DI ROBERT FISK
independent.co.uk
Mentre Dubai è sinonimo di eccesso, volgarità e violazioni dei diritti umani, la capitale degli Emirati Arabi è un’altra cosa. Accanto all’Emirates Palace Hotel (1.022 lampadari di cristallo), alla Grande Moschea (capacità: 40.000) ed ai quattro milioni di lavoratori stranieri, ci sono gallerie, musei, luoghi di studio – e l’obiettivo dichiarato di essere un “modello” per i paesi vicini. Abu Dhabi ha trovato un modo per mescolare petrodollari e princìpi?
Il Louvre di Abu Dhabi sembra la cima di un gigantesco guscio d’uovo primordiale, che si fa largo sulla sabbia. La sua gigantesca cupola giace già sotto il sole, i suoi operai si muovono come ragni su cinque strati di rivestimento, acciaio ed alluminio, che daranno a questo straordinario museo un peso combinato di 7.000 tonnellate, solo leggermente inferiore a quello della Torre Eiffel. La base in calcestruzzo di un lago artificiale si sta già sviluppando attorno alla costruzione: il Louvre dell’architetto Jean Nouvel si staglierà infatti su un’isola in miniatura, le sue opere d’arte trasportate nella galleria tramite tunnel sotterraneo, la luce irrorata al suo interno come se attraversasse fronde di palme.
Molto romantico. Molto orientalista francese, mi dico. Anche molto arabo, forse. L’idea è che nel nuovo Louvre l’arte si muoverà cronologicamente attraverso i secoli, dipinti orientali ed occidentali l’uno accanto all’altro.
Abu Dhabi non avrà però qualche problema con i nudi, con Gauguin o Picasso o Poussin? No, dice il mio accompagnatore, mentre mi mostra il doppio isolamento ed il rivestimento che, speriamo tutti, impedirà all’acqua di riversarsi sui capolavori. “È accettato tutto. È arte. È per la cultura”. L’arte contemporanea sarà all’interno del Guggenheim di Abu Dhabi, a poche centinaia di metri di distanza, ancora solo un cumulo di camion e manovali al lavoro.
“È accettato tutto”? A meno che, dico io, l’Isis, nota per il suo nefasto interesse per i manufatti, risparmi il nuovo Louvre e non cerchi di far entrare l’acqua attraverso le pareti. L’esperto di rivestimenti e di cemento mi guarda piuttosto cupamente dal volante del suo quattro per quattro, e concorda pacifico che la “sicurezza” dovrà essere un tema portante. Forse è per questo che così tante persone ad Abu Dhabi – incluso il mio accompagnatore – non amano rivelare il proprio nome: perché vivono sotto una forma di autocrazia. Non la dittatura del potere politico, in stile Saddam, Mubarak o Gheddafi, ma la dittatura del denaro. Abu Dhabi è così ricca, e le sue ambizioni così mistiche, che la gente parla sottovoce. Se il Louvre di Abu Dhabi ha già acquistato “Ragazzi bretoni che lottano” di Gauguin – scopriremo cosa pensano gli emirati della quantità di carne esposta – e “La lettrice soggiogata” di Magritte (una lettrice femminile, chiaramente priva di velo, dovrei aggiungere), allora forse qualche miracolo è già avvenuto.
Se tutto questo riguarda però la cultura, cosa dire della Grande Moschea dello sceicco Zayed? Il tappeto gigantesco, i lampadari, il fatto che sia stato costruito da uomini e materiali provenienti dal Marocco alla Cina e possa contenere più di 40.000 fedeli – tutto dà la sensazione di cattedrali medievali. Ha sì evitato il macabro e concreto pseudo-modernismo delle moschee costruite dai sauditi in Bosnia, ma è arte? Oppure, con le sue pietre d’oro e preziose, è un messaggio sul potere della ricchezza, così come sul potere di Dio? Il Profeta Maometto era un uomo d’affari e, credo, gli sarebbe molto piaciuta Abu Dhabi – ma era anche un uomo umile. Questa moschea è umile?
