C'ERAVAMO PERSI LA PERSIA ?

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DI CARLO BERTANI

Appena terminata la guerra
nel Libano, la diplomazia internazionale torna a porre in primo piano
la questione del programma nucleare iraniano, come se non ci fosse più
altro tempo da perdere ed il ricorso alle sanzioni od alle armi sia
oramai inevitabile.

C’è chi considera
le attuali tensioni fra gli USA, l’Europa e l’Iran come una novità
dei nostri tempi; eppure, a ben vedere, l’atteggiamento delle potenze
coloniali nei confronti della Persia non furono molto diverse: anzi,
sembra quasi che il film della storia sia stato riavvolto per poi svolgerlo
nuovamente verso il futuro.

Senza andare troppo a
ritroso nel tempo – lasciando dormire in pace Alessandro Magno e Zoroastro
– stupirà osservare come prima le Persia, e dal 1934 l’Iran, siano
stati pressoché immuni dalle dominazioni coloniali.

Al termine della dominazione
abbaside (1051), di quella turca e dei mongoli, la dinastia Safavide
(1502-1722) pose le basi dello stato persiano, anche se giunsero successivamente
le invasioni degli afgani e la dinastia dei Cagiari, che resse il paese
dal 1779 al 1923.

Le basi di questa salda
unità statuale sono da ricercare prevalentemente nel solido rapporto
esistente fra il potere politico ed il clero sciita che – a differenza
di quello sunnita – ha un’organizzazione ed una gerarchia ben definite.

Il rapporto fra la dinastia
Safavide ed il clero sciita iniziò ben due secoli prima del “patto”
stretto fra lo shaik Ibn Abd Al Wahab (dal quale deriva l’appellativo
di wahabiti per i musulmani sunniti sauditi) e l’emiro Muhammad
Bin Saud, capostipite della tribù degli Anaza e fondatore della dinastia
saudita.

La differenza, però,
non è tanto da ricercare nella maggior “anzianità” del “patto”
persiano, quanto sulle basi stesse sul quale poggia. Nell’islam sunnita
vi sono figure che sono ritenute di grande autorevolezza – come l’Imam
dell’Istituto di Al-Azhar del Cairo od il Gran Muftì di Gerusalemme
– ma non esiste nessun dettato che raggruppi i religiosi in una gerarchia.

Il fatto non è positivo
o negativo in sé – giacché un clero non organizzato è senz’altro
più libero dalle ingerenze gerarchiche – ma è ovvio che sia meno
adatto per intessere relazioni con delle entità statuali che chiedono
– all’altra parte – figure ben determinate sulle quali fare affidamento.

La cosa ancor più sorprendente
è che le città sante della confessione sciita sono Najaf e Kerbala
– site in territorio iracheno – ma gli sciiti iraniani hanno a Qom
(in Iran) una sorta di “Università monastica”, un centro del pensiero
sciita, dal quale proviene anche gran parte del clero sciita iracheno.

Sulla base di questo
solido rapporto (e vedremo in seguito quanto sarà importante) la Persia
giunse al Novecento inoltrato senza subire i traumi sociali che dovettero
subire altri paesi musulmani: basti pensare all’Egitto, all’Algeria
od alla Palestina.

Il periodo fra le due
guerre mondiali fu molto importante per la Persia: gli ultimi re Cagiari
meditarono di varare un’assemblea legislativa (Majlis) e l’importante
passaggio avvenne con Reza Khan, politico abile ed ambizioso, che divenne
successivamente Shah con il nome di Mohammed Reza I.

Negli stessi anni, cresceva
d’importanza il mercato petrolifero: il periodo fra le due guerre
mondiali corrispose alla transizione dal carbone al petrolio nella propulsione
navale, mentre automobili ed aeroplani nacquero già con motori a combustibili
liquidi.

Per questa ragione, i
britannici obbligarono la Persia (divenuta Iran nel 1934) ad accettare
una sorta di blando protettorato, in coabitazione con i sovietici, soprattutto
per evitare che un successo nazista in Africa settentrionale aprisse
la via verso l’Indo.

Se Hitler sosteneva che
le due città “chiave” nella sua marcia verso oriente erano Alessandria
d’Egitto e Bassora, gli inglesi seppero mantenere il controllo dell’Iraq
(soffocando nel 1941 la rivolta interna blandamente appoggiata dall’Asse),
dell’Iran e del petrolio iraniano ma senza mai giungere ad un’amministrazione
coloniale.

