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A 50 anni dal ’68: il Vietnam tra mito e realtà

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A cura di Rosanna
Il 2 Luglio 2018
2473 Views

DI ALESSANDRO GUARDAMAGNA

comedonchisciotte.org

Il 1968 fu l’annus mirabilis, l’anno delle rivoluzioni che segnarono l’avvento della “fantasia al potere”; l’anno che mise in crisi il sistema socio-politico uscito dalla Seconda Guerra Mondiale per lasciare spazio ad una società diversa, ad un modo più aperto di vedere i rapporti sociali e a un pensiero più libero. In altre parole il 1968 fu lo spartiacque culturale e politico del mondo nel secondo dopoguerra.

Ma siamo sicuri che il pensiero nato e manifestatosi nel 1968 sia stato così radicalmente libero e avverso al potere costituito? Emblematico è il caso della stampa, che dal ’68 si sarebbe trasformata da “cane da guardia” dei poteri forti a voce del popolo, al punto da diventare fattore determinante di scelte politiche. Esempio eclatante di tale trasformazione è la guerra in Vietnam, dove la stampa avrebbe – secondo una corrente di pensiero diffusasi proprio a partire da 1968 in poi – addirittura causato la vittoria di Hanoi e dei Vietcong sul più potente esercito del mondo.

ALCUNI INTERROGATIVI

La stampa in Vietnam fu più libera di mostrare il conflitto per quel che era, diversamente da quanto sarebbe accaduto in conflitti precedenti? Grazie a questa maggiore libertà, l’opinione pubblica americana – e più in generale quella mondiale – fu informata più di quanto non avvenne per altri conflitti che videro impegnati gli USA e quindi, confrontatasi per la prima volta con gli orrori della guerra, avrebbe smesso di supportare la politica della Casa Bianca e avviato quella stagione di marce di protesta che fecero vacillare le risoluzioni degli uomini forti di Washington. Fu questo che determinò la progressiva uscita di scena dell’America? Rispondendo a queste domande vedremo se la “nuova stampa” ebbe la capacità di portare al disimpegno degli USA determinandone infine la sconfitta.

Vediamo alcune immagini del conflitto a partire da 1968. In questa si vede il generale della polizia sud-vietnamita Nguyen Ngoc Loan fredda con un colpo alla tempia un sospetto Vietcong (foto di copertina). Vi è poi un’immagine del massacro di Mylai, dove tra i 347 e i 504 civili sudvietnamiti furono uccisi da militari USA.

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Andando a ritroso vediamo la foto di una donna Vietnamita interrogata con un fucile automatico M16 puntato alla testa, scattata a Tam Ky, nel Novembre 1967 e soldati feriti durante l’operazione Praire del 1966.

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Spostandoci ad altri conflitti precedenti il Vietnam abbiamo la foto di un soldato americano ucciso a sangue freddo durante la guerra di Corea.

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E ancora la testa scarnificata e bruciata di un fante giapponese esposta su un carro armato nel corso della battaglia di Guadalcanal nel 1942, e fatta circolare sulla copertina della rivista Life.

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Le immagini indicano chiaramente che il pubblico americano, ben prima del 1968, era abituato a scene brutali del conflitto e di altri che avevano impegnato l’America, sia in Corea che nella Seconda Guerra Mondiale. Raccogliere souvenir in forma di denti, orecchie, dita, mani mozzate o teschi di soldati Giapponesi nel Pacifico era considerato normale, e per nulla riprovevole. A cambiare furono quindi non la qualità intrinsecamente cruda delle immagini, ma i mezzi usati dai media per offrirle all’opinione pubblica.

Mentre a partire dalla Prima Guerra Mondiale le informazioni venivano divulgate tramite cinegiornali in sale cinematografiche – nel pieno della Seconda Guerra Mondiale e di quella di Corea, il pubblico interessato ai reportage di guerra era addirittura maggiore in percentuale di quello odierno – in Vietnam il filo diretto con la guerra fu garantito dalla televisione. A partire dal 1966 il 93% degli Americani disponeva di un apparecchio televisivo.

