Di Accattone il Censore per ComeDonChisciotte.org
Il misconosciuto Poeta Francesco Zuccarini, come tutti i grandi, proviene da un altro tempo e il suo animo a quel tempo è rimasto attaccato.
Mi piacerebbe adoperare per lui le parole che Concetto Marchesi dedicò a Valerio Marziale:
Era uno di quegli spiriti singolari che la natura foggia per lo strano bisogno di specchiarvisi dentro; la cui fatica consiste nel tormento cerebrale dell’osservare e del riflettere; che non possono quindi far gli avvocati o i pubblicani o i maestri né praticare le solite vie né raccogliere i soliti frutti onde l’enorme epa umana si satolla e si inpingua. E son perciò chiamati fannulloni e accattoni.
Ma il termine accattone certamente non si attaglia a Zuccarini: se la parola aristocrazia ha ancora un senso, e un senso prezioso, vorrei adoperarla per lui, che aristocratico lo è per schiatta e per spirito.
Zuccarini, dicevo, vede e giudica con l’ottica di un altro tempo e le sue istantanee sono paradossali dagherrotipi con il sapore di un’attualità che non passa.
Tra i suoi apoftegmi ed epigrammi, che riecheggiano la tradizione scoptica – pensiamo a Rustico Filippi, ma ha avuto pochissimi continuatori alle nostre conformistiche latitudini – respiriamo ancora l’atmosfera asfittica dello Stato della Chiesa, dell’ipocrisia, del servilismo, dell’opportunismo, del piccolo e grande arbitrio e soperchieria. Le sue sono cronache pezzentesche, un’odissea nella meschinità: il ritratto di una plebaglia pidocchiosa in pantagruelica e inconscia attesa di un ultimo micragnoso pasto acquistato a rate. Zuccarini è l’osservatore implacabile, l’entomologo spietato, che pone sotto alla lenticola l’avarizia minuta e quotidiana del negoziante o dell’infimo burocrate, che spacca il pidocchio in quattro per levargli la pelliccia, del sordido bancario, che gode allo scadere delle tratte: specchio in sedicesimo della cupola usurocratica che ci sovrasta, e tra i suffumigi e prestigi della propaganda, ha degradato l’uomo a cosa e merce. Le sue sono pennellate d’Autore: i Capricci di Goya transustanziati in verbo e carne guasta.
Vedere il mondo in un granello di sabbia, scriveva William Blake; Zuccarini lo vede in Cupra, la sua specola dell’universo, mai abbandonata e trasfigurata, mercé una toponomastica vivida e onomatopeica in Culacciano, epitome di una provincia qualunque, periferica latebra di un Paese in decomposizione, dove il pensiero diventa flatulenza e la flatulenza pretende la dignità del pensiero. Mi ricorda la carta intestata della Sederconsorzi, con cui un altro mirabile strapaesano, Mino Maccari, mandava missive goliardiche all’amico Flaiano.
Pezzenteria e servilismo: da un polveroso e sperduto cantuccio di provincia, Zuccarini può vedere l’Italia tutta: le due gambe malferme che consentono all’italiano solo di strisciare. Servile perché pezzente e pezzente perché servile.
Lontano dalle ruffianerie ipocrite degli arrivati, sconsolato, epperò giammai teterrimo, al contrario di un altro grande marchigiano, Giacomo Leopardi, dai veroni della sua magione non vede né filare, né ode alcun canto muliebre, ma l’oltracotanza dialettale dei motori dei Suv di pollaroli arricchiti, o di ex fabbricanti di scarpe che parcheggiano sui marciapiedi.
Alle volte, sotto l’osservatore di costumi, attonito di fronte al sottovuoto interiore di una società demenziale e stupidogena, adoratrice dello sparagno e del valsente, fa capolino il moralista, e, pagina dopo pagina le parole avvolgono come la litania di un’eresiarca colpito da anatema e damnatio memoriae. Un Savonarola senza più fede, né uditorio.
Ci sembra di vederlo passeggiare solitario, a declamare nella piazza desolata di un borgo ormai abbandonato o i cui terrazzani restino imbalsamati davanti all’onnipresente televisione, a consumare manicaretti cinesi a base di animali domestici.
Tuttavia, l’incomprensione e l’isolamento, calice amaro degli spiriti più elevati, non devono mai traboccare nel rimpianto per il mancato plauso di una umanità ai minimi termini. La celebrità, in un mondo come l’attuale, è per forza di cose volgare, degradata e degradante.
«A me bastano pochi, a me basta uno, a me basta nessuno», scriveva Epicuro.
E Voltaire, che aveva conosciuto la fama, ebbe giustamente a dire: «La felicità è vivere e morire sconosciuti».
Vi lascio con questo video di Zuccarini: Discorso di fine anno
Accattone il Censore
Accademia dei Disagiati
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25.12.2024