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La Redazione

 

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CRESCENDO LEILA

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A cura di God
Il 13 Aprile 2008
86 Views

DI DAVID ROVICS
Songwriter’s Notebook

Oziosi pensieri sul crescere neonati e bambini (e sul bruciare le scuole)

Ultimamente ho passato la maggior parte del mio tempo con una bimba – mia figlia, Leila. Avrà due anni alla fine del prossimo mese. Spesso sono con lei dall’alba fino al tramonto, cinque o sei giorni alla settimana, mentre sua madre frequenta la scuola di medicina. Passando tutto questo tempo con lei, naturalmente ha iniziato a legarsi molto a me, ed è contagioso. Alla sua presenza sono spesso in uno stato di leggera euforia, accompagnato da fragilità emozionale. Come se sapessi di essere molto piccolo e nuovo qui, ma finché non succede nulla di male, il mondo è essenzialmente un luogo eccitante e affascinante, lì per essere costantemente riscoperto.

Ha passato una breve fase in cui è rimasta senza respiro per delle occasioni che la impressionavano. In questi giorni è più propensa ad applaudire vigorosamente e gridare “yay!” ripetutamente, o urlare la parola rilevante per l’evento che l’ha impressionata, come “frullato!”, “pappa!”, “cagnolino!” etc. Quando qualcosa la impressiona abbastanza ma forse non abbastanza da farla iniziare ad applaudire ed urlare, tipo la scorsa settimana, vedendo un cane che correva a rotta di collo e poi saltava in aria per afferrare una palla a mezz’aria, dice spesso, “è fuori!”. L’ha imparato dalla sua fantastica babysitter punk-rock, Hannae. Ha imparato altre espressioni da Hannae, e le usa tutte secondo il contesto. Quando io e un amico stavamo entrambi tenendo una delle mani di Leila per farla “volare” in aria, ha detto “sono stra-contenta!”.Anche con molte altre espressioni, sa di cosa sta parlando, ma le formula come domande piuttosto che come dichiarazioni, perché ci sono espressioni che ha sentito spesso e sembrano essere associate con alcune attività. Per esempio, se esco dalla porta sul retro del mio appartamento si fa strada verso di me dicendo “stai venendo qui?”. Significa “Io sto venendo”. Una ad una, queste “domande” iniziano a diventare dichiarazioni, come se iniziasse a capire quale è ognuna. Proprio come “shoomie” diventa “smoothie” [frullato, ndt], ed “Eya” diventa “Leila”.

Mai qualcuno ha cercato di “insegnarle” come pronunciare correttamente il suo nome. Nessuno ha mai cercato di spiegarle la differenza tra un’affermazione ed una domanda. Le capisce “per conto suo”, vivendo, interagendo con le persone, osservando, ascoltando, provando le cose e guardando cosa accade. Raramente è frustata dai suoi errori.

Ultimamente ho notato che, a volte, quando ha sviluppato delle aspettative sul funzionamento di qualcosa, e poi non va come supponeva lei, questa può essere una fonte di frustrazione. Per esempio, è giunta a credere che quando si è messa i pantaloni, quelli rimarranno là finché lei non se li toglie. Recentemente aveva un paio di pantaloni troppo grandi, e continuavano a caderle sulle gambe e doveva sempre tirarli su, così dopo un po’ si è messa a sbraitare per la frustrazione. (E ho promesso di cercare con più impegno di vestirla con abiti che le vadano bene).

Ma generalmente il mondo è nuovo ed inesplorato, e grazie ad un approccio libero e creativo a tutto, affascinata da molto di quel che incontra nel mondo, applicando il metodo scientifico ad ogni nuova situazione, Leila cresce. Più tempo passo coi bambini, più mi convinco che all’inizio siano tutti come Leila – brillanti, graziosi, pieni di entusiasmo per la vita, pieni di desiderio di scoprire e godersi il mondo, capire tutto quello che c’è da capire, imparare ogni nuovo linguaggio che incontrano.

Leila parla due lingue, principalmente – il francese nativo di sua madre e il mio inglese. Mischia francese ed inglese con chiunque parli, ma per la maggior parte si sintonizza al linguaggio che usano le persone e ricorre a quello. Dopo un po’ impara tutte le stesse parole ed espressioni di entrambe le lingue, ma per il primo periodo una nuova parola o espressione sarà solo in una delle due. “Cheese” di solito è ancora “mage” (da “fromage”), “pants” di solito sono “pantalon”. Alcune cose che la eccitano particolarmente impara a dirle in entrambe le lingue, e più immediatamente delle altre, nella speranza che una di queste parole funzionerà e qualcuno le darà un po’ di “gelato” (“glas”, “helado”).

Poco tempo fa la mia amica Reiko è venuto a farmi visita dal Giappone. La incoraggiavo a parlare il Giapponese con Leila. Con il calore entusiasta di Reiko, ero sicuro che non sarebbe importato a Leila quale lingua stesse parlando. Leila sembrava ancora più illuminata quando ha sentito Reiko parlare giapponese. Era come se stesse pensando “non ho mai sentito delle persone parlare in questo modo prima d’ora! E’ nuovo ed eccitante! Vediamo, ripeterò quello che dice e vedrò cosa accade, vedrò come reagiscono le persone, vedrò cosa significa questo, che ganzo…”. Nel giro di qualche ora aveva imparato “oishi” (“yummy”) e “moshi-moshi” (“hello”, quando si risponde al telefono).

