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La Redazione

 

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CILIGA NEL PAESE DELLA GRANDE MENZOGNA

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A cura di God
Il 14 Ottobre 2007
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DI PAOLO SENSINI
Libertaria – Il piacere dell’utopia

«L’enigma della rivoluzione russa, che l’umanità, che il movimento operaio internazionale debbono risolvere, è il seguente: come si è riusciti ad abolire di fatto tutto ciò che costituisce la Rivoluzione d’Ottobre, pur conservando le forme esteriori, a risuscitare lo sfruttamento degli operai e dei contadini senza ristabilire i capitalisti privati e i proprietari fondiari, a iniziare una rivoluzione diretta a sopprimere lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e terminarla istituendo un nuovo tipo di sfruttamento?».

Sono queste le domande a cui Nel paese della grande menzogna1 riesce probabilmente a fornire la più completa e approfondita spiegazione che sia mai stata tentata, insieme a un ridottissimo numero di altri lavori, sulla realtà della Russia «comunista». Al punto che, considerato il suo valore testimoniale, potremmo azzardarci a definire tale scritto come una sorta di Odissea dei tempi moderni. Una narrazione avventurosa in cui Ante Ciliga è stato capace di decifrare, con una prosa allo stesso tempo densa e suggestiva, tutte le sfaccettature di quello che senza alcun dubbio rappresenta uno dei più complessi «enigmi» presentatisi alla ribalta della storia in questo scorcio di fine millennio.Da questo punto di vista «le pagine che compongono l’opera di Ciliga – scriveva Franco Venturi recensendo subito il libro su «Giustizia e Libertà» – debbono esser lette e meditate proprio da coloro che, di fronte all’avvenuta formazione in Russia di una classe dirigente così forte e così potente, ripensano a quella che è l’idea centrale del marxismo, a quell’idea che ha giustificato e in parte anche creato la situazione russa: il concetto di coscienza proletaria rappresentata da un’unica organizzazione detentrice di un’assoluta e totalitaria verità»2.

Approdato a Mosca nell’ottobre 1926 in rappresentanza della frazione di sinistra del Partito comunista jugoslavo (PCJ), Ciliga si trovò subito al cospetto di un Paese assai differente rispetto a quello che gli era dato sapere in precedenza. «Ecco finalmente Mosca: la stazione Aleksandra, il frastuono abituale delle stazioni. Uscito sulla piazza, volli chiamare un taxi, ma non ne vidi uno; c’erano soltanto delle vetture pubbliche a cavalli, degli “izvosčiki”, che esaminai con sorpresa. Che aspetto miserando presentavano cocchieri e vetture! Mi trovavo di fronte alla vecchia Russia, arretrata e povera a dispetto di tutte le rivoluzioni. Salii in carrozza. I miei vestiti e il mio russo scadente mi designavano come straniero e di conseguenza il cocchiere mi interpellò: “Venite dall’America? Laggiù si vive bene; non è come da noi. Si può avere tutto quel che si vuole, e roba di prima qualità… a buon mercato. Da noi si pagano a peso d’oro dei vestiti che non valgono niente e addosso non abbiamo che stracci”. La mia sorpresa fu estrema. Come? Un lavoratore della nuova Russia, che non sente nessuna gioia, nessuna fierezza della sua nuova esistenza? M’impappinai in una risposta confusa: non si deve credere che all’estero tutti siano ben vestiti…»3.

Ma questo primo shock nel Paese che veniva designato come il «faro del socialismo mondiale» era ben lungi dall’esser circoscritto a quel fugace incontro: «La strada assorbiva già tutta la mia attenzione. Per arrivare a distinazione – continua Ciliga – attraversiamo tutto il centro di Mosca e la città mi appare interamente diversa da quel che mi attendevo. L’aspetto delle case non ha nulla di impressionante: sembrano vecchie, poco rispondenti alle esigenze moderne. È l’Oriente, la “Santa Russia”. Le strade sono pavimentate con lastroni enormi, come si vedevano nell’Europa medievale. La maggior parte dei passanti indossa abiti logori e stracciati. La luce grigia di un crepuscolo autunnale aggiunge una nota di tristezza a quest’impressione di miseria attardata, di mistura di Oriente e di Europa del Mediovevo […]. La vita in Russia, dicevo a me stesso fin da quei primi giorni, è ben lungi dall’essere così felice e così bella come pretende la stampa comunista estera e come credevo io stesso; ma questa conclusione mi dava un senso di malessere. Mi dicevo che forse, prima di venire in Russia, avevo mancato di spirito critico e quasi quasi facevo a me stesso il rimprovero di giudicare la situazione da un punto di vista “borghese”»4.

