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DI SHERIF EL SEBAIE
Salamelik

Ve lo ricordate il processo mediatico a cui fu sottoposto il marito tunisino della giovane vittima della Strage di Erba, ingiustamente accusato di aver ucciso moglie, suocera, figlioletto e vicini di casa prima di scappare? Era tutto un mantra su quel “matrimonio che non s’aveva da fare”, sullo suocero “che non aveva mai accettato quella relazione”, sui “fratelli che non avevano mai perdonato alla sorella quella decisione”, su quella ragazza ingenua che aveva voluto sposare “nonostante tutto e tutti” quel “tunisino già condannato per spaccio e fuori per indulto”, su quel figlio chiamato Youssef “come voleva il padre, musulmano”. L’intenzione, evidentissima, era quella di trasformare la tragedia in una favola moralizzante: mai sposare arabi e islamici, capaci come sono di sgozzare esseri umani – donne e bambini inclusi – come agnelli nel Giorno della Festa del Sacrificio. E chi lo fa, ebbene, lo fa a suo rischio e pericolo, andando contro l’avveduto parere dei parenti e contro le sagge disposizioni del Vaticano, talmente preoccupato dai matrimoni misti con gli islamici da emanare un’apposita enciclica che fece titolare a La Stampa, a caratteri cubitali, “Italiani, non sposate gli islamici”, manco fossimo tornati ai tempi delle leggi antisemite del Fascismo.
Poche ore dopo, il padre della vittima zittiva tutti e copriva di ridicolo i media, rivelando che il marito era in Tunisia a visitare i suoi e che sarebbe immediatamente tornato per chiarire la sua posizione di fronte agli inquirenti. Anzi, testimonianze riferiscono che la vittima aveva ripetutamente affermato di essere «molto contenta perché domani mio marito torna a casa, così possiamo preparare insieme bene il Natale». Il giorno dopo, quotidiani e Tg non sapevano cosa dire per giustificare quello che il Corriere avrebbe in seguito descritto come “la facilità con cui tutti i telegiornali e i giornali, compreso il nostro, hanno accolto la tesi della colpevolezza del tunisino ingiustamente accusato di aver fatto strage della sua famiglia in provincia di Como”. Si è detto di tutto, nel tentativo di giustificare il linciaggio mediatico: dalla “fretta, vista la tarda ora in cui la notizia è arrivata”, alle “indicazioni investigative che si sono dimostrate, nel giro di poche ore, fragili e fuorvianti” fino, “a voler concedere un’ulteriore attenuante” (sic), “l’aspetto di verosimiglianza che tutta la storia, a cominciare dal profilo del suo protagonista, ha messo in mostra”. Come se qualcuno avesse affidato ai giornali il compito di scoprire gli assassini e di processarli in diretta, e non quello di riferire fatti chiari e circostanze precise, per permettere al lettore di farsi un’idea obiettiva e asettica dell’accaduto.

Poi è iniziata la fase in cui il tunisino doveva “per forza di cose” essere coinvolto, in un modo o nell’altro, anche se assente dal luogo del delitto. Magari ha delegato il compito di sgozzare la famiglia a qualche conoscente, o forse si trattava di un regolamento di conti fra extracomunitari dediti al traffico di droga, o l’esito di una rapina andata male. Un immigrato era indagato, e i giornali lo ricordavano quotidianamente: in qualche modo un extracomunitario doveva avere un ruolo in questa brutta faccenda. Dopottutto gli italiani non vanno mica in giro a sgozzare le persone come Al-Zarqawi. Oggi invece scopriamo che ad uccidere Raffaella Castagna, 29 anni, il figlio Yousef di 2 anni, la suocera Paola Galli, 60, e la vicina di casa, Valeria Cherubini, 50enne, oltre che ferire gravemente il marito di quest’ultima, non era qualche extracomunitario in vena di sacrifici umani ma una rispettabile – e italianissima – copia di vicini di casa. La stessa che, fino a qualche giorno prima del massacro, apostrofava la vittima come un “avanzo di galera” e suo marito come un “tunisino di m****”. La stessa che ha aggredito fisicamente la giovane mamma la sera di capodanno di due anni fa, e che per questo motivo avrebbe dovuto affrontare un giudice di pace fra qualche giorno.

Leggo ora che ad uccidere il bambino, di appena due anni, era la vicina di casa. Mi ricordo ancora i particolari raccapriccianti dell’autopsia. E mi chiedo: come ha fatto una donna a sgozzare un bambino indifeso in quel modo barbaro e inumano? E con quale coraggio, poche ore prima di essere arrestata, si lamentava di essere guardata male “da quelli lì”, ove “quelli li” altro non erano che i tunisini del vicinato? Forse mentre lo sgozzava pensava che, tutto sommato, era un “tunisino di m***” in meno, un “musulmano di m***” in meno, uno di “quelli lì” in meno. Un razzismo che traspare dagli insulti che venivano rivolti quotidianamente alla Castagna, alimentato dai pregiudizi nei confronti del marito, apostrofato come un un tunisino di m****, e dalla difesa mediatica basata su riferimenti a “quelli lì” che, brutti buzzurri, guardavano storto la rispettabile signora. In questa faccenda non c’è solo la “banale lite condominiale”, ma il razzismo, l’impazzimento dell’Italia, tout court. Un Italia in cui perfino un Magdi Allam si dimentica della propria pelle e si straccia le vesti perché il primo neonato dell’anno era marocchino. Un Italia dove gli immigrati sono costretti a pregare affinché l’esito delle indagini sul delitto del momento ricordi a tutti che i mostri non sono solo arabi o rumeni e che di “brava gente”, indipendemente dalla nazionalità, ne é rimasta davvero poca in giro.

Sherif El Sebaie
Fonte: http://salamelik.blogspot.com/
Link: http://salamelik.blogspot.com/2007/01/brava-gente.html
11.01.2007

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