Piacevole gente nuova, buon cibo e telefoni sono tutti molto interessanti, così naturalmente quelle sono delle buone parole da imparare per prime in ogni nuovo linguaggio. Quel che fanno gli adulti – e ancora di più quel che fanno i bambini più grandi – è automaticamente interessante. Salire e scendere le scale, mettersi e togliersi i vestiti, parlare (specialmente parlare al telefono), leggere, scrivere. Altre cose sono divertenti di loro, come nuotare o farsi un bagno, giocare nel parco, o bere frullati. Dalla prospettiva di Leila, sembra che tutte queste cose dovrebbero essere fatte spesso e bene, se sono cose che richiedono maestria, e certe più certe meno, lo fanno tutte.

Quando Leila incontra qualcosa che vuole padroneggiare, come, per esempio, salire e scendere le scale, ci si accinge come uno scienziato che sta giocando. Gode lo sforzo, i successi, e non sembra mai preoccuparsi dei “fallimenti”, che vede chiaramente come esperienze istruttive. A meno che causino dolore fisico o la paura del dolore, come quando cade dalle scale o va vicina a cadere ed ha bisogno di essere salvata (nelle molto rare occasioni in cui è davvero inciampata, ero generalmente abbastanza vicino perché non cadesse per più di un gradino). Ma nel caso del dolore fisico, per essere caduta o sbattuta contro qualcosa, di solito piange per un momento o due, vuole un breve abbraccio, e poi desidera scendere e tornare a quello che stava facendo e che ha causato il danno, per capire cosa sia andato male e come farlo meglio.

Il dolore emotivo è molto peggio, peggio anche di quando Leila mi salta sopra la pancia. Quando ha recentemente capito che stavo prendendo un aereo per stare via molte settimane (in tour) era sconvolta e ha pianto forte per un po’. In un paio di occasioni il gatto di sua madre, Oliver, le ha tirato delle zampate essendo stanco di venir importunato. E’ un po’ lunatico, come lo sono spesso i gatti, e non molto amichevole verso i bambini. Di solito se la svigna irritato appena lei cerca di accarezzarlo per qualche secondo, ma a volte la tollera per un po’ di più, mentre altre volte ancora usa gli artigli anziché filarsela. A Leila non piace che se ne vada, ma quando la graffia sembra sentirsi devastata e tradita. Quando piange per qualcosa come in questi casi sembra volermi far sapere cos’è che la sconvolta, così l’ultima volta che è successo, nel bel mezzo dei suoi singhiozzi, diceva “Miao! Miao”.

Sentivo di voler piangere con lei e ridere di lei allo stesso tempo, ma non ho fatto nessuna delle due. Quando piange sento di doverla stringere, e di solito le piace. Ma l’ultima volta che il gatto le ha tirato una zampata non era quello che voleva. Mentre stava ancora piangendo e si sentiva ovviamente ferita da Oliver, voleva che le cose funzionassero con lui. Non se ne era ancora andato, e lei voleva cercare di capire cosa era successo. La verità è, se lo capisse, che lei non era la prima, perché quel gatto graffia chiunque prima o poi. Il resto di noi, semplicemente, non ne è particolarmente preoccupato, perché sappiamo che è un gatto e i gatti possono essere così (e comunque non fa mai uscire sangue dagli umani, a differenza di alcuni altri gatti che ho conosciuto).

Che le cose siano difficili o facili, potenzialmente doloroso o meno, Leila ci si immerge. Nessuno ha mai dovuto “insegnarle” come fare queste cose. Nessuno l’ha mai incoraggiata ad imparare cose nuove, semplicemente fa delle cose nuove tutto il tempo per amore della vita e per una passione ovvia, non celata, nei confronti del mondo. Nessuno le ha detto del metodo scientifico o del capire le cose – il suo piccolo cervello ha fatto tutto da solo, fin dall’inizio.

Durante il suo primo anno viveva in una casa senza scale. Quando stava ancora capendo come camminare, stavamo passando alcuni mesi in un posto con delle scale. Le scale divennero un fonte di incanto primaria. All’inizio, qualcuno la guardava sempre come un falco, ma raramente si rivelava necessario, e dopo poco era chiaro che Leila non voleva fare cose che potessero risultare in un suo capitombolo. Voleva disperatamente essere in grado di salire e scendere le scale senza le mani come fanno i grandi, ma sapeva che non poteva farlo da sola, così voleva prendere la mano di qualcuno e andare sù e giù in quel modo. Almeno le sue mani non toccavano le scale, sembrava star pensando. Ma voleva essere in grado di fare le scale senza aiuto, così improvvisò e si ingegnò a scalarle in un senso e nell’altro andando a ritroso. Cercò di andare avanti sul sedere, ma non sembrava funzionare bene, così alla fine decise di andare a ritroso. Quando era pronta per iniziare a salire le scale tenendosi sulla ringhiera, lo fece, e con successo. Dopo un po’ iniziò a fare le scale senza tenersi a nulla. Si sfidava a fare ogni singolo passo finché le sembrava sicuro, senza che mai qualcuno le dovesse dire “non fare questo” o “non fare quello” o “è pericoloso”, “stai attenta”, etc.