Questo è il dilemma di Abu Dhabi. Quando possiedi il 9% del petrolio mondiale e quasi il 5% del gas naturale del pianeta, devi decidere se gridarlo ai quattro venti, mostrandolo a tutti con lo slancio saudita, oppure reinvestirlo per finanziare progetti di beneficenza o milizie islamiste. Abu Dhabi è rimasta fedele alla carità, ha evitato l’oscurità del Wahhabismo, la cupa versione puritana dell’Islam sunnita, adottata fatalmente dalla Casa di Saud nel XVIII secolo; non riesce però a liberarsi dalla proprio urgenza di ostentare. E l’Emirates Palace Hotel è un’oscenità. Ci son stato due volte (non a spese dell’Independent) ed ho scritto della sua architettura imperiale – in stile Lutyens, suppongo, con appena un accenno di Saddam ed un pericoloso retrogusto di Titanic.
È un’esposizione assurda di ricchezza: vero oro alle pareti, porte ed accessori, 1.022 lampadari di cristallo ed una lista di divi di Hollywood-Bollywood che hanno prenotato stanze a £10.000 a notte. L’hotel è così grande che un ospite deve fare più di 3 chilometri per uscirne; lo staff egiziano e russo lo chiama “Hotel Sporto”, perché la maggior parte, per scortare gli ospiti, deve camminare tra i 16 ed i 24 km al giorno.
Questo però è a voler essere schizzinosi. Il vecchio sceicco Zayed, fondatore di Abu Dhabi, l’attuale sceicco Khalifa, suo figlio e successore, ed ora suo fratello, il principe ereditario Mohammed bin Zayed al-Nahyan, hanno tutti affermato che gli emirati sono rimasti indietro nella merce più preziosa, ed in gran parte assente, di qualsiasi stato arabo: l’educazione. Ora che Abu Dhabi ha ottenuto “un sacco di ricchezza”, l’emirato ha investito in istruzione, ha detto il principe due mesi fa. “Forse tra 50 anni il petrolio potrebbe finire. La domanda è: noi saremo finiti? Se oggi investiamo nei settori giusti, in quel momento festeggeremo”.
Abu Dhabi è la versione matura di Dubai, la capitale degli Emirati Arabi Uniti, più piccola della vicina, ma probabilmente la città più ricca del mondo. È ancora governata dalla famiglia al-Nahyan, la cui tribù Bani Yas nel tardo XVIII secolo migrò verso la costa settentrionale del Golfo della penisola arabica, di fronte a quello che ora è l’Iran. Abu Dhabi è così ricca, con una capacità produttiva di 2,3 milioni di barili di petrolio al giorno, che anche i suoi investimenti totali – si preferisce tener segreti i numeri – sono stimati attorno ai 70 miliardi di sterline. La cifra totale è probabilmente vicina ai £650 miliardi.
Nel terribile linguaggio aziendale che i prìncipi della corona ora si sentono costretti ad usare, Mohammed ha detto che, pur avendo il paese petrolio e gas per il presente, “i risultati degli investimenti in educazione creerano un capitale umano che ci servirà per i prossimi 50 anni ed oltre”. In altre parole, educazione, educazione, educazione, …
“Di che diavolo continuava a parlare il principe Mohammed”?, ho chiesto a Zaki Nusseibeh, uno dei consiglieri del ministero degli affari culturali del governo. “I popoli arabi nelle loro rivoluzioni hanno chiesto dignità”, ha risposto. “Hanno chiesto un futuro, … devi però prima creare l’abitudine alla discussione ed all’accettazione del punto di vista altrui. Tutto ciò che sta accadendo con l’ideologia religiosa in questa parte del mondo è un movimento fascista. L’apprendimento è mnemonico, la gente non è incoraggiata ad avere un pensiero critico: non ascolta musica in giovane età e non sa cosa voglia dire andare in un museo. Lo sceicco Zayed l’aveva detto già nel ’68”.
Nusseibeh fa parte di un comitato di borse di studio Rhodes ed afferma quanto sia gratificante vedere due giovani studenti degli Emirati Arabi in competizione con studenti internazionali per ottenere Master ad Oxford. Abu Dhabi e gli altri emirati devono quindi avere buone università, dice, scuole eccellenti, un impegno per “educazione e cultura”. Investire nel futuro, ogni funzionario del governo di Abu Dhabi vi dirà, riguarda anche le energie rinnovabili, l’energia solare, ma soprattutto l’istruzione.