Nel 1941 Mohammed Reza
I abdicò e salì al trono il figlio – Mohammed Reza II – che governò
fino al 1979, ovvero fino alla nascita della Repubblica Islamica dell’Iran.

Il primo dopoguerra fu
una stagione assai ricca d’avvenimenti, che ancora oggi lasciano una
traccia nella politica iraniana: un segno profondo, che porta impresso
il nome di Mohammad Mossadeq.

Come già abbiamo ricordato,
gli inglesi avevano forti interessi petroliferi in Iran, che gestivano
mediante una società mista, la Anglo Iranian Oil Company; ebbene, nel
solo 1947, la compagnia estrasse dai giacimenti iraniani e commercializzò
petrolio per 112 milioni di $, una somma enorme per l’epoca, considerando
che, a quel tempo, in Italia un salario netto medio era pari a 60 dollari
il mese (oggi supera i 1.000). Orbene, di quella enorme cifra rimasero
in tasca al governo iraniano 7 milioni di dollari, poco più del 6%
del totale: ecco cosa intendiamo quando segnaliamo la “rapina” delle
ricchezze naturali del pianeta da parte delle potenze coloniali! Dividiamo
la torta: a me 94 ed a te 6. Non sei d’accordo? E chi se ne frega:
se non ti piace ho proprio dietro l’angolo una portaerei per sistemare
la faccenda.

Mohammad Mossadeq era
un avvocato iraniano che aveva studiato in Europa: era un nazionalista
con delle aperture socialdemocratiche, e fu Primo Ministro fino al 1953.
Mossadeq chiese alla compagnia inglese di fissare un salario giornaliero
minimo di 50 centesimi e di costruire – con una minima parte degli
enormi profitti petroliferi – case e strutture sanitarie per i lavoratori
iraniani.

Come si può notare non
chiese la Luna, eppure anche quei pochi centesimi erano già troppi
per gli avidi amministratori inglesi, che risposero picche alle richieste
iraniane. La Gran Bretagna, però, non si trovava certo nella situazione
di una potenza coloniale dominante, giacché soltanto tre anni dopo
avrebbe abbandonato completamente le aree ad est di Suez.

In casi simili ci si
ricorda degli amici, e gli “amici” – in quel caso – furono gli
USA, la ex colonia oramai indiscussa potenza egemone del mondo occidentale.
L’ex generale Eisenhower – presidente USA – sguinzagliò subito
i suoi scagnozzi della CIA nel paese, ma Mossadeq fu avvertito del golpe
in arrivo dall’ayatollah Kashani, massima espressione del clero iraniano
dell’epoca.

Possiamo notare come
già a quel tempo il clero sciita si schierò per un nazionalismo che
tendeva a privilegiare le risorse minerarie iraniane per lo sviluppo
locale, ed iniziò la contrapposizione con lo Shah, che avrebbe
condotto anni dopo all’avvento di Khomeini.

Gli americani inviarono
allora in Iran il generale Norman Schwarzkopf, che aveva comandato la
guardia imperiale iraniana per anni: da esperto conoscitore della realtà
iraniana, non gli fu difficile corrompere gli alti gradi militari per
ottenere la destituzione di Mossadeq.

Così fu, ed al posto
dell’avvocato progressista fu nominato Primo Ministro il generale
Zahedi, fedele agli americani ed allo Shah, che divenne da quel
momento in poi ostaggio della politica USA. Se lo strano connubio fra
il repubblicano oltranzista Bush ed il tiepido laburista Blair può
apparire stridente, alla luce dei trascorsi coloniali e neocoloniali
delle due nazioni tanto assurdo non è.

Curiosità storica: nel
1991, un altro Norman Schwarzkopf comandava le truppe americane nel
primo assalto all’Iraq, ed era il figlio del generale che seppe “liquidare”
Mossadeq. Se questa follia delle avventure neocoloniali continuerà,
potremo magari incontrare fra qualche anno un Norman Schwarzkopf III
che comanderà un attacco in Corea od in Cina sotto un Bush III. Pessimo
incubo.

I successivi 26 anni
del regno di Mohammad Reza II – a parte le vicissitudini sentimentali
del sovrano – furono segnati da un generale impoverimento della popolazione,
ma da un relativo ammodernamento del paese, sul modello occidentale
che il regnante intendeva seguire.