Leila sta anche imparando a suonare l’ukelele alla stessa maniera. Non le ho mai “insegnato” come farlo, come pizzicare o strimpellare le corde etc. Semplicemente, lo suono spesso per il nostro piacere nel mio (nostro) appartamento. Ne ho molti, in giro, e ovviamente sono abbastanza piccoli perché un bambino possa suonarli. A volte ne prende uno mentre ne sto suonando un altro, ma più spesso prende quello che stavo suonando io dopo che l’ho messo giù. Non ha ancora iniziato a toccare le corde, ma lo tiene nella solita posizione (come faccio io), una mano sul manico e l’altra che suona le corde. Le pizzica una ad una o le strimpella, e a volta canta, pure. Canta magnificamente, raggiunge toni alti, e potrebbe avere un’intonazione perfetta (Non ho cercato di capirlo per certo e non penso che importi se ce l’abbia o meno). Le piace la musica, e spesso la esige. Ho sempre una chitarra disposta nel suo stand in soggiorno. Leila si dirige verso la chitarra e strimpella candidamente le corde (solo una volta ne ha accidentalmente fatta cadere una, ed è abbastanza facile con quei piccoli sostegni a tre gambe per le chitarre ), dicendo “suono la musica?”.

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La nostra è una relazione simbiotica. Stiamo sempre facendo qualcosa che ci godiamo insieme. Se sta facendo ossessivamente qualcosa per una mezz’ora, tipo scalare sù e giù una nuova scala un centinaio di volte o giù di lì (dimostrando brillantemente che i bambini non hanno range di attenzione bassi se sono presi da quello che stanno facendo), mentre io leggo le news della AP sul mio nuovo e decorato cellulare, quando ha finito e vuole fare qualcosa di più interattivo, metto il telefono in tasca e facciamo qualcos’altro. Mi sembra che non ci sia una particolare ragione per cui dovremmo fare cose che non piacciono ad uno dei due, in quanto ci sono molte cose che piacciono ad entrambi. Spesso, trovare attività di reciproco interesse mi porta ad imparare nuove cose.

Per esempio, io suono la musica per vivere, ed è bene esercitarsi a suonare, scrivere canzoni, etc (Ed è bene anche che io risponda alla mia mail regolarmente, così posso prenotarmi grandi concerti e simili, ma è noioso per Leila così lo faccio solo quando è a nanna). Di solito suono la chitarra con un pletro. Ma ogni volta che inizio a suonare, Leila inizia a concentrarsi sul pletro, che la affascina per qualche ragione. (L’innata attrazione degli umani per gli strumenti di ogni tipo, forse?). Una volta che ha il pletro, può suonare le corde per un po’, ma di solito è più interessata a farlo cadere nella buca e poi dire qualcosa come “Oh no! Non so dov’è andato il pletro! Dov’è andato il pletro?”. Poi scuoto la chitarra sù e giù finché non salta fuori e Leila grida “eccolo!”. Poi, immediatamente, lo fa cadere dentro di nuovo.

Io mi annoio con questo gioco, mentre sua madre si preoccupa che potrebbe mangiare il pletro e soffocarsi (sembra molto improbabile, ma non si sa mai, si ritiene che i bambini facciano questo tipo di cose a volte), così non le voglio dare un suo pletro per suonare. Quando lo faccio, comunque (guardandola attentamente per essere sicuro che non decida davvero di mangiarlo), lo fa cadere nella buca e poi chiede che io lo raccolga in modo che possa farlo cadere di nuovo. Posso alzarmi in modo che le mie mani e il pletro siano fuori dalla sua portata, e mi sembra qualcosa di cattivo da fare, e quando ci prova a volta mi raggiunge fino alla mia mano destra, dicendo “Pletro? Pletro? Pletro?”. Così ho smesso si usare il pletro in casa, e sono molto migliorato nel finger-pickering, come desideravo fare da anni, ma in qualche modo non c’ero mai neanche andato vicino (come imparare lo spagnolo, e molte altre cose).

Nei nostri viaggi in giro per la città, amici e conoscenti commentano spesso che Leila sembra essere eccezionalmente intelligente, abile, abituata alla vita, e di buona natura. Penso che per la maggior parte siano sinceri quando lo dicono, non cercano solo di impressionare l’orgoglioso papà. Forse c’è un fattore genetico, e certamente ci sono fattori fisici – il raffinato latte biologico dal seno è liberamente stillato ogni sera (“tetta!” – che ovviamente è emozionalmente educativo quanto lo è fisicamente), la maggior parte di quello che mangia è biologico, etc. Ma, più di tutto, direi che il suo essere “eccezionale” riguarda più che altro il fatto che gli altri bimbi siano “non eccezionali”. Ossia sono tenuti a freno dai loro genitori ed altri adulti nel corso delle loro vite, e specialmente da parte delle scuole. Suggerirei che la maggior parte dei genitori e la grande maggioranza delle scuole – pubbliche, private o “alternative” – stiano fallendo, spesso miserabilmente, nel permettere ai bambini di essere brillanti. Sono certo che molti genitori, insegnanti e dirigenti scolastici si preoccupino molto dei loro bambini, ma sbagliano pressoché tutto e non ne hanno idea, per essere del tutto franco.

Sono come scienziati pazzi che cercano di allevare dei pappagalli nell’Artico. I pappagalli continuano costantemente a gelarsi fino a morire, ma i biologi continuano a cercare di insegnare loro come volare più velocemente, fare giochi, imparare nuove espressioni, etc, sperando sempre che qualcosa di quello che fanno aiuterà gli uccelli a prosperare, ma loro continuano a morire di freddo indipendentemente da quello che fanno. Iniziano a dare delle droghe agli uccelli per aumentare il loro battito cardiaco e li tengono al caldo, ma anche questo non funziona. Non si accorgono mai che ci sono aspetti fondamentali dell’ambiente in cui hanno portato gli uccelli che causano la loro morte.

