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La Redazione

 

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Chi ha fatto le scarpe a Netanyahu e perché?

La giovane generazione americana di oggi dice: non ci identificheremo con sospette tendenze genocide nei confronti di una popolazione indigena.
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A cura di Markus
Il 17 Maggio 2024
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Alastair Crooke
strategic-culture.su

Le questioni fondamentali alla base del rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza erano due: la completa cessazione della guerra e il totale ritiro di tutte le forze israeliane.

La posizione di Netanyahu era che, a prescindere dall’esito della trattativa sugli ostaggi, l’IDF sarebbe tornata a Gaza e la guerra sarebbe potuta continuare per dieci anni, così aveva detto.

Queste sono state le parole più delicate della politica israeliana, che si è polarizzata in modo elettrico intorno ad esse. La continuazione o la caduta del governo israeliano potrebbe dipendere da esse: la destra aveva avvertito che avrebbe lasciato il governo se non fosse stata autorizzata l’invasione di Rafah; la posizione di Biden, tuttavia, è stata comunicata a Netanyahu per telefono non solo come “niente Rafah leggera“, ma piuttosto come “niente Rafah“.

Poi queste parole esplosive – cessazione delle operazioni militari e ritiro completo di Israele – erano apparse lunedi nel testo finale concordato dai mediatori al Cairo e, successivamente, a Doha, cogliendo Israele di sorpresa. Il capo della CIA, Bill Burns, aveva rappresentato gli Stati Uniti in entrambe le sessioni, ma Israele aveva scelto di non inviare una rappresentanza per i negoziati.

Molteplici fonti israeliane confermano che gli americani non avevano fornito alcuna “dritta” su ciò che stava per accadere: Hamas aveva annunciato l’accordo bomba, Gaza era esplosa in festeggiamenti per la vittoria e folle enormi di manifestanti avevano praticamente messo sotto assedio il governo di Gerusalemme, chiedendo l’accettazione delle condizioni di Hamas. C’era tensione. Le grandi proteste avevano un sentore di guerra civile.

Il governo israeliano sostiene di essere stato “giocato” dagli americani (cioè da Bill Burns). È stato così. Ma a quale scopo? Biden è stato categorico sul fatto che un’incursione a Rafah non doveva essere effettuata. È stato questo il mezzo di Burns per raggiungere tale obiettivo? Usare un “gioco di prestigio” nei negoziati, inserire il termine “linea rossa” nel testo senza dirlo a Tel Aviv per ottenere il “sì” di Hamas? O forse per provocare un cambio di governo in Israele? La politica su Gaza [di Israele] ha imposto al Partito Democratico un pedaggio elettorale molto pesante.

In ogni caso – dopo l’annuncio bomba di Hamas – l’IDF è andata “leggera” a Rafah, prendendo il corridoio vuoto di Philadelphia (in violazione degli accordi di Camp David), subendo alcune vittime, ma mantenendo intatto il governo di Netanyahu.

Forse il piccolo inganno “per convincere Hamas a dire “sì”” è stato visto a Washington come uno stratagemma intelligente, anche se le sue conseguenze sono incerte: Netanyahu e la destra condivideranno oscuri sospetti sul ruolo degli Stati Uniti. Washington si è mostrata (a loro avviso) come un avversario. Questo episodio renderà la destra più determinata e meno pronta al compromesso?

In questo contesto, la divisione di base all’interno dell’attuale politica israeliana è determinante. Una piccola pluralità di israeliani (54%) ritiene legittimi i paragoni tra l’olocausto e gli eventi del 7 ottobre. E si può notare che la confusione di Hamas con il partito nazista è sempre più comune tra i leader israeliani (e statunitensi) – con Netanyahu che descrive Hamas come “i nuovi nazisti“.

Che si sia d’accordo o meno, ciò che viene espresso da questa categorizzazione è che una pluralità di israeliani nutre il timore esistenziale che la tempesta che si sta addensando intorno a loro sia l’inizio di un “nuovo olocausto” – il che, a sua volta, implica la trasformazione dell’amorfismo “Mai più” in un’ingiunzione binaria: uccidere o essere uccisi (attingendo ai testi biblici per la convalida talmudica).

Capire questo significa rendersi conto del perché quelle poche parole inserite nella proposta negoziale erano così esplosive. Implicavano (secondo la metà degli israeliani) che non avrebbero avuto altra scelta se non quella di “vivere” o “morire” sotto la minaccia di un nuovo olocausto (con Hamas predominante a Gaza e Hizbullah nel nord).

L’altra parte dell’opinione israeliana è meno apocalittica: crede che un ritorno all’occupazione e allo status quo ante potrebbe essere possibile, soprattutto se gli Stati Uniti riuscissero a convincere gli Stati arabi – insieme a Israele – ad eliminare Hamas da Gaza e ad accettare di sorvegliare una Striscia de-militarizzata e de-radicalizzata.

Da un punto di vista cinico, per gli israeliani la pratica di “tagliare il prato” (come vengono eufemisticamente chiamate le periodiche incursioni dell’IDF per uccidere i militanti di Hamas) potrebbe forse essere meno spaventosa dell’idea di dover combattere una guerra esistenziale. In questo contesto, il 7 ottobre potrebbe essere visto come un “taglio del prato” fuori misura, ma non come qualcosa che richiede un cambiamento più radicale dello stile di vita.