Le tensioni sociali sfociarono
nel 1979 in aperta rivolta e, con il ritorno dell’ayatollah Khomeini
dall’esilio, fu fondata la repubblica islamica, che dovette subito
subire la lunga guerra scatenata in “conto terzi” (ossia pagata
dall’Occidente) dall’Iraq del (oggi) “satrapo” Saddam Hussein.

In definitiva, l’Iran
odierno è il prodotto di una serie di tensioni interne al paese, che
però non condussero mai ad una dominazione straniera e, contemporaneamente,
di un processo evolutivo (culturale e tecnologico) che non si è mai
arrestato: questa è la sostanziale differenza fra l’Iran e gli altri
stati musulmani dell’area, sia ad ovest (Arabia Saudita) sia ad est
(Pakistan).

Questa lunga premessa
è necessaria per comprendere le motivazioni politiche e strategiche
di un eventuale attacco all’Iran, e gli scenari che potrebbero scaturire
da questa eventuale sciagura.

Anche dal punto di vista
geografico non si possono assolutamente confondere l’Iraq e l’Afghanistan
con l’Iran:

Paese Superficie (km2) Abitanti (approx.)
Iraq 434.128 23 milioni
Afghanistan 649.969 20 milioni
Iran 1.648.196 80 milioni

Come possiamo osservare
dalla tabella, l’Iran ha una superficie pari ad una volta e mezza
quella della somma di quelle dell’Iraq e dell’Afghanistan,
ed una popolazione doppia rispetto alla somma di quelle afgana ed irachena.

Le cifre possono apparire
aride e poco significative, ma la guerra è soprattutto una questione
di potenzialità belliche e di obiettivi da raggiungere, che sono altre
cifre, altri numeri.

Le guerre, però, non
nascono da fumose affermazioni di scontri etnici o di civiltà: sono
gli interessi economici a determinarle. Se esiste una contrapposizione
etnica (come avvenne fin dai tempi dell’antica Grecia) si risolve
con la vittoria di un’etnia dominante: i lunghi conflitti etnici in
corso in varie parti del pianeta (pensiamo all’Africa) diventano interminabili
quando le parti vengono aizzate e rifornite d’armi da chi ritiene
di poter trarre vantaggio dalla perdurante instabilità.

Inutile ricordare che
i motivi di contesa nell’area del Golfo Persico sono il petrolio ed
il gas naturale: tutto il sangue che è scorso nell’ultimo mezzo secolo
nell’area è stato generato dalla necessità di controllare – da
parte delle potenze occidentali – la fornitura d’energia da quei
luoghi.

Vediamo allora la situazione
delle riserve petrolifere dei principali paesi dell’area1:

Paese Riserve (milioni di barili) Popolazione (approx)
Arabia
Saudita
260.000 20 milioni
Iraq 100.000 23 milioni
Emirati Arabi Uniti 98.000 2,5 milioni

Kuwait

96.000 2 milioni
Iran 89.000 80 milioni

Possiamo osservare che
le riserve iraniane sono stimate pressoché equivalenti a quelle degli
Emirati Arabi Uniti e del Kuwait, che però hanno una popolazione irrisoria
rispetto all’Iran: da qui nasce l’esigenza del programma nucleare
iraniano.

I piccoli paesi del Golfo
potranno continuare ancora per decenni ad estrarre, vendere petrolio
e trasformarlo in denaro, investimenti o partecipazioni azionarie, giacché
il rapporto fra la popolazione e le riserve consentirà loro di garantire
il benessere alle loro popolazioni per lungo tempo.

L’Arabia Saudita si
trova in una situazione intermedia, giacché non è certo che i proventi
finanziari derivanti dal mercato petrolifero saranno sufficienti per
creare investimenti tali da sostenere la popolazione anche quando i
giacimenti saranno esauriti. Non a caso, il terrorismo di Al-Qaeda nasce
proprio da settori della società saudita.

La situazione dell’Iraq
è per certi versi abbastanza simile, anche se – data la situazione
d’alta instabilità interna ed un futuro assolutamente non prevedibile
– potremmo affermare, per dirla con Dante, che gli iracheni sono come
“color che son sospesi”.