Ho sempre saputo che la nostra società (intendo gli Stati Uniti, e con buona approssimazione il mondo “civilizzato” in generale) era sottosopra, ma questa consapevolezza non è mai stata così grande in me finché non ho avuto un bambino. E’ pieno di buone ricerche, ignorate ed incomprese, su come adulti e bambini imparino, su come manteniamo, miglioriamo o perdiamo il nostro benessere fisico, mentale ed emotivo. Ho letto molto al riguardo di recente, ma non porterò qui l’ambito accademico, userò la mia vita in questo mondo come guida. Penso che sia un modo più semplice di descrivere le cose, comunque. Ho personalmente avuto esperienza dell’auto-didattica, di molti anni in una scuola pubblica considerata eccellente, e di molti anni in una fantastica scuola alternativa. Ho anche conosciuto (e conosco) molti bambini e adulti di tutte le età che sono cresciuti in una grande varietà di ambienti.

Comincia con la nascita. Nonostante la pratica sia stata ampiamente screditata, anche dai dottori che la raccomandarono originalmente mezzo secolo fa, i genitori confinano i loro fanciulli in una culla e li lasciano piangere finché non si addormentano. Consapevolmente o meno, questo è l’inizio del processo di insegnamento ai bambini che essi non controllano le loro vite. La prima nozione per un bambino, la più basilare, ossia che le loro espressioni di malcontento debbano essere gestite da un adulto di qualche tipo, mette le cose in chiaro e prepara il palco per tutto quello che verrà poi. Pensavo di essere un po’ in una strana bolla di… sinistra, vivendo in qualche modo ai margini della società, ma sono rimasto sorpreso nel constatare, ora che ho una bimba e sono con altri bimbi un po’ più spesso. Che la pratica di lasciar piangere i neonati finché non si addormentano non è infrequente anche nel mio giro.

Dopo aver “appreso questa lezione”, ossia che non controllano il loro ambiente e che il loro disagio non sia particolarmente importante, entro pochi mesi sono nel campetto dei giochi, dove mi trovo spesso con mia figlia. Molti dei bambini sono come Leila: hanno fiducia in sè stessi, e si auto-sfidano a scalare le cose. A volte Leila cade da un paio di piedi d’altezza. In tutti i parchi di Portland dove sono stato, il terreno è coperto di soffici truccioli, quindi è tutto ok. Ma ci sono sempre genitori che cercano di dettare al loro bambino ogni singolo movimento. Il parco giochi – un luogo ideato per i bambini, dove possano divertirsi – in qualche modo è trasformato in una fonte di esasperazione sia per il genitore che per il bambino. I genitori creano confini non necessari contro cui i bambini vanno a sbattere e ai quali, ovviamente, si sentono costretti, sentendosi come se fosse impedito loro di crescere e di imparare nuove cose (ed hanno ragione).

Se Leila sta facendo qualcosa che un bambino di un anno più vecchio di lei non è autorizzato a fare, e poi il genitore dell’altro bambino decidere di lasciar fare al figlio quello che è, diciamo salire una scala (con una ringhiera!) spesso il bambino, raggiungendo l’estremità, dirà “Ho paura”. Perché sono spaventati? Perché i loro genitori hanno insegnato loro che a questa età non possono fidarsi di sè stessi. Hanno effettivamente arrestato il loro sviluppo fisico ed emotivo, di già.

E poi, ovviamente, il passo seguente per la schiacciante maggioranza dei bambini: la scuola. Ora che molti di loro hanno imparato a non fidarsi di sé stessi, sono generalmente posti in un ambiente dove chiunque abbia non più di un anno di differenza da loro, tranne l’insegnante. Al di là del tipo di scuola, il messaggio implicito è che questi ragazzi siano in questa scatola per una ragione – sono lì per “imparare”, e l’insegnante è lì per “insegnare”.

Le scuole alternative possono alterare con successo questa equazione fino al punto dove l’esperienza complessiva è positiva per i bambini, ne sono certo. Ma le migliori scuole alternative stanno cercando (con successo o meno) di creare un ambiente “sperimentale, gestito dal bambino”. Questo è bene, perché significa che stanno cercando di ricreare il “vero mondo” in un ambiente scolastico. A causa dei diffusi pregiudizi sociali di quel che sia tradizionalmente la scuola – una sorta di rigido “noi” (studenti”) e “loro” (insegnanti e dirigenti) – è un’intrinseca sfida a cercare di cambiare il modello e creare una scuola autenticamente alternativa. Ma anche se una scuola alternativa può creare una situazione dove imparare è davvero sperimentale anziché tutto un “insegnare” dall’alto, non sostituisce comunque il ricco ed infinitamente più vario ambiente che esiste al di fuori dell’edificio scolastico.

Di certo, per la maggior parte dei genitori e di quelli che si occupano di bambini, tenerli fuori della scuola non sarebbe un’opzione realistica. Forse mandarli ad una scuola alternativa non è altrettanto realistico, a causa dei costi che questo comporterebbe. Non suggerirò che tenere i bambini fuori dalla scuola sia necessariamente possibile o anche solo giusto per tutti. Ma per quelle persone che pensano alla scuola come ad un ambiente necessario ed importante per i bambini, vorrei essere una voce che rifiuta con veemenza questa nozione. No, la scuola non è né necessaria né importante. Infatti, per la grande maggioranza del tempo farà più male che bene. Sto parlando delle scuole che generalmente chiamano “buone scuole” (con l’eccezione, forse, di alcune delle migliori scuole alternative), non solo delle scuole “scadenti”.