L’OFFENSIVA DEL TET

Sgombrato quindi il campo da dubbi su una sorpresa del pubblico alla visione dei “nuovi” orrori della guerra, concentriamoci su che cosa avvenne in Vietnam nel 1968, dove dal 1965 gli Stati Uniti erano impegnati a sostenere il governo filo-occidentale Sudvietnamita contro quello comunista di Hanoi e i guerriglieri Vietcong.

L’anno si aprì con quella che passerà alla storia come l’Offensiva del Tet, dal nome del Capodanno lunare Vietnamita, che cadeva in Gennaio. Il Vietnam del Nord aveva annunciato che avrebbe osservato una tregua di 36 ore in occasione del Tet, tuttavia, mentre le famiglie iniziarono le celebrazioni e i comandanti sud Vietnamiti concedevano licenze al 50% dei militari, i Viet Cong lanciarono una massiccia offensiva a partire dall’alba del 30 gennaio 1968 con l’obiettivo di scatenare una rivolta generale nel Sud Vietnam.

Il mattino successivo 80.000 fra soldati Nord Vietnamiti e Vietcong sferrarono più di cento attacchi coordinati, invadendo 36 dei 44 capoluoghi di provincia. Nella capitale Saigon attaccarono il palazzo presidenziale e l’ambasciata americana, dove un commando di 19 guerriglieri si aprì un varco nel muro di cinta.

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Nonostante l’elemento sorpresa e la violenza dell’offensiva portarono ad un successo iniziale, i contrattacchi USA e sudvietnamiti respinsero i comunisti infliggendo loro pesanti perdite. Solo nell’antica capitale imperiale di Hué e attorno alla base di Khesanh i combattimenti si protrassero per altri due mesi, per concludersi con una sconfitta per Nordvietnamiti e Vietcong, che ebbero complessivamente 40.000 morti. Eppure, nonostante l’offensiva non riuscì a scatenare una rivolta generale nel Sud Vietnam, come Hanoi aveva auspicato, essa finì per acquisire un impatto significativo negli Stati Uniti. Questo, sebbene non fosse stato pianificato dai comandi militari Nord Vietnamiti, ebbe alla lunga l’effetto di allontanare l’opinione pubblica americana dalla guerra. Come?

LO SHOCK DEL PUBBLICO AMERICANO

Gli obiettivi che i nordvietnamiti e i vietcong si erano posti erano dunque falliti miseramente. Ripresisi dalla sorpresa iniziale le forze americane e sud-vietnamite avevano recuperato velocemente il controllo della situazione, ma a partire dal giorno stesso dell’offensiva e per un’intera settimana 60 milioni di telespettatori americani videro un quadro ben diverso dell’accaduto. Le troupe televisive arrivate per prime all’ambasciata trasmisero le immagini dei 4 marines di guardia uccisi dal commando, per mostrare poi carri armati e semoventi che sfrecciavano a tutta velocità per le strade della capitale, con titoli che a più riprese scandivano “La guerra colpisce Saigon”, considerata il centro della potenza USA in Vietnam.

Per giorni interi la televisione ripropose l’immagine di Eddie Adams che operava per la rivista Life e con cui vincerà il premio Pulitzer. Il fotogramma è tratto da un video in cui si assiste ad una scena impressionante. In essa il generale della polizia Nguyen Ngoc Loan spara a bruciapelo alla tempia ad un prigioniero vietcong con le braccia legate dietro la schiena. Allora nessuno commentò sul fatto che la vittima aveva ucciso diversi uomini delle forze di sicurezza di Loan, tra cui un ufficiale con la moglie e i figli nella sua residenza privata. L’immagine di quel cervello che andava in pezzi – che i “rivoluzionari” telegiornali USA in realtà non mostrarono ai telespettatori tagliando le scene finali in cui il corpo senza vita si accascia e il fiotto di sangue schizzava dalla tempia – riassumeva alla perfezione lo sfacelo del Tet: un carosello di americani esauriti incapaci di difendere il centro nevralgico del proprio potere in Vietnam, e sadici e corrotti alleati sudvietnamiti che uccidevano prigionieri a sangue freddo. E tutto questo mentre si era assicurato alla nazione che in Vietnam ormai “si vedeva la luce alla fine del tunnel !” In questo vortice di immagini gli americani non sapevano più a chi o cosa credere.