Il dato che invece salta
agli occhi è il rapporto riserve/popolazione, il quale ci indica che
un singolo abitate del Kuwait ha teoricamente a disposizione per il
futuro una riserva di petrolio pari a 48.000 barili, mentre un iraniano
ne possiede soltanto 1.113. In alte parole, un iraniano ha a disposizione
soltanto la 43 esima parte delle riserve che ha a disposizione un kuwaitiano.

Da questa semplice constatazione
dipende il futuro dei due paesi: mentre il Kuwait può tranquillamente
ritenere che quei 48.000 barili pro-capite saranno sufficienti per garantire
i livelli di reddito per molte generazioni – anche quando il petrolio
sarà terminato, grazie agli investimenti effettuati nel tempo – per
l’Iran diventa essenziale trasformare quei 1.113 barili a testa in
tessuto produttivo, giacché nessun investimento sarà in grado di garantire,
in futuro, la sopravvivenza ed i livelli di reddito degli iraniani.

Se l’Iran consuma quei
1.113 barili pro capite per alimentare l’apparato produttivo, non
ci sono sufficienti risorse per acquistare all’estero la tecnologia
necessaria per impiantare fabbriche ed infrastrutture, ossia tutto ciò
che può far diventare l’Iran un paese produttore ed esportatore d’altri
beni che non siano quelli energetici.

In definitiva, i piccoli
stati del Golfo Persico hanno sufficiente petrolio per garantire loro
decenni e forse secoli di ricchezza, ma dobbiamo anche ricordare che
– proprio a causa della scarsa popolazione – non avrebbero altre
scelte: la stessa Libia, con circa 8 milioni d’abitanti, è tributaria
verso l’estero di quasi tutti i prodotti ed i servizi della tecnologia.

Possiamo quindi suddividere
gli stati produttori di petrolio fra quelli che s’accontentano –
per così dire – di scambiare il petrolio con i dollari (accettando
tutti i rischi del caso) ed in quelli che invece considerano quella
ricchezza mineraria come la base sulla quale costruire un apparato produttivo.

Dobbiamo notare che quella
strada fu già percorsa dall’Iraq, che si vide bombardare da Israele
– un vero e proprio atto di guerra, senza nessuna giustificazione
giuridica – la sua prima centrale nucleare, ancora in costruzione.

L’Iran è chiaramente
più determinato nel raggiungere gli obiettivi dell’Iraq – che si
prestò a combattere contro l’Iran come una legione mercenaria al
soldo dell’Occidente – proprio perché è una solida entità statuale,
una concretezza che proviene dalla storia stessa del paese.

Il percorso evolutivo
dell’Iran è osteggiato per vari motivi.

Il primo è sempre il
solito, ovvero la determinazione europea ed americana di non permettere
ai paesi produttori di petrolio di trasformare l’energia in tessuto
produttivo: storicamente, è sempre stato l’Occidente a farlo (almeno
negli ultimi cinque secoli) e perdere questo predominio significherebbe
permettere un mutamento che – in definitiva – priverebbe gli apparati
produttivi occidentali di parte del mercato.

Il secondo è da ricercare
nel sempre più stretto rapporto che lega l’Iran alla Russia: i dollari
di provenienza petrolifera prendono la via di Mosca, che contraccambia
fornendo all’Iran tecnologie di vario tipo (fra le quali, quella nucleare)
ed armi.

Il terzo riguarda i destinatari
della produzione energetica iraniana, che sono sempre di più la Cina
e l’India e sempre di meno l’Occidente: la Cina si è impegnata
ad acquistare – a prezzi di mercato – gran parte del gas iraniano
per i prossimi 25 anni.

Il quarto è invece una
questione tutta interna ai paesi del Golfo Persico – che vedono la
progressione economica dell’Iran come una possibile minaccia, ossia
il timore che l’Iran diventi il paese egemone nell’area – e per
questa ragione non si levano molte voci di protesta da parte dei paesi
arabi alleati dell’Occidente, soprattutto da parte dell’Arabia Saudita.

Il quinto è la paventata
borsa del petrolio in euro che Teheran minaccia di creare: notiamo come
questo raffinato strumento sia un “grimaldello” per differenziare
la posizione europea da quella USA.

Invece, si grida “al
lupo” perché l’Iran vuole costruire centrali nucleari: alla luce
del diritto internazionale, chi può chiedere a Teheran di soprassedere?