In quello stesso periodo in Russia era in corso una battaglia furiosa che stava dilaniando, dalla morte di Lenin in poi, il Partito bolscevico per la conquista delle massime cariche di potere. Da una parte vi era la minoranza della cosiddetta Opposizione unificata capeggiata da figure come Trockij, Zinov’ev e Kamenev, e dall’altra si trovava la fazione guidata da Stalin e Bucharin. Uno scontro senza esclusione di colpi, in cui la bilancia pendeva risolutamente a favore del clan staliniano. Ma ecco che anche sul piano dello scontro politico, nel quale Ciliga era abituato a ravvisare motivi di pura idealità proletaria, «bastava assistere a qualche riunione di partito per rendersi conto che in quella lotta la parte delle discussioni ideologiche era del tutto secondaria e che quella decisiva spettava alle minacce, ai procedimenti di intimidazione e di terrore. Si aveva la sensazione che qualunque militante che si distingueva per una battuta particolarmente cinica e brutale contro l’opposizione poteva contare su una promozione immediata e su un brillante avvenire. Guai a chi formulava un dubbio o dichiarava che questo o quel punto di divergenza tra opposizione e maggioranza non gli pareva chiaro! Per tutta risposta si sentiva rimproverare di mancare di sensibilità rivoluzionaria oppure accusare di doppio gioco, di tradimento camuffato. L’oratore ufficiale, alzando la voce, lo interpellava: “Non vi sembra chiaro? Compagni, X dichiara che a lui non sembra chiaro: vedete, a lui il buon fondamento della politica del partito e il carattere piccolo-borghese dell’opposizione non sembrano chiari… Ma chi crede di indurre in errore? Sappiamo benissimo che cosa si nasconde sotto la sua ipocrisia. Il partito non tollererà nessuna esitazione, nessuna mancanza di chiarezza…” In condizioni simili, qualunque desiderio di “dubitare” sfumava. Colui che all’inizio della riunione aveva osato esporre un dubbio finiva col salire alla tribuna per chiedere scusa di aver capito male»5.

Fu così che, dopo aver cercato di esplorare coscienziosamente la reale situazione in cui versava l’Unione Sovietica, Ciliga passò lentamente dalla meraviglia al dubbio, dal dubbio all’opposizione leale, dall’opposizione leale all’opposizione «cospirativa» e da questa alla prigione e alla deportazione in Siberia, allontanandosi sempre più dal regime e ripudiando dopo Stalin anche Trockij, e quindi, con il «mito tanto caro di Lenin», l’intero bolscevismo.

Arrestato dalla Polizia politica (GPU) il 21 maggio 1930 a Leningrado, dove ricopriva un posto di professore di storia moderna all’Università comunista delle minoranze occidentali (KUNMZ), per cinque anni e mezzo dovette subire un «trattamento speciale» da parte delle autorità sovietiche che gli fece conoscere a fondo quello che, molti anni dopo, sarebbe passato alla storia come il famigerato Arcipelago gulag. E di cui, molto verosimilmente, Nel paese della grande menzogna rappresenta una delle prime dettagliate descrizioni comparse in Occidente sull’universo concentrazionario comunista.