Il fatto che i rappresentanti di questa corrente nel gabinetto di guerra israeliano non si siano dimessi dal governo quando hanno appreso del successivo rifiuto di Netanyahu della proposta di Hamas potrebbe essere legato al fatto che la normalizzazione saudita con Israele non è per ora in prospettiva, essendo la normalizzazione saudita il pilastro da cui si potrebbe ottenere un ritorno allo status quo ante.

Tutto questo mette in discussione le motivazioni dei membri del Gabinetto di Guerra che chiedono a Israele di accettare le condizioni di Hamas. Sebbene l’empatia per le famiglie degli ostaggi sia comprensibile, questa empatia non affronta le crisi di fondo – al di là di un pio desiderio di unire il mondo arabo in un’unità anti-iraniana e tirar fuori Israele dalle difficoltà dell’occupazione.

Questo potrebbe consolare la Casa Bianca che deve affrontare le sue difficoltà elettorali, ma non è certo una strategia sostenibile.

La notizia bomba dell’accordo con Hamas ha probabilmente alimentato altri due fattori che stanno influenzando l’opinione israeliana: Netanyahu, noto per le sue intuizioni politiche e per la sua capacità di capire da che parte soffia il vento vento, percepisce, a suo dire, che l’elettorato israeliano sta scivolando verso destra. È sempre più sicuro di poter vincere le prossime elezioni politiche israeliane.

Il fattore più importante è rappresentato dalle proteste studentesche che si stanno svolgendo in tutto l’Occidente, c’è poi la minaccia che la Corte Penale Internazionale possa emettere mandati di arresto per il premier e altri leader di spicco.

David Horovitz, direttore di Times of Israel, scrive che:

“l’obiettivo di fondo degli accampamenti e delle marce alla Columbia, a Yale, all’Università di New York e negli altri campus è quello di rendere Israele indifendibile – in entrambi i sensi del termine – e quindi privare Israele dei mezzi diplomatici e militari per sopravvivere ai tentativi in corso per la sua distruzione – così come stanno facendo l’Iran e i suoi alleati e proxy”. Alla base di questa strategia c’è, ovviamente, il più antico degli odi”.

In altre parole, Horovitz identifica la maggioranza degli studenti che protestano non tanto come possessori di empatia umana per la condizione dei gazesi, ma come propugnatori di un olocausto “soft-power”. Horovitz conclude che “se questi Stati nemici, gli eserciti terroristici e i loro sostenitori riusciranno a distruggere Israele – daranno poi la caccia agli Ebrei ovunque“.

L’ultimo elemento riguarda il presunto mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale. Netanyahu ha un ego smisurato, forse più della maggior parte dei politici; eppure non c’è dubbio che, nonostante la rabbia nei suoi confronti per gli errori del 7 ottobre, egli sia indiscutibilmente il portabandiera di quella parte dell’elettorato israeliano che crede – come Horovitz – che Israele stia affrontando uno sforzo concertato rivolto alla distruzione dello Stato sionista.

Il mandato d’arresto, quindi, viene percepito non solo come un attacco ad un singolo individuo, ma, piuttosto, come una parte di quel più ampio sforzo (secondo Horovitz) volto a falsificare l’immagine di Israele e a privarlo degli strumenti diplomatici per difendersi.

Inutile aggiungere che questo non ciò che pensa il resto del mondo, ma serve a sottolineare quanto l’opinione pubblica israeliana si stia ripiegando su se stessa e diventi sempre più isolata e timorosa. Questi sono segnali di allarme. Le persone disperate fanno cose disperate.

La realtà è che Israele ha tentato di stabilire una colonizzazione storicamente fuori tempo su terre con popolazione indigena. La prima fase della rivolta contro il colonialismo era scoppiata nel secondo dopoguerra. Ora stiamo vivendo la seconda fase del sentimento anticoloniale radicale globale (che si manifesta strategicamente nei BRICS) che oggi prende di mira il colonialismo finanziarizzato, quello che si presenta come l'”Ordine Basato sulle Regole”.

Nelle occasioni speciali, gli israeliani di solito sventolano due bandiere: la bandiera israeliana e, accanto ad essa, quella statunitense. “Anche noi siamo americani, siamo il 51° Stato”, direbbero gli israeliani.

“No”, dice la giovane generazione americana di oggi: non ci identificheremo con sospette tendenze genocide nei confronti di una popolazione indigena.

Non c’è da stupirsi se alcune élite al potere cercano disperatamente di mettere al bando le narrazioni critiche. Se oggi il bersaglio è Israele, domani le narrazioni potrebbero criticare il fatto che Washington aveva agevolato un massacro coloniale. Che il team di Biden abbia pensato di fare le scarpe a Netanyahu per preservare lo status quo in Israele ancora per un po’ (almeno fino a dopo le elezioni americane)?

Alastair Crooke

Fonte: strategic-culture.su
Link: https://strategic-culture.su/news/2024/05/13/who-tried-to-pull-the-rug-on-netanyahu-and-why/
13.05.2024
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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Alastair Crooke CMG, ex diplomatico britannico, è fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut, un’organizzazione che sostiene l’impegno tra l’Islam politico e l’Occidente. In precedenza è stato una figura di spicco dell’intelligence britannica (MI6) e della diplomazia dell’Unione Europea.

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