Non esiste nessun principio
giuridico che neghi la possibilità per qualsiasi paese di dotarsi di
centrali nucleari a scopo civile: qualsiasi risoluzione dell’ONU che
indicasse il contrario sarebbe in aperta violazione delle norme internazionali,
secondo le quali la politica energetica di una nazione può deciderla
esclusivamente il suo governo. Su questo punto non c’è assolutamente
nulla da aggiungere (a parte le obiezioni di tipo ecologico), a meno
d’accettare che le cinque nazioni con diritto di veto nel Consiglio
di Sicurezza dell’ONU siano le sole depositarie per qualsiasi decisione
che riguardi l’intero pianeta.

Il timore più volte
espresso da Washington è quello che Teheran si doti d’armi nucleari,
il che sarebbe perfettamente possibile – ma fra parecchi anni –
giacché il processo d’arricchimento dell’Uranio per scopi militari
è parecchio più lungo e tecnologicamente più complesso di quello
per uso civile.

Anche se l’Iran si
dotasse d’armi nucleari, chi potrebbe impedirglielo? Le nazioni che
sono piene zeppe di testate e missili? Strano modo d’intendere i rapporti
internazionali: io ho l’arma assoluta e, per comandarti a bacchetta,
sostengo che tu non dovrai mai costruirla.

Analizzando meglio lo
scenario mondiale, bisogna evidenziare che – a parte le cinque nazioni
uscite vincitrici dalla Seconda Guerra Mondiale, USA, Russia, GB, Francia
e Cina – la prima nazione che costruì armi atomiche fu l’India.

L’atomica indiana fu
un elemento di stabilizzazione dell’area – non per la storica contrapposizione
con il Pakistan – bensì per stemperare eventuali attriti con la Cina,
che avrebbero condotto il continente verso una guerra apocalittica.

Quando anche l’India
ebbe le armi nucleari, i rapporti fra i due paesi divennero meno tesi
ed oggi stanno virando decisamente verso il bel tempo, soprattutto perché
la Cina è una grande produttrice di beni di consumo (anche d’elevato
livello tecnologico) mentre l’India ha centrato la sua attenzione
più sulla ricerca e sul know-how: in un certo senso, si tratta di un’intesa
che ha basi simbiotiche.

La seconda nazione che
pervenne all’atomica fu Israele e questo non fu un elemento di stabilizzazione,
giacché l’arma atomica consentì a Tel Aviv di rapportarsi con i
vicini arabi da una posizione di potenza: questa è stata una delle
ragioni dell’interminabile conflitto per la Palestina.

La legge mai scritta
dell’equilibrio nucleare prevede che due o più competitori ne siano
provvisti: la consapevolezza di poter subire un attacco della stessa
natura, porta le armi nucleari a diventare un mero simbolo di deterrenza.

L’atomica israeliana
ha invece condotto ad uno strapotere di Tel Aviv nell’area, che si
è sentita sollevata dall’intrattenere normali trattative diplomatiche
per risolvere i molti nodi della regione, ma c’è ancora di peggio.

La vera atomica “impazzita”
è quella pakistana, e non si venga qui a raccontare che l’Occidente
non sapeva nulla, quando anche Benazir Bhutto dichiarò che “avrebbero
mangiato soltanto cicoria, pur di raggiungere l’atomica”.

Al Pakistan fu consentito
di dotarsi di armi nucleari: ma chi è il Pakistan?

Il Pakistan è uno dei
paesi più instabili del pianeta: nato per essere la patria dei musulmani
d’Oriente – dopo l’indipendenza indiana – ha sempre fatto di
una retorica difesa dell’Islam la sua bandiera. Allo stesso tempo
– vista la vicinanza dell’India all’URSS ed oggi alla Russia –
fu da sempre considerato un alleato chiave per gli USA nello scacchiere
orientale.

Washington sapeva che
Islamabad sosteneva apertamente il regime talebano di Kabul – al punto
che i pochi e decrepiti Mig dei talebani erano condotti in volo da piloti
pakistani – ma faceva finta di nulla, come si è voltata dall’altra
parte mentre i pakistani costruivano l’atomica.

E’ forse un paese più
stabile dell’Iran?