Ne so qualcosa sull’argomento, Non ho una laurea, e sono certo di non averne bisogno. Ho conosciuto molti genitori e bambini, adulti e giovani, in tutto il mondo. Sono profondamente aduso ai prodotti di una vasta gamma di istituzioni educative: private, pubbliche e alternative, ed io ho stesso ho passato molti anni studiando in un “buon” sistema pubblico scolastico, un eccellente scuola elementare alternative, e in un più convenzionale college privato.

Forse, ancora più importante, ho conosciuto (e letto libri su) molti giovani che sono stati tenuti fuori dalla scuola per la maggior parte o tutta la loro vita. Sono sempre brillanti. Non solo in termini della loro capacità di pensiero critico, ma anche per il pensiero creativo, e in termini di intelligenza emotiva. Sono vivi. Spesso i loro genitori non mi impressionano necessariamente come persone eccezionali, in termini di risultati accademici o di vita. Non li riconosceresti in fila all’ufficio postale. Ma passare del tempo con persone giovani che non sono andate a scuola è un’esperienza profondamente convincente di per sè. La facilità con cui tendono ad interagire con altri ragazzi della loro età, o più giovani, o più grandi, o adulti. La fiducia e sicurezza in se stessi, l’intelligenza che brilla nei loro volti, la loro disinvoltura nella “conversazione da adulti”.

Molti di loro seguono i corsi al college locale nei primi anni della loro adolescenza, così spesso hanno esperienze con le istituzioni educative convenzionali, ma è un “contatto auto-diretto”, e in genere stanno solo seguendo corsi su cose a cui sono interessati, di solito cose che non vengono insegnate alle scuole superiori o che non vengono insegnate ad un livello sufficientemente avanzato.

Da quando ho avuto Leila mi sono sempre più interessato alla materia, ed ho chiesto ai molti professori universitari che conosco di raccontarmi i loro rapporti con gli studenti che sono stati tenuti fuori dal sistema scolastico fino a quel punto. Ripetutamente, mi dicono quanto siano impressionanti questi ragazzi, quanto siano più avanti dei loro compagni socialmente, intellettualmente, emotivamente.

Dalla mia esperienza con la scuola, e vedendo gli effetti della scuola sugli altri, questo ha perfettamente senso. Quel che mi ricordo delle elementari è che imparai come le mie necessità, sentimenti e desideri non importassero. Imparai che fare quello che voleva l’insegnante era tutto quello che contava, ed imparai che era impossibile farlo. Mi sentivo sperduto, confuso e ansioso la maggior parte del tempo. Sono certo che non fossi l’unico in classe a sentirsi così. Era la mia prima esperienza in una classe con dei banchi e tutta quelle cose lì e fu un’esperienza potenzialmente distruttiva per lo spirito.

Fortunosamente, i miei genitori riconobbero che la scuola non stava funzionando per me, così cercarono e trovarono una splendida scuola alternativa che si trovava proprio nel nostro piccolo sobborgo in Connecticut. Si chiamava Learning Community. Dopo aver passato un po’ di tempo in solitudine, essenzialmente a riprendermi dal disturbo post-traumatico da stress indottomi dalla scuola pubblica, mi trovai bene in quell’ambiente, e mi fu permesso di rimanere più o meno emotivamente intatto. Posso solo cercare di immaginare come sarebbero andate le cose se avessi dovuto frequentare le scuole pubbliche o qualche altra scuola convenzionale durante quel fragile periodo della prima infanzia. Di certo non sarei la persona che sono oggi.

Quando tornai di nuovo in una scuola pubblica, dai 7 ai 12 anni, ero entusiasta dell’esperienza. Volevo vedere come sarebbe stato. Ero interessato alla scienza e alla matematica, e avevo l’impressione che mi sarebbe piaciuto imparare queste cose. Oggi mi piace ascoltare una buona storia, o una buona lezione. Ma sentir parlare tutto il giorno persone che erano chiaramente disinteressate in quello di cui stavano parlando, in una classe con persone ugualmente disinteressate nei contenuti della materia, fu opprimente. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo anno, stavo uscendo di testa per via della noia. Era come essere in purgatorio. Non lasciai mai, ma nemmeno accettai quella realtà, e in qualche modo sopravvissi all’esperienza più o meno intatto, sebbene abbia in gran parte perso sei anni potenzialmente molto formativi della mia vita. Per mia sorella e molti dei miei amici, l’esperienza della scuola pubblica fu molto peggio.

Ricordo come, all’inizio di ogni anno scolastico, agli studenti fosse data la possibilità di scegliere una parte del loro programma. Ogni anno, molti o la maggior parte dei corsi erano obbligatori, ma almeno potevi scegliere tra “Introduzione alla Fisica” o “Introduzione alla Chimica” (dimenticatevi dell’astronomia, l’antropologia o le altre materie potenzialmente interessati per i ragazzi). Potevate scegliere tra la storia occidentale europea o la storia statunitense (insegnate sempre, naturalmente, dalla prospettiva dei ricchi schiavisti bianchi assassini di Indiani, e potevate scordarvi di imparare la storia dell’Europa Orientale, l’America Latina, l’Africa o l’Asia). Potevate scegliere tra il Francese e lo Spagnolo, insegnati da non-madrelingua. Sono certo che non ci fosse più di una manciata di studenti che era anche solo vicina ad un livello di conversazione quando si diplomarono, e sono certo che la maggior parte di loro fosse costituita da studenti che erano stati all’estero. Però ci veniva offerta una scelta, e questo era eccitante. Come realizzai in seguito, era l’unico periodo dell’anno in cui ci veniva effettivamente offerta una scelta, e questa era essenzialmente tra Pinco-Panco e Panco-Pinco.