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A Hué una troupe televisiva intervistò i marines che combattevano casa per casa per snidare i 10.000 soldati nordvietnamiti asserragliati, impresa che conseguirono in 3 settimane al prezzo di 147 morti e 857 feriti.

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Ecco la breve intervista di uno di loro, riportata da Stanley Karnow in Storia della Guerra del Vietnam:

“Qual è la cosa più difficile?” 

“Non sapere dove sono: ecco la cosa peggiore. … nascosti nelle fogne, ovunque. Potrebbero essere ovunque. Si spera solo di restare vivi, giorno per giorno.” 

“Hai perduto degli amici?” 

Parecchi… uno l’altro ieri. E’ uno schifo, uno schifo.”

I marines fecero saltare in aria edifici storici per eliminare i cecchini che vi erano nascosti. Per questo si attirarono la riprovazione della stampa, la quale però si guardò bene dal presentare al pubblico americano le storie delle esecuzioni sommarie che Nordvietnamiti e Vietcong avevano condotto in città all’indomani del loro arrivo. Giravano con liste di proscrizione compilate in precedenza. Almeno 5.000 persone “sparirono” da Hué – medici, sacerdoti, insegnanti, funzionari governativi furono i bersagli principali – tra cui anche cittadini di nazioni europee estranee al conflitto, per finire uccise a bastonate, a colpi di pistola o a volte sepolti vivi nella giungla, con esecuzioni sommarie simili a quelle recenti dell’ISIS. Per la prima volta nel corso della storia della guerra di un qualsiasi conflitto in qualsiasi luogo e tempo, uomini nello stress e pericolo della battaglia potevano essere visti da milioni di loro connazionali, tra cui vi erano i loro familiari ed amici nel confort delle proprie abitazioni a poche ore dagli scontri in cui erano stati coinvolti.

Lo sbigottimento di fronte ai combattimenti che avevano raggiunto l’ambasciata – che addirittura alcune fonti in un primo momento avevano dato caduta in mano vietcong – e le devastazioni sistematicamente riproposte fecero nascere grandissimi dubbi nell’opinione pubblica su quello che era l’effettivo ruolo degli USA e il progresso della guerra in Vietnam. Non fu quindi – facciamo attenzione – l’orrore della immagini proposte a produrre la reazione, bensì l’incredulità a quanto stava accadendo. Incredulità alimentata da quanto i comandi dell’esercito, e la stampa vicina a questo, avevano detto fino a poche settimane prima del Tet, dichiarando nel Novembre 1967 e ancora nel Gennaio dell’anno successivo, che la guerra si avviava ad una conclusione vittoriosa. Il Tet, una chiara vittoria militare americana, portò invece alla ribalta un’altra visione della realtà.

I MEDIA “CONTRO” LA GUERRA 

Sarebbero quindi stati i media a causare la disfatta militare USA a partire dal Tet, assumendo posizioni sempre più critiche su come Washington conduceva la guerra ed alienando l’opinione pubblica. Questa si sarebbe stancata di mandare i propri figli, coscritti già recalcitranti a servire nell’esercito per via del clima di ribellione degli anni ’60, a morire per una guerra inutile. Per la prima volta l’opinione pubblica aprì gli occhi e si rifiutò di schierarsi con l’esercito e i propri leader. Da quel punto la guerra fu irrimediabilmente perduta. Questa è il lascito del Tet rimasto nell’immaginario collettivo. E’ vero?