Dopo la stagione di Zulfikar
Alì Bhutto – che intraprese una politica di nazionalizzazioni –
salì al potere nel 1977 con un colpo di stato il generale Zia Ul Aq,
che si liberò del suo predecessore facendolo semplicemente impiccare.
Zia Ul Aq – fanatico integralista – morì in un misterioso incidente
aereo nel 1988 – forse una vendetta sovietica per l’appoggio fornito
ala resistenza afgana, più probabilmente una “ripulitura” del comparto
“alleati spazzatura” da parte di Washington – e salì al potere
la figlia del socialdemocratico Alì Bhutto, Benahzir, oggi esule in
Europa dopo l’ennesimo colpo di stato che ha condotto al potere il
generale Musharraf.

La situazione odierna
del Pakistan vede Musharraf (un dittatore al pari di Saddam Hussein)
mantenere un precario equilibrio, giacché la popolazione è fra le
più vicine agli ambienti estremisti dell’integralismo islamico, e
persino molti appartenenti ai servizi di sicurezza (ISI) non nascondono
simpatie per Al-Qaeda.

Si tratta evidentemente,
per Washington, di un paese stabile, che ben “merita” di possedere
l’arma atomica, giacché siamo certi che la sua salda e riflessiva
classe politica – e le sue solide basi democratiche – sapranno controllare
l’impulso di premere il fatidico bottone. Stano modo di declinare
la democrazia, dalle parti del Pentagono e della Casa Bianca.

Eppure, anche in questo
panorama di non esaltante equilibrio democratico, forse possiamo affermare
che l’atomica pakistana ha già condotto ad una maggior attenzione
nel rapporto con l’India per la spinosa questione del Kashmir. Probabilmente
– circa tre anni or sono, in un momento d’acuta tensione – il
possesso d’armi atomiche da parte d’entrambi i contendenti ha scongiurato
una nuova guerra convenzionale.

Ipotizziamo allora un
Iran armato con missili (che già possiede, con una gittata che raggiunge
il Mediterraneo) con testate nucleari: lo scenario che tendono a farci
passare come “inevitabile” è il lancio di quelle armi su Israele.

Chi sostiene questa tesi
ha mai riflettuto su quali sarebbero le conseguenze?

Israele lancerebbe immediatamente
i suoi missili con testate nucleari sulle città iraniane; risultato:
nell’arco di poche ore non esisterebbero più né Israele né l’Iran.
Chi dei due contendenti ne trarrebbe vantaggio?

Non certo Israele, ma
nemmeno l’Iran, poiché non raggiungerebbe l’obiettivo di restituire
la Palestina ai palestinesi: consegnerebbe ai (sopravvissuti) palestinesi
una landa desolata, radioattiva, completamente distrutta.

A questo punto, i sostenitori
della pericolosità dell’Iran sentenziano che a Teheran sono tutti
pazzi e – pur di distruggere Israele – accetterebbero la completa
distruzione del loro paese.

I conti non quadrano,
giacché gli iraniani – distruggendo completamente il loro paese –
consegnerebbero ciò che rimarrebbe del Golfo Persico ai sunniti sauditi,
e questa è proprio l’ultima delle mire politiche di Teheran.

Quale sarebbe allora
il significato di una eventuale atomica iraniana? L’eventuale atomica
di Teheran varrebbe quanto quella coreana: un minimo potere di deterrenza
per scoraggiare altri verso avventure belliche nei confronti dell’Iran.
Per come l’Occidente ha trattato l’Iran nel Novecento, qualche motivo
per essere sospettosi l’hanno.

L’unico paese che invece
parla di un uso “tattico” delle armi nucleari sono gli USA: non
sarebbe possibile distruggere l’Iran come l’Iraq senza le armi nucleari
per molte ragioni: l’ampiezza del paese, il grande numero di siti
da colpire (molti in bunker sotterranei), le difese antiaeree iraniane,
la stessa aeronautica, gli attacchi alla navigazione nel Golfo Persico,
la determinazione alla difesa del proprio paese degli iraniani, non
divisi in più etnie come gli iracheni.

Non possiamo sorvolare
sul fatto che l’unico paese a sostenere un uso “tattico” delle
armi nucleari è lo stesso che ne fece uso nel 1945 contro il Giappone:
l’azione bellica più devastante e criminale mai condotta contro delle
popolazioni civili.

L’uso “tattico”
delle armi nucleari americane condurrebbe alla soluzione del problema,
ossia tutto finirebbe con la resa degli iraniani? Può darsi, ma ci
sono alcuni “se” e “ma” molto, ma veramente molto sinistri.