Le tappe della sua reclusione, dopo l’arresto, si svolsero tra le prigioni di Leningrado (San Pietroburgo), Čeljabinsk e, dal 7 novembre 1930 al 18 maggio 1933, nell’«isolatorio politico» di Verhneural’sk, in Baschiria. I due ultimi anni e mezzo li trascorse invece esiliato in Siberia, a Irkutsk, a 5339 chilometri da Mosca, poi a Krasnojarsk e infine a Enisejsk, al confine con il circolo polare artico, dove lavorava come impiegato in banca e nel trust forestale Sevpolarlies. Tuttavia, per quanto straordinariamente dure le condizioni di sopravvivenza in questi luoghi di segregazione, l’autore non fu mai preso da nessun rimpianto per il suo viaggio: «Non rimpiansi mai di essere venuto in Russia. La mia sete di conoscere fino in fondo la nuova Russia mi sembrava giustificare appieno tutti i rischi»6.

«In prigione Ciliga riflette su quello che è il problema centrale della Rivoluzione russa»7, rivelandoci dei paradossi oggi pressoché incomprensibili anche alla più fervida immaginazione, ma che tuttavia ci permettono di gettare uno sguardo su quell’abisso di abiezione in cui erano sprofondate le più elementari libertà civili e politiche dopo la Rivoluzione d’Ottobre: «In Russia – egli scriveva – la prigione è l’unico luogo dove le persone si esprimono in modo più o meno sincero e aperto. Se un soggiorno nelle prigioni sovietiche pone il problema in modo particolarmente urgente, si deve dire però che fornisce altresì gli elementi per una risposta. Tutti gli strati sociali della Russia sono rappresentati in prigione. Vi si arriva finalmente a conoscere ciò che accade realmente nel Paese e ciò che la gente ne pensa»8.

Com’è noto, infatti, in quegli anni il primo piano quinquennale (1928-1932) voluto da Stalin scatenò nelle campagne sovietiche un vero e proprio «uragano sociale» di dimensioni colossali, che si concluse con la deportazione di milioni e milioni di contadini (i cosiddetti kulaki) recalcitranti alle misure volute dalle autorità sovietiche e con la morte di almeno sette milioni di persone in Ucraina a causa dell’«artificiosa» carestia del 1932-19339.

In questa «università indipendente» o «parlamento illegale di tutte le Russie» che ospitava un variegato panorama dei prigionieri politici si aprì, nei primi mesi del 1930, una vasta discussione proprio nel momento in cui Stalin imprimeva la massima accelerazione alla collettivizzazione delle campagne e alla costruzione dell’industria pesante; una fase, questa, strettamente correlata con la cosiddetta politica di «terzo periodo» seguita dal Comintern a livello internazionale. La testimonianza di Ciliga, a questo riguardo, costituisce uno dei più dettagliati e puntuali resoconti circa il fondamentale dibattito sviluppatosi tra le varie anime politiche presenti nell’«isolatorio politico» di Verhneural’sk; inoltre dà conto del tormentato percorso che lo portò ad abbandonare irreversibilmente la Weltanschauung «bolscevico-leninista».

Attenzione: non un abbandono delle speranze di trasformazione rivoluzionaria della società, ma il passaggio a un’«estrema sinistra» irriducibile sia al bolscevismo sia al trockismo. Un processo di maturazione che Ciliga è stato in grado di restituirci in tutta la sua ricchezza e senza perdere il pathos di quei drammatici frangenti.

Il 18 maggio 1933, dopo avergli prolungato di due anni la detenzione senza che fosse intervenuto alcun nuovo giudizio o accusa a suo carico, egli venne trasferito in una nuova località d’esilio, lasciando così per l’ultima volta la sua «amata università di scienze sociali e politiche». Alla sua detenzione erano stati aggiunti, con il beneplacito del Politbjuro del Partito comunista jugoslavo, due anni di esilio in Siberia.

