DI DAVID WALSH
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La morte dell’attrice Carrie Fisher questo martedì all’ età di soli 60 anni, alcuni giorni dopo un attacco di cuore che l’aveva colpita a bordo di un volo nella tratta Londra – Los Angeles, ha provocato espressioni di dolore nei fan in tutto il mondo. Alla tristezza per la morte della Fisher si è poi aggiunta quella dovuta all’improvviso trapasso, appena 24 ore più tardi, dell’ottantaquattrenne madre di lei; la ben nota attrice Debbie Reynolds.
Carrie Fisher non era solamente un’attrice, ma fu anche umorista e sceneggiatrice di successo. Donna attraente, e dalla personalità affascinante. Figlia dell’attrice Debbie Reynolds e del cantante Eddie Fisher, Carrie crebbe nell’ambiente dello show business. Quando nacque a Beverly Hills nel 1956, sua madre era una delle più richieste dive di Hollywood, e Reynolds era nel periodo più alto della sua carriera discografica.
Carrie riportò numerose cicatrici dovute alla sua infanzia, caratterizzata da profonda insicurezza, periodi di instabilità e isolamento in se stessa. E’ molto facile farsi beffe delle difficoltà di personaggi cresciuti in questo genere di ambiente benestante, ma la lista dei bambini e adolescenti celebrità di film, televisione e musica le cui storie sono finite tragicamente è davvero lunga. La Fischer non ha fatto quella fine, ma di certo era tormentata dai loro stessi demoni. I suoi problemi con alcool e droghe sono ben noti.
All’età di 19 anni la Fisher ottenne uno dei ruoli principali nel primo Star Wars (diretto da George Lucas), come principessa Leia Organa. Riapparve nel medesimo ruolo per i successivi due capitoli della saga, e ritornò a parteciparvi nel recente ottavo capitolo Star Wars: The Force Awakens, nel 2015. Ottenne poi ruoli minori in molti altri film.
Scrisse anche alcuni libri, il più noto dei quali è Postcard from the edge (Cartoline dall’ inferno) del 1987, un sottile e grottesco ritratto di se stessa e della madre. Il romanzo divenne poi un mediocre film nel 1990 diretto da Mike Nichols, con Meryl Streep e Shirley MacLaine. Secondo alcune indiscrezioni la Fisher si guadagnò da vivere negli anni novanta lavorando come “dottore per le sceneggiature”, correggendo o migliorando copioni altrui.
Recentemente ha lavorato adattando le sue memorie, Wishful Drinking (2008), che trasformò in un one-woman show, che ottenne un discreto successo nella stagione teatrale 2009-10. Divenne poi un documentario distribuito dalla HBO nel Settembre 2011.
La Fisher concentrò la sua scrittura nel mettere in luce tutti gli aspetti più surreali della sua vita da figlia di celebrità, e di se stessa come celebrità. Una certa autoironia mista ad autocritica, sempre presente nella sua scrittura, la rende molto affascinante. Fu davvero abile nel ritrarre la disperazione e l’assurdità della continua ricerca della celebrità, di coloro che aspirano ad “uscire dal buio dell’anonimato per approdare ad Hollywood”, e a descrivere le tremende conseguenze psicologiche che comporta una vita del genere.
Fu osservatrice divertita e scettica del mondo di Hollywood, ma non ne fu mai nemica. In un’altra era più radicale forse il suo intuito e per certi aspetti sdegno, l’avrebbe portata a svincolarsi maggiormente dai suoi legami con il mondo dello show business. Ma negli stagnanti decenni 80 e 90 non riuscì mai a distanziarsene abbastanza. Si ha la sensazione che tutto l’insieme delle condizioni sociali ed artistiche non le permisero mai di essere un’osservatrice sufficientemente oggettiva e critica del malcostume in cui crebbe. Fu sempre legata ad esso saldamente.