Era così all’inizio degli anni ’80 in uno dei meglio finanziati sistemi scolastici in una delle città più ricche in uno dei più ricchi paesi degli Stati Uniti, una “buona scola” secondo la maggior parte delle prospettive. Infatti, i miei genitori si trasferirono a Wilton da New York City soprattutto per via di com’era la scuola lì.

Ma anche se gli insegnanti erano stati (perlomeno in qualche momento della loro carriera) interessati a quello che facevano e di cui parlavano, sono ancora convinto che è la struttura gerarchica, orientata all’insegnante della scuola a costituire il problema essenziale. La scuola ti insegna che hai bisogno degli insegnanti per imparare. Questo toglie energie e spirito. La diffusa ma falsa idea è che tu abbia bisogno di studiare “Algebra I” prima di poter studiare “Algebra II” prima di poter studiare programmazione informatica o astronomia, piuttosto che imparare l’algebra attraverso lo studio di qualcosa che sia potenzialmente interessante o pratico, come appunto la programmazione informatica o l’astronomia. Impariamo che per imparare qualcosa di davvero interessante prima devi annoiarti a morte per anni studiando altre cose. La gratificazione è sempre posticipata.

Nei corsi di lingua, per esempio, gli insegnanti non iniziano nemmeno cercando di far parlare i ragazzi finché non hanno dato loro un anno di test di grammatica e vocabolario. Con questo tipo di irreggimentazione è una bella domanda perché nessuno impari mai qualcosa.

Spesso la gente considera i sistemi di istruzione pubblica europei come molto superiori alle scuole pubbliche statunitensi. Ho passato molto tempo in tutta Europa e conosciuto molti giovani ed anziani europei, e per molte ragioni concordo che, per esempio, il sistema scolastico tedesco sia molto migliore del nostro. Ma avendo passato un sacco di tempo nella seconda città della Germania, la grande città cosmopolita di Amburgo, non ho potuto fare a meno di notare che la maggior parte dei Tedeschi non parla fluentemente l’inglese. Molti lo fanno, di solito perché hanno viaggiato molto, vissuto in Inghilterra, Irlanda, Stati Uniti, o hanno avuto un fidanzato irlandese o simili. Ma per quelli che non hanno avuto queste esperienze, nonostante la grande maggioranza di loro si sia diplomata nelle scuole pubbliche tedesche ed abbia studiato inglese per dieci anni, non hanno mai raggiunto un buon livello.

In Giappone è ancora peggio. Il Giappone è ampiamente noto per avere un sistema di istruzione pubblica estremamente duro, e molti studenti studiano varie materie con dei tutor quotidianamente, anche dopo aver passato lunghe ora a scuola. Come in Germania, gli studenti giapponesi hanno tutti studiato inglese per dieci anni o più. Eppure, dalla mia esperienza di viaggio in Giappone, la scorsa estate, sarebbe molto generoso dire che un 10 % dei Giapponesi sa parlare l’inglese con un qualche grado di scorrevolezza.

Cosa spiega questo fallimento dei sistemi scolastici in due dei più ricchi paesi del globo? E perché l’enorme differenza tra la conoscenza dell’Inglese in Germania comparata a quella, diciamo, della Scandinavia o i Paesi Bassi, dove (stime mie) circa il 90 % della popolazione sotto i 60 anni parla molto scorrevolmente l’inglese? Una differenza è che in Scandinavia e Olanda molti dei film e delle sit-com in TV vengono dagli Stati Uniti. Molti documentari sono della BBC. E la lingua più comunemente parlata dai visitatori internazionali è l’Inglese. L’Inglese è ovunque attorno a loro quotidianamente. Apprendimento sperimentale. La Germania, che ha un mercato della TV e dei film molto più grande della Scandinavia, la maggior parte della programmazione straniera è doppiata piuttosto che sottotitolata, e poiché è un mercato più grande, molta della programmazione è prodotta in Germania da Tedeschi. (Lo stesso avviene in Giappone, Francia, Italia, etc.)

Ma poi, forse i Tedeschi e i Giapponesi semplicemente non vogliono imparare l’inglese, così non lo imparano, nonostante il fatto che venga insegnato nelle scuole quotidianamente per la maggior parte dei loro anni formativi. O dipende proprio da questo? Ecco il punto. Gli Scandinavi vogliono imparare l’inglese perché è attorno a loro nel loro ambiente non-scolastico, nel mondo reale. In Germania, l’inglese è qualcosa che viene fatto trangugiare a scuola quindi, naturalmente, molte persone lo rifiutano a priori, fanno quello di cui hanno bisogno per essere promossi, e poco più. Spesso non hanno scelta, soggetti ad una situazione profondamente frustrante, e la rifiutano perché sono umani. (Forse la rifiutano anche – ad un qualche livello – perché è la lingua dei paesi che hanno bombardato a tappeto le loro città e ucciso milioni dei loro passati concittadini).

Per contrasto, ho passato un estate di otto anni fa viaggiando negli Stati Uniti con una donna tedesca e sua figlia, che allora aveva otto anni. La bambina non parlava che poche parole di inglese all’inizio dell’estate. Alla fine lo parlava meglio di sua madre. Sua madre avrà saputo qualche parolone da vocabolario che lei non sapeva, ma la sua maestria nella pronuncia e nella grammatica superava di gran lunga quella della madre. Per esempio, alla fine dell’estate, incontrando mio padre, questa bimba riconobbe il fatto che mio padre aveva un accento molto lieve da Brooklyn, qualcosa che molti madrelingua inglesi non noterebbero nemmeno.