Il meticoloso racconto di quel «calvario quotidiano» – costellato da scioperi della fame, lotte collettive dei prigionieri e ritorsioni di varia natura – è però anche un affastellarsi di informazioni altrimenti irreperibili in una fugace rassegna di cose sovietiche e, allo stesso tempo, costituisce un insieme di acute osservazioni storico-sociologiche sul «destino» della rivoluzione russa e sulle sue inevitabili ricadute sociali. Il sistema sovietico, sulla base di talune affermazioni di Lenin del periodo 1918-1922, oltreché nell’analisi di Ciliga dei primi anni Trenta, veniva ormai definito come un «capitalismo di Stato» imperniato su due élites: la burocrazia di partito, ovviamente, ma anche un’altra burocrazia, quella – meno evidente – dei «senza partito», ossia l’intelligencija di ingegneri e tecnici, professori, scienziati, artisti e così via10. Un nuovo «panorama sociale», dunque, che mostrava con grande nitore il «peso preponderante assunto dalla burocrazia, una burocrazia crudele, tirannica, che soffoca o tenta di soffocare sul nascere tutto ciò che minacciava i suoi privilegi»11.

In buona sostanza, Ciliga si pose di fronte all’evento sovietico come una sorta di entomologo che tentava di indagare la natura più recondita del suo oggetto senza porsi limiti di alcun genere: «La leggenda di Lenin non mi appariva più che come una menzogna, destinata a coprire i delitti della burocrazia […]. ”Né Dio né padroni”, mi diceva una voce che veniva dalle profondità del mio subcosciente, ma non era per questo meno percettibile, meno ferma, meno imperativa. Il ritratto di Lenin che stava sulla tavola della mia cella fu strappato in mille pezzi e gettato nella spazzatura…»12.

In altre parole, secondo Ciliga il problema fondamentale a cui era necessario dare risposta era il seguente: «Com’è possibile che la più audace, la più profonda delle rivoluzioni sia degenerata nella più completa schiavitù? Perché la rivoluzione russa nella sua prima tappa rappresenta il più moderno dei progressi sociali e nella tappa successiva è sboccata nella menzogna sociale, nello sfruttamento e nell’oppressione perfezionata? Che cosa può spiegare una contraddizione così enorme?»13.

Un interrogativo, questo, decisivo per il prosieguo della sua disamina e che si indirizzava direttamente al cuore della questione, vale a dire alla «natura sociale» dell’urss. Ma un interrogativo che, nonostante la mole di osservazioni addotte, laciava tuttavia insolute alcune aporie.

Ciliga tendeva infatti a dividere il suo giudizio su due piani ben distinti: da un lato valutava «positivamente i successi ottenuti su scala locale, nazionale e statale»; dall’altro lato invece trovava «assolutamente reazionario» quanto accadeva sul piano umano in generale, su quello sociale, politico e internazionale. «La Russia, un po’ come la Francia di Napoleone i, era sì uno Stato reazionario, ma conteneva tuttavia un elemento progressivo nei confronti dell’Europa feudale. Allo stesso modo questa stessa Russia, reazionaria nei confronti delle forze rivoluzionarie e democratiche in Occidente e nel suo paese, si era invece rivelata un elemento progressivo nei confronti dei paesi sottosviluppati che si battevano contro l’imperialismo occidentale»14. Inoltre, nonostante la spietata satrapia con cui Stalin stava governando il paese, egli «era riuscito nondimeno a condurre la Russia dalla sua posizione di ultima delle grandi potenze mondiali a quella di seconda superpotenza»15.

Ecco perché, in virtù di questa «singolare ambivalenza» di giudizio contenuta nel suo libro, egli non colse appieno l’«appuntamento intellettuale della sintesi»16 che la sfinge sovietica poneva al suo cospetto. Un «appuntamento» che invece sarà colto poco più di un anno dopo la pubblicazione del volume di Ciliga, e di cui quest’ultimo costituirà l’indispensabile sfondo documentale, da un «misterioso Bruno R.»17, autore di un libro pubblicato a Parigi: La Bureaucratisation du Monde18.

Sarà infatti l’italiano Bruno Rizzi che, oltre ad essere l’unico a prevedere con anticipo l’alleanza che di lì a qualche tempo avrebbero siglato tra lo sbigottimento generale Hitler e Stalin, fornirà proprio la chiave sociologica per sciogliere l’«enigma» che aveva impegnato le migliori intelligenze dell’Opposizione di sinistra al cosiddetto «socialismo sovietico». Rizzi, dopo aver individuato nella proprietà di classe il tratto per così dire «innovativo» della burocrazia russa, troverà in questa nuova forma proprietaria – incarnata dal Partito Unico – la nuova modalità di sfruttamento sociale che si veniva manifestando in Russia19.