In quest’epoca in cui regna il culto della celebrità, non sorprende come i media abbiano declamato in maniera spropositata la morte della Fisher, al di là dei suoi effettivi meriti come professionista. Non c’è cattiveria né malizia in quest’ultima affermazione. Semplicemente un’onesta valutazione della sua carriera e del suo talento non può esulare dal riconoscere che la Fisher non fosse una delle figure di spicco nella storia del cinema americano. Nonostante ciò una grossa fetta dell’opinione pubblica ha descritto il suo trapasso come l’uscita di scena di una diva di primo piano. Alla fine ci si è ritrovati a parlarne come di “un’icona” , “una leggenda”, e altro ancora. Possiamo essere ben sicuri che la stessa Carrie si sarebbe fatta delle grasse risate nel sentire i media blaterare in questo modo…..
A.O. Scott, critico del New York Times, scrisse entusiasticamente (in “Carrie Fisher, a Princess, a Rebel and a Brave Comic Voice”) “la Fisher entrata nella cultura popolare come principessa in pericolo costruì un personaggio molto più complicato ed interessante. Fu molto di più realmente: un comandante ribelle; un’arguta critica dello establishment hollywoodiano di cui faceva parte; un’autrice di storie comiche, vere e finte; un esempio, ispiratore e ammonitorio di eccessi e resilienza; un emblema di onestà che bramiamo (e molto raramente riceviamo) dai creatori di illusioni”. Tutto ciò è strabordante e sostanzialmente non necessario.
Gli encomi alla Fisher sono solo in parte ispirati dalla sua carriera, molto meno di quanto pensano scrittori e adoratori di sorta. Molti degli elogi e delle commemorazioni spropositate sono dovute al franchise legato a Star Wars e ciò che vi gravita attorno. I vari commentatori stanno gonfiando la “leggenda” della saga per elevare e legittimare gli ultimi decenni di cinema americano, senza interrogarsi sulla scarsa qualità di quest’ultimo periodo.
Qualsiasi siano state le intenzioni di George Lucas e di altri, che potevano essere anche relativamente innocenti e benintenzionati all’inizio, non c’è dubbio sul fatto che il brand di Star Wars abbia lasciato il segno nel cinema attraverso un decennio di decadenza e banalità.
La Oxford History Of World Cinema spiega “L’industria cinematografica di Hollywood entrò in una nuova era nel Giugno del 1975, con l’uscita dello Squalo di Steven Spielberg. Due anni dopo lo Star Wars di Lucas confermò clamorosamente come un singolo film potesse guadagnare milioni di dollari e trasformare un’annata anonima in un trionfo. L’intero sistema hollywoodiano cambiò: si focalizzò su budget stratosferici ed ‘effetti speciali’ potenzialmente lucrativi”.
Walter Metz, in Cambridge Companion to Modern American Culture, sostiene che “Star Wars cambiò radicalmente il modus operandi ad Hollywood a livello estetico e narrativo, ma per l’industria fece semplicemente girare i profitti alle produzioni dai grandi budget che creavano film blockbuster apprezzati dalla massa”.
Il critico Robin Wood parla di “Sindrome Lucas-Spielberg”, sostenendo che il fatto più preoccupante del fenomeno fu “l’enorme importanza che la nostra società conferì alla saga”. L’originale serie degli anni quaranta, da cui si suppone Star Wars tragga ispirazione, ricopre “un ruolo minore e marginale” dichiarò Wood, e pertanto “non rappresentava un pericolo in termini di concorrenza o disturbo per titoli illustri, che sono spesso accompagnati da un bacino d’utenza limitato. Nel mondo cinematografico odierno diventa molto difficile per film di tipologia differente rispetto ai blockbuster come Star Wars……venire prodotti”.
Questo processo ad oggi è molto amplificato. Certo i registi non sono responsabili della progressiva indifferenza di una grossa fetta della classe media. Hanno semplicemente lasciato progredire il fenomeno. Ma non c’è comunque alcun motivo che giustifichi la mitizzazione di Carrie Fisher e del personaggio di Leia Organa, come tanto meno di Star Wars in generale.
David Walsh
Fonte: www.wsws.org
Link: http://www.wsws.org/en/articles/2016/12/29/fish-d29.html
29.12.2016
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALE.OLIVI