Abbiamo visto che la “brutalità” della guerra che impegnava gli USA non costituiva una novità per l’opinione pubblica. Mentre un movimento pacifista – che includeva fra gli altri Noam Chomsky, Joan Baez, Jane Fonda, Martin Luther King e decine di giornalisti di sinistra – esisteva ben prima del Tet, la maggioranza dell’opinione pubblica e dei media sosteneva la guerra in Vietnam. Nel 1965, quando vi furono inviate truppe combattenti e un primo contingente di 3.500 marines sbarcò a Da Nang, gli americani erano sostanzialmente favorevoli all’intervento.

Perfino nello sconquasso del Tet, lo storico Victor David Hanson ha sottolineato come certi sondaggi rilevarono che “il 70% degli americani auspicavano una vittoria militare anziché una ritirata”. Lo stesso può dirsi della stampa. Il cronista Walter Cronkite – l’uomo più rispettato d’America – colui che di ritorno da Saigon il 27 Febbraio offrì un’analisi spassionata a 50 milioni di telespettatori, concludendo che “la sanguinosa esperienza del Vietnam è destinata a finire in una situazione senza uscita”, era inizialmente noto come sostenitore dell’intervento e schierato con la Casa Bianca. A lui facevano coro decine di autorevoli cronisti le cui storie dal fronte erano caratterizzate da una linea comune: “bravi ragazzi americani che combattono i comunisti”.

Questo nasceva da due motivi; in primis un forte senso patriottico, unito al fatto che seguire la linea del governo di Washington era vista come la cosa giusta da fare. Questo non significa che la stampa mentisse come regola, ma che tendeva, su indicazioni dei resoconti militari, a sostenere che in Vietnam le truppe USA facevano progressi e stavano vincendo la guerra, e da un punto di vista strettamente militare era così. Cronkite rifletteva nella sua serietà di giornalista gli atteggiamenti e i pensieri dei suoi connazionali molto più di quanto non contribuisse a condizionarli o formarli. Favorevole all’intervento nel ’65, dopo nel ’68 iniziò a palesare i dubbi che gli Americani avevano dopo aver visto il Tet in televisione.

IL MITO: TET, AMERICA E GUERRA 

Il Tet rappresentò uno spartiacque non per la violenza degli attacchi, o per nuovi orrori visti dagli spettatori americani, ma per l’incredulità di questi ultimi rispetto a quanto avevano appreso da anni sull’andamento della guerra. Nel Novembre 1967 il comandante in capo delle forze USA, generale Westmoreland, dichiarò in una serie di conferenze stampa che il nemico era sulla difensiva, e che il corso della guerra stava dando ragione agli Stati Uniti. I suoi ottimistici rapporti si basavano in realtà su un falso senso di sicurezza, perché i comunisti stavano pianificando da tempo l’offensiva del Gennaio ’68, nonostante le perdite subite fino ad allora. Quando questa scoppiò, gli americani abituati a sentire notizie incoraggianti, iniziarono a chiedersi cosa stesse in realtà succedendo in Vietnam.

Come era possibile che un nemico dichiarato quasi battuto avesse potuto organizzare un’offensiva simile, attaccare le principali basi USA, le città del Sud Vietnam e l’Ambasciata americana a Saigon? Che tipo di guerra era quella che da due anni e mezzo si stava combattendo? L’opinione pubblica chiedeva di sapere di più, comprensibilmente, e media – che operano per vendere notizie e vicini ai bisogni del pubblico – amplificarono tale input, iniziando a riversare in modo sempre crescente resoconti che parlavano di una guerra dura, contro un nemico che non poteva essere vinto con logiche da supermercato come quelle che aveva applicato McNamara segretario alla difesa dell’amministrazione Johnson ed ex-presidente della Ford. Inondare il Vietnam di truppe per togliere spazio al mercato della concorrenza aveva poco senso nel momento in cui la concorrenza poteva fare a meno del mercato per sopravvivere.