Nella sua analisi, infatti, in Unione Sovietica aveva preso forma una «classe sfruttatrice che tiene in mano i mezzi di produzione e si comporta esattamente come una proprietaria di questi. Il suo possesso – argomentava Rizzi – non è frazionato, ma costoro, in blocco, come classe, sono i reali possessori di tutta la proprietà “nazionalizzata” che si presenta sotto la veste di una proprietà di classe […]. In modo diverso – aggiungeva – noi non sapremmo definire questa proprietà “nazionale” che non è di tutti, questa proprietà che non è borghese, né proletaria, che non è privata, ma che non è neanche socialista»20.

Dunque una proprietà di classe di fatto, anche senza dover essere «registrata presso alcun notaio o in nessun catasto» che «la nuova classe sfruttatrice sovietica si garantiva per il tramite della forza e del controllo dello Stato», controllo ben più importante delle «vecchie registrazioni giuridiche della borghesia»21. E in questa «nuova» situazione chi erano i «veri detentori del potere»? «Sono coloro – concludeva Rizzi – che tengono la forza nelle mani: i burocrati. Sono coloro che dirigono l’economia […]. Sono coloro che si appropriano dei profitti, com’è regolare presso tutte le classi sfruttatrici. Sono coloro che fissano i salari e i prezzi di vendita delle merci»22.

Insomma, un «nuovo» sistema sociale che egli definì in modo sintetico ed evocativo con il nome di «collettivismo burocratico»; una sorta di tertium quid che proponeva una nuova e originale chiave interpretativa che si differenziava dalle consuete descrizioni dell’urss come «capitalismo di Stato» o «Stato operaio degenerato.

A questo punto va tuttavia riconosciuto che, senza un contributo decisivo come quello di Ciliga, sarebbe stato assai arduo venire a capo di una matassa così aggrovigliata come la «natura sociale» dell’Unione Sovietica.

Perciò dobbiamo essergli grati per aver letteralmente tentato di tutto, com’è ampiamente documentato dall’opera che ora presentiamo per la prima volta in versione integrale al pubblico italiano, pur di trasmetterci un affresco ancor oggi così vivo e avvincente del Paese della grande menzogna. Dopo aver sperimentato in corpore vili che «è più facile uscire dall’inferno di Dante che dalla Russia sovietica», Ciliga riuscì finalmente a varcare il 3 dicembre 1935 il confine sovietico. Ma nel congedarsi dal lettore ammetteva laconicamente: «Dietro di me, lasciavo la Russia immensa, eroica e miserabile; rimaneva il il ricordo degli anni più duri, ma più ricchi d’esperienza e di emozione di tutta la mia vita». Paolo Sensini
Fonte: http://www.libertaria.it/
«Libertaria», a. IX, n. 3, luglio-settembre 2007, pp. 88-93

NOTE:

[1] Ante Ciliga, Nel paese della grande menzogna. URSS 1926-1935, prima edizione integrale a cura di Paolo Sensini, Jaca Book, Milano, 2007.

[2] Gianfranchi [F. Venturi], Tre libri sull’URSS, in «Giustizia e Libertà», V, n. 17, 29 aprile 1938, ora in Franco Venturi, La lotta per la libertà. Scritti politici, a cura di Leonardo Casalino, Einaudi, Torino, 1996, pp. 111-117. Sull’importanza dello studio di Ciliga per il prosieguo delle ricerche di Venturi sulla Russia cfr. Andrea Graziosi, Nazione, socialismo e cosmopolitismo. L’Unione sovietica nell’evoluzione di Franco Venturi, in «Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli», Anno XL, Franco Venturi e la Russia, a cura di Antonello Venturi, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 135-136, 163.

[3] Ante Ciliga, Nel paese della grande menzogna. URSS 1926-1935, cit., p. 12.

[4] Ibidem.

[5] Ibid. pp. 13-14.