“L’ideologia politica ha preso il sopravvento sull’istruzione”, dice Nusseibeh della recente storia araba. Parla dei musei e della Biennale di Sharjah e Abu Dhabi, per poi sputar fuori uno di quei cliché che mi fanno sempre sospettare: Abu Dhabi deve essere “un modello per le società che ci circondano – pensa ai media, la città di internet, l’infrastruttura delle comunicazioni, …”.
Non molto tempo fa l’Occidente ha detto agli arabi di guardare alla Turchia come modello di riferimento – perlomeno fino a quando Erdogan non ha iniziato a dare i numeri, parlando di complotti, rinchiudendo i giornalisti e trasformandosi in un simil Gheddafi/Mubarak. Non è però difficile vedere cosa Abu Dhabi stia cercando di fare. Se l’Arabia Saudita è l’impero della preghiera ed il Qatar quello della televisione – e l’Egitto l’impero di troppe persone – allora Abu Dhabi governa l’impero dell’istruzione superiore, l’unica merce che è sempre sfuggita agli arabi, o che gli arabi non sono mai riusciti a sfruttare.
E se l’Isis è un culto delle anime perdute, allora ciò a cui Abu Dhabi afferma di credere è l’antitesi dello “Stato Islamico”, ed il proprio principe ereditario ha in mente di formare una nuova linea non violenta contro di essa. Bisognerebbe dunque chiedersi se il termine “mondo arabo”, nome molto improprio che noi occidentali abbiamo inventato assieme a “Medio Oriente”, abbia ancora senso. Forse dovremmo reimmaginare questa regione, considerandola tripartita: il Maghreb e l’Egitto, il Levante e la penisola araba.
Dovremmo certo lasciar fuori lo Yemen, per timore che gli stati del Golfo Arabo possano precipitare nella stessa valle di morte di quel paese. In questa narrazione, però, l’educazione, sicuramente il salvagente del nostro mondo arabo immaginato, scorre da quei ricchi gioielli che si trovano lungo il golfo arabo. Anche il Qatar ed il Kuwait, nonostante la sua corruzione.
Dall’educazione nasce la dignità e dalla dignità nasce la giustizia. È bello sapere che ad Abu Dhabi c’è un gruppo corale, una Fondazione di Musica ed Arti, un Amadeus Music Institute, una House of Oud, che studia lo strumento a corde arabo lontano parente del liuto, l’Istituto Internazionale di Musica e l’Istituto di Musica Moderna. Poi però trovo che la versione locale di Time Out, nella propria sezione intrattenimento, elenca 108 bar e nightclub. Abu Dhabi sta cercando di imitare Dubai? Possono convivere due Dubai – o due Abu Dhabi – negli Emirati?
E a chi sono rivolti alla fine? Non ai quattro milioni di lavoratori stranieri, naturalmente. Né alle élite borghesi che arrivano dall’Occidente e dal resto di questo amorfo “mondo arabo”. Un importante medico iracheno che si trova qui – anche lui ha chiesto di rimanere anonimo – ha spiegato i propri rapporti con l’Emirato in termini sorprendentemente franchi. “Siamo venuti tutti qui per scelta”, ha detto, mentre sorseggiavo il caffè più caldo che abbia mai assaggiato in Arabia. “Ho preso una decisione informata – credevo che avrei avuto una vita migliore qui. Sono molto contento del modo con cui gestiscono il loro paese”.
Si è fermato qui, penso perché – come medico ma anche come espatriato – non voleva elogiare troppo Abu Dhabi. “L’accordo è questo: ‘Ti paghiamo e potrai avere lo stile di vita che hai scelto; non avrai però diritti’. Uno straniero non può frequentare una scuola governativa. Può andare in un ospedale governativo solo in caso di emergenza. Sono qui come servitore del paese. So che se voglio non esserlo più, posso salire su un aereo e tornarmene a casa”.
Poi ha riflettuto un attimo ed ha riassunto la venalità di tutto questo. “Siamo tutti qui per invito – o tentazione”.
Robert Fisk
Fonte: www.independent.co.uk
Link: https://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/robert-fisk-in-abu-dhabi-the-acceptable-face-of-the-emirates-10211050.html
29.04.2015
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di HMG