Dunque, potete passare un estate viaggiando attorno alle Rockies e gironzolando nella Riserva Navajo con vostra madre e raggiungere la scorrevolezza nell’inglese, o potete andare a scuola per tutta la vostra infanzia e probabilmente imparare l’inglese meno bene, alla fine.

E questo non riguarda solo la molto vantata (ma ancora molto ignorata dalla maggior parte delle scuole) ricettività dei bambini per l’apprendimento dei linguaggi. Sono convinto che non abbiamo mai bisogno di perdere quell’inclinazione per l’apprendimento che hanno i bambini. Infatti, perdiamo quell’inclinazione ad imparare per colpa della scuola. Quelli che stanno al di fuori della scuola, secondo le mie osservazioni, tendono a mantenere quella luce magica con cui iniziano tutti i bambini. (E probabilmente la manterranno ancora di più se possono evitare uno di quei lavori d’ufficio che intorpidiscono la mente, una volta adulti).

Alla Learning Community e anche alla scuola pubblica di Wilton, l’educazione musicale era del tutto trascurata. Non c’era l’opportunità di suonare a scuola, a meno che tu volessi imparare come suonare uno strumento della fanfara per la banda della parata (così potevi esibirti durante la partite di football) o al gruppo di “jazz” alla scuola superiore. L’enorme diversità che c’è al mondo nella musica era completamente assente dalla scuola, tranne per versioni mutilate di jazz standardizzato. (A dire il vero, credo che entrambi gli insegnanti di musica nelle scuole pubbliche in cui sono stato fossero buoni suonatori che amavano sinceramente la musica jazz, ma non avevano riscontro nelle istituzioni prive di vita in cui cercavano di lavorare).

I miei genitori, essendo entrambi dei musicisti classici molto affermati e professionali si aspettavano che io e mia sorella prendessimo un’educazione musicale classica. Quando entrambi raggiungemmo i nove anni circa, ricordo di aver avuto delle conversazioni con i miei genitori se mi sarebbe piaciuto prendere lezioni di musica e, se sì, quale strumento avrei voluto suonare. Mi fu data la scelta dello strumento, ma non la scelta dello stile musicale. Come a scuola, dove ti viene detto che devi studiare algebra prima di studiare astronomia, i miei genitori sentivano che dovevi avere un’educazione musicale classica se volevi andare da qualche parte con la musica. La mia cara madre era solita dire (anche se è passato molto) che se avessi davvero voluto turbarla quando fossi cresciuto, avrei potuto o arruolarmi nell’esercito o diventare un musicista rock. (Lei non ricorda di averlo mai detto e, in tutta onestà, potrei stare inventandomelo). I miei hanno sempre detto che non mi hanno dato il nome prendendolo da qualcuno in particolare, ma ho sempre avuto l’impressione che venisse da un virtuoso violoncellista e amico di famiglia chiamato David Wells. Per altro amavo la sua musica, era appassionato e così dannatamente bravo. Non ricordo i miei esatti processi mentali, al tempo, ma il violoncello fu lo strumento che scelsi. (Mia sorella, che ebbe il nome da una grande flautista, scelse di suonare il flauto quando fu il suo turno di scegliere uno strumento).

Nonostante due dei miei tre insegnanti di violoncello fossero oltraggiosamente dei bravi suonatori, e persone davvero apposto, e insegnanti molto indulgenti, il violoncello non mi prese mai, e sostanzialmente fui sopraffatto dalla pressione. Non ricordo quando pienamente lo capii, allora, ma era la basilare mancanza di scelta nell’intera situazione che trovavo oppressiva. Esercitarmi al violoncello divenne una fonte di attrito in casa.

Dopo cinque anni, smisi. Mi ci vollero molti anni senza suonare alcunché prima che sentissi l’impulso di esplorare la musica per conto mio. Sono certo che essere cresciuto con la musica e con dei musicisti sia stata una cosa positiva, in termini di avere della grande musica live attorno a me tutto il tempo, e in termini dell’esempio che i miei genitori e i loro amici posero quali musicisti affermati. Infatti, uno dei miei più positivi ricordi musicali di quando ero un bambino è di quando mio padre e io volemmo suonare il piano insieme, e lui si inventava storie sui dinosauri, suonando il piano per la musica di sottofondo e gli effetti sonori. E c’erano molti, molti altri aspetti positivi nel mio ambiente casalingo in termini di fornire una ricca esperienza culturale, tra le altre cose, ma avere delle lezioni formali di musica non fu tra questi.

Ho preso un paio di dozzine di lezioni formali di basso e chitarra, ma per la maggior parte mi sono “insegnato da solo”. Allora iniziavo a capire più chiaramente che l’educazione “formale” non era questo granché. Da autori e musicisti che incontrai personalmente, come Jim Page, e ascoltando le parole di altri maestri come Utah Phillips, imparai che la via per cui molti degli autori e musicisti che ero giunto a riverire avevano imparato la loro arte era immergendosi nelle tradizioni musicali a cui erano interessati, e poi scrivendo canzoni, mentre continuavano ad ascoltare altra musica ed essere parte della tradizione (evolvente) di cui facevano parte. Il mio “insegnate di musica”, essenzialmente, fu la musica stessa che, scommetterei, è il miglior insegnante di tutti, insieme alle vostre orecchie, mani e la mente.