[6] Ibid., p. 113.

[7] Franco Venturi, La lotta per la libertà. Scritti politici, cit., p. 117

[8] A. Ciliga, Nel paese della grande menzogna, URSS 1926-1935, cit., pp. 15-16.

[9] I più recenti studi russi di demografia storica confermano la spaventosa catastrofe demografica originata dalla collettivizzazione forzata e dalla carestia (cfr. Naselenie Rossii v XX veke. Istoričeskie očerki, tomo 1, 1900-1939, a cura di Iurij A. Poliakov, Rosspen, Moskva, 2000, pp. 275-76). Per una dettagliata cronistoria di questi eventi cfr. Aa.Vv., Komandyry velikoho holodu. Pojizdky V. Molotova i L. Kaganoviča v Ukrajinu ta na Pivničnyj kavkaz, 1932-1933 rr., a cura di Valerij Vasyl’jev e Jurij Sapoval, Heneza, Kijev, 2001, pp. 81-151; cfr. anche F. Meslé e J. Vallin, Mortalité et causes de décès en Ukraine au xxe siècle, Institut national d’études démographiques, Paris, 2003; R. Conquest, Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica (1986), Liberal, Roma, 2004; R.W. Davies e S.G. Wheatcroft, The Years of Hunger: Soviet Agriculture, 1931-33, Palgrave-Macmillan, Basingstoke – New York, 2004.

[10] Cfr. Ante Ciliga, Où va la Russie des Soviets?, in «La Révolution prolétarienne», n. 274, 10 luglio 1938, pp. 205-6.

[11] Jean-Baptiste, Séverac, Sur l’URSS, in «Le Populaire», 18 maggio 1938, p. 6.

[12] Ante Ciliga, Nel paese della grande menzogna. URSS 1926-1935, cit., pp. 226-27.

[13] Ibid., p. 114.

[14] Cfr. Entretien avec Ante Ciliga: 90 ans d’un révolutionnaire, in «Iztok», n. 15, marzo 1988, p. 41.

[15] Ibid., p. 43.

[16] Jean Bernier, Présentation de Ante Ciliga, in «Accent grave», n. 2, febbraio 1963, p. 15 (trad. it. Presentazione di Ante Ciliga, in «Rivista storica dell’anarchismo», n. 1, gennaio-giugno 2000, p. 91).

[17] Cfr. James P. Fenwick, The Mysterious Bruno R., in «The New International», settembre 1948, pp. 215-18; Georges Henein, Bruno R. et la «nouvelle classe», in «Le Contrat Social», n. 6, novembre 1958, pp. 365-68.

[18] La prima edizione del libro (10 agosto 1939) celava la vera identità di Rizzi – per non essere individuato dagli agenti dell’ovra di stanza a Parigi – sotto l’acronimo di Bruno R., La Bureaucratisation du Monde, Édité par l’Auteur, Les Presses Modernes, Paris, 1939. Il testo, nell’intenzione originaria di Rizzi, doveva essere composto di una prima parte (Il Collettivismo Burocratico), una seconda (Dello Stato Totalitario e del Fascismo in particolare – analisi del capitalismo in decomposizione) e una terza (Quo vadis Amèrica?), seguita da un’appendice (Où va le monde). Al momento della pubblicazione, Rizzi decise di stampare solo la prima e la terza parte più l’appendice, annunciando nella prefazione (15 luglio 1939), l’intenzione di pubblicare «prossimamente» la seconda parte. Nella prima edizione integrale (Edizioni Colibrì, Milano, 2002), oltre ad un’ampia scelta di scritti coevi e postumi a corredo del testo originario, è inclusa anche questa seconda parte, rimasta fino ad allora inedita.

[19] Per un maggior approfondimento di questo tornante storico cfr. Paolo Sensini, A proposito di Bruno Rizzi e la teoria delle élites, in «MondOperaio», n. 6, novembre-dicembre 2003, pp. 126-40, e Id., Presentazione a B. Rizzi, La rovina antica e l’età feudale, a cura di Paolo Sensini e Barbara Chiorrini Dezi, Marco editore, Lungro di Cosenza, 2006, pp. XXII-XXVIII.