Questo era un nemico che nelle parole di Giap e Ho Chi Minh, era disposto a perdere 10 uomini per ogni uomo perso dall’avversario, sicuro che anche così avrebbe vinto. Giap infatti comandava un esercito che non inviava le bare dei propri caduti ad Hanoi, e misurava il proprio successo in base al numero di bare americane fatte rientrare negli Stati Uniti. Era la dura realtà che gli alti comandi ed i politici di Washington conoscevano, e che sarebbe emersa di lì a pochi anni con la pubblicazione dei Pentagon Papers, che costituiscono la vera prova tangibile dell’immoralità del Vietnam. Nel 1964, l’anno precedente l’invio dei marines a Da Nang, a Washington era stata fatta una simulazione – nome in codice SIGMA I – che aveva chiaramente dimostrato che in caso di conflitto convenzionale, che escludeva l’uso di armi atomiche, gli USA potevano vincere in Vietnam solo stanziandovi almeno 4 milioni di uomini, di cui mezzo milione in prima linea, cosa che avrebbe messo a rischio le loro capacità di intervento in altri teatri del mondo.

Avrebbero dovuto vuotare le basi in Europa del loro personale ed inviarlo in Vietnam, e le perdite americane sarebbero state assai più sostenute che le 150.000 vittime finali. Questo perché una società poco sviluppata come quella nord vietnamita, che mancava di gas, luce e con limitate infrastrutture, poteva sostenere un conflitto con poco. La macchina bellica USA aveva bisogno di mastodontici rifornimenti logistici e apparecchiature elettroniche; al Vietnam del Nord, paese rurale con una popolazione potenzialmente inesauribile, bastavano riso e kalashnikov – che importava in massa dall’URSS e dalla Cina – a cui poi si aggiunsero lanciagranate e lanciamissili.

Con pochi mezzi i Nord Vietnamiti e Vietcong erano in grado di condurre una guerra di attrito che poteva paradossalmente arrivare all’auto-annientamento in difesa di una causa in cui credevano: la liberazione della propria terra dagli imperialisti stranieri, di cui gli americani, dopo francesi e giapponesi, erano l’ultimo esempio. Erano disposti gli USA a pagare tale prezzo? L’opinione pubblica americana l’avrebbe accettato? Il wargame fu rigiocato nel Settembre 1964 col nome di SIGMA II, e l’esito fu il medesimo, quindi la conclusione parlava da sé sul “vantaggio” di impegnarsi militarmente in Vietnam. Il presidente decise l’intervento comunque, e questo finì poi, conosciuti i fatti, per alienare definitivamente l’opinione pubblica americana.

Il ’68 in Vietnam non portò quindi ad uno sconvolgimento della presenza USA per via della potenza dell’offensiva comunista presentata vincente da una stampa “ribelle”. La svolta fu piuttosto dovuta alla mancanza di credibilità che l’opinione pubblica in modo crescente riversò nei confronti del governo di Washington e che questo non riuscì a rimediare. Fu una rivoluzione abbastanza “istituzionale”.

Il mito della vittoria comunista del Tet fu più potente della realtà come spesso accade per i miti. L’olocausto in Francia riporta ai deportati nei campi di sterminio, o alle trincee di Verdun nella Prima Guerra Mondiale. Nessuno pensa mai che il più grande sterminatore delle popolazioni autoctone della Francia fu Giulio Cesare, che nel corso delle sue campagne militari (58-50 A.C.) ne uccise un milione e ne vendette un altro milione come schiavi. I popoli messicani sono stati spesso visti come nobili esempi di resistenza alla brutale avidità e ai massacri perpetrati dai conquistadores.

Quasi nessuno ha messo in relazione le vittime dei sacrifici umani degli Aztechi allo sterminio nazista. Se venisse fatto si scoprirebbe che quando gli Aztechi inaugurarono il grande tempio di Huitzilopochtli a Tenochtitlàn nel 1487, uccisero 80.400 prigionieri in una carneficina durata 4 giorni, con una media di vittime più alta di quelle comunemente registrate giornalmente ad Auschwitz – e va tenuto conto che la morte era data senza mezzi chimici. I carnefici erano così stravolti dalla fatica che dovevano continuamente avvicendarsi. Si parla dei 58.000 morti americani in 8 anni di guerra in Vietnam, e si trascura che in un solo pomeriggio a Canne nel 216 A.C., l’esercito della Repubblica Romana ne perse 75.000. Questa è la forza del mito, dell’assolutizzazione di un evento rispetto ad altri e alla realtà.