“Insegnandomi da solo” in questo modo, sono diventato un professionista abbastanza affermato. Se questo fosse inusuale, non varrebbe la pena notarlo. Ma effettivamente sono abbastanza sicuro che sia la norma. Non ho una statistica, ma sarei sorpreso se più d’una piccola percentuale di persone che vive grazie alla musica si fosse laureata al of Berklee College of Music, Julliard, etc.

Imparai e leggere e scrivere facendolo con i miei genitori, come la maggior parte delle persone. (Come è stato ben documentato da autori quali Jonathan Kozol, molti pochi bambini di genitori analfabeti imparano davvero a leggere a scuola, dimostrando ancora una volta il fallimento di molte scuole a fare qualcosa che potrebbe essere definito “insegnamento”, perché se nessuno impara, nessuno sta insegnando!). Altre abilità che ho appreso da bambino a cui faccio tuttora ricorso, come digitare, organizzare mailing list, e usare i computer, le ho apprese a casa con l’aiuto di mio padre e i laboratori che lui e mia madre stavano gestendo. Il resto di quel che so su come fare le cose, come prenotare concerti, l’ho imparato guardando altre persone che lo facevano. All’incirca tutto quello che so sugli eventi attuali l’ho appreso fuori dalla scuola, leggendo libri per conto mio, o libri raccomandati da persone che ne sapevano di cose di cui volevo saperne anche io. In tutti i miei anni di scuola ho a malapena imparato qualcosa di valore fino al college, dove ebbi un paio di buoni professori marxisti.

Sto attualmente scrivendo una guida fai-da-te su come scrivere canzoni, suonare musica e prenotarsi i propri concerti, per la PM Press. Potrei farla molto più lunga includendo un sacco di racconti autobiografici su come una certa canzone sia stata scritta o su come ottenni un concerto o di come fu il primo tour in un tal paese, etc, ma poiché si tratta di una guida, con trucchi del mestiere e simili, non è molto lunga. Spero che sarà utile alle persone, ma il messaggio di fondo del libro per fare una qualunque di queste cose è lavorare con altre persone che le fanno bene, seguire il loro esempio, e poi provarci da soli, e continuare ad imparare da altre persone e imparare dalle proprie esperienza.

Le mie memorie dell’infanzia possono essere vaghe, ed ho certamente avuto un’esperienza positiva ala Learning Community da bambino, ma trovo interessante che una delle mie più vivide memorie del tempo passato a scuola è di quando uno dei genitori si trovò con una ruota a terra. Con l’incoraggiamento dell’insegnante, la mia intera classe si svuotò e ci dirigemmo al parcheggio. Uno dei ragazzi più grandi aveva delle qualità di meccanico, e molte altre, tutte imparate a casa. Cambiò il pneumatico con il resto di noi che aiutava un po’ o guardava e basta. Anche se ero solo uno di quelli che guardava, fu un evento memorabile, penso perché era qualcosa che accadeva nel mondo reale, fuori dalla scuola (anche se appena fuori dalla scuola).

Sono abbastanza certo di essere una delle molte, molte persone che non imparano bene in ambienti forzati, artificiali, ma fioriscono negli ambienti di apprendimento del mondo reale. Una ragione perché ciò ha senso è che gli umani hanno fatto ricorso all’apprendimento esperienziale con molto successo per molto più tempo di quello in cui abbiamo avuto le scuole. E ancora oggi, nel deserto Kalahari o nella giunga amazzonica, troverai teen-ager con sufficiente conoscenza botanica da riempire molte enciclopedie. Nelle piccole città dell’entroterra scozzese troverai teen-ager che hanno un migliaio di toni memorizzati che possono suonare magnificamente con cinque diversi strumenti musicali, nessuno dei quali imparato a scuola.

Penso a queste cose, penso alle cose devastanti per l’anima che la maggior parte delle scuole fa alla maggior parte degli studenti, vedo quanto brillantemente Leila abbia imparato così tanto senza aver ancora compiuto due anni, e non so cosa dire alle molte persone da me incontrate che sono contro l’idea di crescere un bambino senza un’educazione “formale”. Se la mia bambina volesse davvero andare ad una scuola di qualche tipo, ne cercherei una buona e la lascerei provare. E se non volesse? Non la manderei a scuola più di quanto la manderei in prigione.

Come musicista professionista che è abbastanza felice da vivere sopra la soglia di povertà, sono molto privilegiato, e so che non è facile immaginarsi come fare a meno della scuola per tutti. Le scuole funzionano bene in molti, molti modi con la moderna società (post) industriale, e ovviamente non sono solamente le scuole a fare schifo, ma la maggior parte dei lavori che la gente finisce a dover fare. Ma per quelli di noi secondo cui la società ha qualche grave falla da sistemare, direi che immaginarsi cosa fare riguardo l’intero concetto di scuola sarebbe un buon punto di partenza. E, nel frattempo, quelli di noi che possono, potrebbero scegliere di tenere i loro bambini lontani dalla scuola e dare loro l’incoraggiamento e le opportunità per vivere ed imparare e perseguire i loro
interessi
.

Mi sembra che i bambini abbiano bisogno di insegnanti quanto ne hanno di bulli. Mi sembra che quel di cui hanno bisogno è divertimento, amici rispettosi e talentuosi di tutte le età, che sanno un sacco di cose. E alberi, erba, e librerie.

David Rovics
Fonte: http://songwritersnotebook.blogspot.com/
Link: http://songwritersnotebook.blogspot.com/2007/12/raising-leila.html
21.12.2007

Traduzione a cura di CARLO MARTINI per www.comedonchisciotte.org e http://scuolalibera.blogspot.com/

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