “neri” hanno sporadicamente creato termini artificiali. Tra questi, forse il più diffuso (ma non troppo) è “nazionalrivoluzionario“. Il termine è chiaramente un prodotto della cultura degli eufemismi: “nazionalrivoluzionario” sta a “fascista” come “operatore ecologico” sta a “spazzino”. E’ simile addirittura il rapporto di sillabe tra le quattro parole.

E’ simile l’imprecisione della definizione: “operatore ecologico” potrebbe significare anche un biologo che studia i granchi.

Il “nazional” nel termine, poi, non corrisponde a un’effettiva realtà del mondo dei “neri”. Il nazionalismo forte, che caratterizza ad esempio i Lupi Grigi turchi, semplicemente non esiste dai tempi della Seconda guerra mondiale. Certo, fino al ’68, ha svolto un ruolo psicologico importante il nazionalismo, ma solo sui temi specifici di Bolzano e di Trieste. E dopo il 1990 circa, si è diffuso un vago identitarismo italiano (confuso con patriottismi locali, con “identità cattoliche”, con europeismi e altro) contro l’immigrazione.

Ma gli anni Settanta, di cui parla Luca Telese, cadono nel mezzo, e quindi in un’epoca praticamente priva di nazionalismo.

Comunque, il termine “nazionalrivoluzionario” non viene affatto spontaneo agli stessi “neri”, per cui possiamo tranquillamente farne a meno: l’unica autodefinizione dei “neri” risulta così essere un aborto.

Il terzo termine che abbiamo visto è “neofascista“. Questo termine è in genere usato in maniera offensiva, e viene respinto più o meno unanimamente dai diretti interessati. Eppure, come vedremo, è secondo me il termine più corretto, se gli togliamo la carica denigratoria. Per questo cercherò di usarlo da ora in poi in questo saggio.

Infatti, ciò che caratterizza il “nero”, e lo distingue da ogni altro raggruppamento politico, non è un’ideologia ripresa da quella mussoliniana. E’ un legame affettivo positivo con il fascismo, un tema che spero di sviscerare più avanti.

Esistono invece due termini che i “neri” hanno sempre usato per descrivere se stessi. E con cui si capiscono perfettamente.

Con riferimento agli individui, è “camerata”. Con riferimento alla collettività, è “l’Ambiente” (uso la maiuscola per distinguere dall’uso normale della parola).

Se ci pensate, sono entrambi termini che descrivono il rapporto tra persone e non hanno nulla a che fare con un progetto politico. In questo senso, esiste una differenza assolutamente concreta con la sinistra in tutte le sue forme.

Il fondamento del neofascismo non è quindi un’ideologia che miri alla costruzione di un determinato tipo di stato o società. Non è affatto il contrario speculare di ciò che vuole la sinistra.

Il fondamento del neofascismo è il modo di essere del singolo camerata e la maniera in cui lui si rapporta con altre persone che si ritengono facciano parte dell’Ambiente.

Se ci pensiamo, è una cosa notevole. Tra i neofascisti, la politica è lasciata all’individuo; mentre l’individuo e il suo comportamento costituiscono la vera politica.

La paranoia antifascista sospetta “manovre”, “ambiguità” e “infiltrazioni” nel fatto che la produzione teorica neofascista sia assolutamente imprevedibile. C’è chi fa discorsi di “destra” e chi di “sinistra”, c’è chi è cattolico, chi pagano e chi materialista. Chi ama l’Italia e chi la vorrebbe abolire.

Invece, questo avviene proprio perché, nel mondo neofascista, ognuno ha diritto di fare la politica che preferisce, perché è un elemento del tutto secondario.

Per questo, ogni studio del neofascismo che parta dalle “idee politiche” diventa necessariamente un macinare acqua.

Uno studio che colga il senso del neofascismo può partire solo dal dato antropologico, e chi ha solo strumenti politici in senso stretto, è meglio che se ne astenga (ma lo stesso vale anche per la conoscenza di altre comunità marginali).

E’ per questo che il libro di Luca Telese è di straordinaria importanza per chi si voglia occupare di queste cose.

Miguel Martinez
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09.11.2006

CUORI NERI E PROBLEMI DI IDENTITA’ (VII)

Per capire ciò che ci sta troppo vicino, occorre sempre guardare attraverso occhi lontani.

“Siedono a terra in silenzio
gli anziani della figlia di Sion,
han cosparso di cenere il capo,
si sono cinti di sacco;
curvano a terra il capo
le vergini di Gerusalemme
.

Spalancano contro di te la bocca

tutti i tuoi nemici,
fischiano e digrignano i denti,
dicono: “L’abbiamo divorata!
Questo è il giorno che aspettavamo,
siamo arrivati a vederlo”.

Quello che avviene per alcuni, con la fine del fascismo, ripete la grande scelta operata dopo la caduta di Gerusalemme, che pose fine per sempre alle ambizioni del piccolo stato di Giuda.

Gli esuli a Babilonia dovevano scegliere, se spiegarsi ciò che era successo in termini di un fallimento delle promesse di Geova, oppure inventarsi uno straordinario mito che spiegasse ciò che era avvenuto e desse nuove speranze.