Se gli iraniani hanno
acquistato dapprima i missili coreani Nodong e li hanno successivamente
migliorati (Sharab III e IV) è molto improbabile che
siano dotati di sole testate ad esplosivo: le testate chimiche e batteriologiche
sono armi relativamente più facili da costruire o da ottenere.

L’Arabia Saudita ha
recentemente ristrutturato il proprio arsenale missilistico con materiale
cinese, ed i nuovi missili sono stati installati in bunker sotterranei,
come quelli iraniani. Parecchi analisti concordano sul fatto che i sauditi
hanno armato i loro missili con testate chimiche e batteriologiche:
perché gli iraniani non l’avrebbero fatto?

Invece del possibile
futuro scenario di un Iran armato di bombe atomiche, quale sarebbe quello
molto più realistico di una guerra nella quale gli USA attaccassero
l’Iran e gli iraniani rispondessero con le testate chimiche e batteriologiche?

Supponiamo che all’uso
d’armi nucleari cosiddette “tattiche” per colpire i bunker iraniani,
Teheran rispondesse con il lancio di missili con testate chimiche e
batteriologiche contro Israele.

Un’arma nucleare uccide
con un’onda di calore di migliaia di gradi e con la stessa onda d’urto
generata dall’esplosione: a seconda della potenza dell’ordigno,
chi viene colpito è polverizzato in frazioni di secondo, mentre chi
si trova più lontano dall’esplosione viene colpito dalle radiazioni
e s’avvia verso una morte lenta dovuta alle ustioni ed alle radiazioni
stesse.

Un’arma chimica rilascia
dei gas che si espandono in pochi secondi nel raggio d’alcuni chilometri:
chi inspira anche una sola volta i gas si ritrova con i polmoni bruciati
all’istante dall’agente chimico, e muore nel giro di qualche decina
di minuti sputando letteralmente i polmoni in terra. Ci sono poi gli
aggressivi nervini, che paralizzano la respirazione e le funzioni vitali
provocando la morte per asfissia in pochi minuti.

Le armi batteriologiche
sono molto subdole ed ancor più terribili: apparentemente non accade
nulla, ma gli agenti patogeni modificati in laboratorio sono insensibili
a qualsiasi vaccino, giacché il paese attaccato non sa quale ceppo
di quale batterio verrà utilizzato nell’attacco, mentre l’infezione
è immediata.

La morte è più lenta:
giorni, a volte settimane. I sintomi sono febbri altissime e degenerazioni
degli apparati interni, fegato e reni in particolare. Le maschere antigas
servono a poco od a nulla, così come le cure dei sanitari: le esercitazioni
messe in atto in caso d’attacco batteriologico sono soltanto degli
sproloqui mediatici utilizzati per rassicurare le popolazioni.

La virulenza dei batteri
varia molto secondo l’agente utilizzato: per mesi – in ogni modo
– nessuno sarebbe al sicuro nelle aree colpite. Anche l’evacuazione
– trattandosi di migliaia o milioni di persone infette – sarebbe
difficoltosa e molti stati chiuderebbero semplicemente le loro frontiere.

Dopo un simile attacco,
Israele risponderebbe con il suo arsenale atomico, uccidendo la quasi
totalità della popolazione iraniana ed irrorando l’Iran con una quantità
di radiazioni che lo renderebbero inabitabile per decenni.

Il risultato finale sarebbero
due lande desolate, l’una inquinata dai residui degli agenti chimici
e batteriologici, l’altra dall’olocausto nucleare.

Per gli USA, ci sarebbe
un solo risultato positivo: aver impedito all’Iran di diventare una
potenza regionale – giacché l’estrazione petrolifera, per anni,
sarebbe da dimenticare – mentre Israele e l’Iran non raggiungerebbero
nessun obiettivo, bensì otterrebbero solo la loro completa distruzione.

Tutta la strategia d’alcuni
personaggi americani ed israeliani per un attacco all’Iran (giacché
non tutti negli USA ed in Israele ne sono, per fortuna, persuasi) poggia
solo su quel “può darsi” che tutto ciò non avvenga, ossia che
gli iraniani si lascino bombardare con le armi atomiche “tattiche”
senza protestare, che non lancino missili con testate chimiche o batteriologiche
su Israele, sul fatto che Israele non lanci le sue testate atomiche.

Un “può darsi” sul
quale giocare il rischio di una guerra mondiale, un “può darsi”
sottile come una lama di Damasco.

Carlo Bertani [email protected] www.carlobertani.it

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