[20] Bruno Rizzi, La Burocratizzazione del Mondo, prima edizione integrale a cura di Paolo Sensini, Edizioni Colibrì, Milano, 2002, prima parte, cap. III (La proprietà di classe), p. 45.

[21] Ibid., pp. 46-47.

[22] Ibid., p. 51.

Ante Ciliga, Nel Paese della grande menzogna. URSS 1926-1935, Jaca Book, Milano 2007, pp. 571 + tavole e foto
Euro 35,00
Introduzione e cura di Paolo Sensini
Postfazione di Pier Paolo Poggio

Quarta di copertina

«Com’è possibile che la più audace, la più profonda delle rivoluzioni sia degenerata nella più completa schiavitù? Perché la rivoluzione russa nella sua prima tappa rappresenta il più moderno dei progressi sociali e nella tappa successiva è sboccata nella menzogna sociale, nello sfruttamento e nell’oppressione perfezionata? Che cosa può spiegare una contraddizione così enorme?».
Sono queste alcune delle domande a cui Nel paese della grande menzogna riesce probabilmente a fornire la più completa e approfondita spiegazione che sia mai stata tentata, insieme ad un ridottissimo numero di altri lavori, sulla realtà della Russia «comunista». Al punto che, considerato il suo valore testimoniale, potremmo azzardarci a definire tale scritto come una sorta di Odissea dei tempi moderni. Una narrazione avventurosa in cui Ante Ciliga è stato capace di decifrare, con una prosa al medesimo tempo densa e suggestiva, tutte le sfaccettature di quello che senza alcun dubbio rappresenta uno dei più complessi «enigmi» presentatisi alla ribalta della storia in questo scorcio di fine millennio.
Dopo avervi soggiornato circa dieci anni esplorandone a fondo le molteplici varietà dei suoi paesaggi, i «nuovi» rapporti economici e sociali scaturiti dalla Rivoluzione d’Ottobre, le alte sfere della burocrazia, il ruolo centrale occupato dalla polizia politica, le prigioni e l’esilio siberiano, l’autore è giunto all’amara constatazione che «è più facile uscire dall’inferno di Dante che dalla Russia sovietica». E tuttavia egli è riuscito a sopravvivere ai suoi aguzzini e a consegnarci il distillato della sua straordinaria esperienza. Per queste ragioni non si può che accogliere con favore l’uscita di questa prima edizione critica e integrale in lingua italiana dell’opus magnum di Ciliga, che viene ora finalmente a colmare un vuoto durato troppo a lungo.

Ante Ciliga è nato il 20 febbraio 1898 a Šegotići, piccolo villaggio istriano vicino a Pola (Croazia). Membro della frazione pro-comunista del Partito socialdemocratico croato, dal 1922 al 1925 ricopre la carica di segretario del Partito comunista della Croazia. Rappresentante del KPJ a Vienna, nell’ottobre 1926 è inviato a Mosca dalla frazione di sinistra in qualità di insegnante nella Scuola di partito e membro della sezione balcanica del Comintern. Nel 1929 aderisce all’opposizione e prende parte alla «rivolta» della scuola contro la politica del Comintern in Jugoslavia. Arrestato nel maggio 1930, trascorre tre anni in prigione e due anni e mezzo di esilio in Siberia. Espulso dal territorio sovietico nel dicembre 1935, nei primi mesi del 1936 si stabilisce a Parigi dove inizia a scrivere la prima parte del suo libro più celebre, Au pays du grand mensonge, pubblicato nel 1938, cui farà seguito la seconda parte, Sibérie, terre de l’exil et de l’industrialisation, concluso nel 1941 e stampato nel 1950. Dal 1958 risiede a Roma dove svolge attività di pubblicista e dirige alcune riviste in lingua croata. Autore di svariati libri, nel giugno del 1990 decide di trasferirsi a Zagabria (Croazia), dove muore il 21 ottobre 1992.

Ringraziamo Sandy Synge per la segnalazione. — CDC

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