Si trattava di un’azione istintiva, da parte di un gruppo sconfitto, per non scomparire. La feconda scelta di creare questo mito ci ha dato la Bibbia, e nel bene o nel male, gran parte del nostro mondo.

La politica è un’arte ottimista. Chi la fa davvero cerca opportunità, si adatta ai compromessi, mira all’espansione, guarda sempre in avanti. Il concetto lo espresse perfettamente lo stesso Mussolini, scrivendo nel 1921:

“Oggi si compiono i due anni dal giorno in cui sorsero i Fasci italiani di Combattimento. Abbiamo appena il tempo di evocare la data. La battaglia infuria dovunque. Le cronache sono rosse o arrossate dal latin sangue gentile fascista.

E poi, non abbiamo la stoffa dei commemoratori. Camminiamo avanti e guardando dinanzi a noi. E’ il nostro stile. Siamo giovani, nati ieri e non abbiamo storia. O ne abbiamo troppa. Ma non ci pesa. Non grava sulle nostre anime il passato, perché il tumultuoso presente c’incalza verso l’avvenire.”

Questa citazione è l’esatto contrario di ciò che è il neofascismo. La cosa sfuggirà agli stessi neofascisti. Infatti, se lo ha detto Mussolini, deve essere valido a prescindere da quello che significa; poi è vivace e ben detto, e se non ci si pensa troppo sopra, dà una gradevole sensazione di decisione e di forza.

Il neofascismo, al contrario del fascismo reale, è un racconto di storia apocalittica. Cerchiamo di fissarne i punti fondamentali, raccontandolo come un mito.

Miguel Martinez
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11.11.2006

CUORI NERI E PROBLEMI DI IDENTITA’ (VIII)

Dietro l’infinita varietà di discorsi espliciti dei neofascisti, si trova quasi sempre, a mio avviso, un discorso implicito.

Questo discorso costituisce la creazione di una memoria culturale, esattamente nei termini descritti dall’egittologo Jan Assmann, per indicare il modo in cui il passato viene riletto o reinventato per dare un senso al presente.

Alle origini, si trova un’età dell’oro. “Si trova” e non “si trovava” – si tratta di un presente eterno, un modello trascendente, che, come vedremo, ha poco o nulla a che vedere con il fascismo reale, e anzi viene spesso collocato altrove.

La sconfitta è un precipitare direttamente nell’età del ferro. La sua causa principale non è esterna, ma è dovuta – biblicamente – al peccato del popolo.

Lo stesso popolo italiano, che è intimamente corrotto, dall’alto al basso, tradisce. Non solo tradisce il Duce con l’8 settembre, ma tradisce soprattutto la propria essenza, prostituendosi allo straniero (anche questa è un’immagine che ricorre nella Bibbia).

La corruzione del paese e del popolo sarebbero totali, se una schiera, un resto d’Israele, non avesse compiuto un sacrificio di sangue per redimere un ente misterioso e trascendente – l’Onore d’Italia.

Se si leggono i testi neofascisti, soprattutto quelli scritti con più spontaneità, si resterà colpiti dalla profusione di maiuscole usate per concetti come “Onore”. È come se quello che esiste solo nella fantasia degli autori potesse improvvisamente diventare reale, usando lo stesso sistema grafico che si adopera per nominare individui veramente esistenti.

Il sacrificio di sangue genera una comunità di eletti, che tra di loro si chiamano i “camerati”.

Un gruppo di uomini – assai più che di donne – che per la sola scelta di andare controcorrente possono considerarsi vivi e e quindi, diciamocelo, superiori al resto dell’umanità.

In compenso per l’elezione – l’Onore, appunto – questa comunità deve assicurare la fedeltà: il culto della memoria, e quindi del sacrificio fondante, non deve mai cessare, e questo permetterà l’avvento di una redenzione messianica, in tempi però mitici e non politici.

Il neofascismo trova la soluzione a un problema che molte altre culture non hanno saputo affrontare: come convivere per decenni e con successo con la sconfitta assoluta, con la morte e con il fallimento, riuscendo ugualmente a riprodursi e a conservare il gruppo?

Il trucco sta nel fare dell’esilio la base della propria presenza, e della morte la base della propria vita.

Se accettiamo che la sopravvivenza di un gruppo possa essere un valore in sé – molti potranno dire che si tratta di uno scopo assai discutibile – bisogna dire che il neofascismo ha risolto il problema meglio della sinistra post-gorbacioviana, che ha enormi difficoltà a convivere con il fallimento e con la morte.

La chiave sta nella separazione radicale tra il mito e la politica.

Tutti i neofascisti condividono l’essenza del mito che li unisce. Un mito che è per sua natura apolitico, perché la conservazione del gruppo dei puri, isolato dalla comunità dei contaminati e dei traditori, è semplicemente inconciliabile con il successo politico.

Eppure, e qui sta il paradosso e il problema, questo mito apolitico si esprime quasi solo attraverso maschere politiche.

Miguel Martinez
Fonte: http://kelebek.splinder.com/
Link: http://kelebek.splinder.com/1163312528#9873094
12.11.2006

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