CONCLUSIONI 

A 43 anni dalla fine del conflitto a 45 dal disimpegno americano, qual è il lascito di quanto avvenne in Vietnam nel 1968? Per la prima volta nella storia dei conflitti moderni – in senso lato di tutti i conflitti – avviene la “spettacolarizzazione” della guerra, tramite l’impiego di mezzi tecnologici, filmati, video, diffusione televisiva, che è diventata da allora prassi e a cui siamo tuttora abituati. Il ’68 segnò il declino della credibilità Americana in Vietnam e la progressiva ascesa dei comunisti verso la vittoria, che conseguirono senza aver mai vinto battaglie campali, o ottenuto il controllo di vaste aree del territorio, senza che la popolazione del Sud Vietnam diventasse de facto comunista. Tuttavia vinsero.

Il governo di Hanoi vinse la guerra, ma finì col perdere la pace. Segno ne furono oltre il milione di vietnamiti internati nei campi di rieducazione dopo il 1975, dove 165.000 morirono, e oltre il milione e mezzo di rifugiati, the boat people, che fra il 1975 e il 1980 lasciarono il paese via mare su mezzi improvvisati per trovare rifugio altrove, in un esodo con modalità simili per certi versi a quello che da oltre 20 anni vediamo nel Mediterraneo. L’adesione, tipica della cultura occidentale, al principio di autocritica, che nella rappresentazione dell’offensiva del Tet operò in modo spesso distorto, contribuì in parte a far perdere la guerra agli USA, ma fu determinante nell’estendere globalmente l’influenza occidentale nei decenni successivi.

Questo avvenne anche in Vietnam, dove l’esercito dopo il 1975 combatté per un governo in bancarotta e spesso screditato, che paradossalmente dovette aprire al consumismo e alla produzione di beni di massa, accettando a livello economico parte di quel capitalismo che aveva avversato nel conflitto coi sudvietnamiti e gli imperialisti Americani – aspetto, quest’ultimo, spesso ignorato o taciuto dai vetero-comunisti di tutto il mondo. Sottolineiamo infine un dato finale, che smonta definitivamente il mito del soldato-cittadino perdente e squilibrato e che dovrebbe far riflettere i policy-makers e gli storici di oggi: il 91% di coloro che servirono in Vietnam si dichiarano contenti di averlo fatto e il 74% – e questo comprende la maggior parte di coloro che vi furono inviati dopo il 1968 – dichiarano che sarebbero pronti a servire ancora, nonostante siano a conoscenza dell’esito del conflitto.

L’episteme, il sapere certo, è il fatto. Il mito, capace di polarizzare sogni volontà ed interessi a prescindere dai fatti medesimi, può anche aver conseguenze più forti del fatto – come accade, come quelle del Tet nel ’68 – ma il sapere che si fonda sul mito, rimane illusorio. Illusoria fu la scelta di intervenire in Vietnam, alimentata da fortissimi interessi economici, e basata sul mito dell’invincibilità dell’America. Quest’ultimo come tutti i miti, è falso, ma tale falsità, come quella della “bontà assoluta” della causa comunista in Vietnam (quale governo buono rieduca forzatamente milioni di suoi cittadini, ne uccide 165.000 e ne costringe 1.500.000 all’emigrazione?), non può essere sistematicamente diffusa a detrimento di una cultura millenaria, quella occidentale basata su democrazia, uguaglianza e libertà, e delle scelte politiche che essa esprime.

 

Alessandro Guardamagna

Fonte: www.comedonchisciotte.org

02.07.2018

 

 

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