Meglio e peggio. Si stava meglio quando si stava peggio? Ecco l’ordine di premiazione del concorso Miss Italia 1947:
1. Lucia Borloni alias Lucia Bosè
2. Gianna Maria Canale
3. Luigia “Gina” Lollobrigida
4. Eleonora Rossi Drago
Nelle posizioni di rincalzo, tra il pulviscolo delle belle concorrenti, Silvana Mangano.
La fine della guerra, l’attesa per il nuovo: l’olivo italiano, reso stento dal buio delle privazioni, riceve nuova luce; le fronde si moltiplicano, vecchie foglie, ingiallite, si staccano, le radici affondano nell’humus ingrassato dalla speranza. Signori compunti, pantaloni con la riga perfetta, cravatte e giacche in buon ordine, si acconciano a tale festa della rinascita: le ragazze italiane, la cui pudicizia tiene a freno la pur timida esuberanza, dagli occhi limpidi, un po’ spaesate, son certe di un avvenire che, inevitabilmente, prima o poi, arriverà: come potrebbe essere altrimenti, dopo i morti, le distruzioni, le umiliazioni? La vita, interrotta, riprende; ciò che venne represso e costretto ritrova la via sua naturale. “The force that through the green fuse drives the flower/drives my green age“, canta Dylan Thomas.
Miss 2019. Ora leggo che una delle partecipanti alla prossima edizione di Miss Italia sarà una disabile: sfilerà con un arto finto. Ancora la propaganda, invasiva, totalizzante. Il trionfo del disabile, il piagnisteo, noi siamo i buoni, viva i diversi. Mai si era assistito a una così ripugnante opera di depistaggio morale. Il potere usa stavolta il pietismo e le minoranze per annientare la morale della normalità. Il normale è il diverso, il diverso è la normalità da premiare. Annichilire ciò che è sempre stato giusto, corretto, abituale tramite l’empatia indotta per ciò che è altro, capriccioso, informe, eccentrico, contro il buon senso e la tradizione.
In tale vicenda vi sono tre vittime: l’antico ordine estetico e morale; chi viene usato per imporre la trasgressione e l’inversione (la disabile) e, per ultimo, la sincera pietà per i più sfortunati che, presa in giro in maniera così sfacciata, rischia di mutarsi nel suo opposto.
Va detto, infatti, ancora e ancora, con rinnovata forza: il potere se ne frega dei disabili e dei diversi: la vita quotidiana urla questo tutti i giorni. E però gli torna utile usare la lacrima per distruggere ogni ordine pregresso. La sinistra diffusa, un allucinante cretinismo di massa, sono lì a fare da fiancheggiatori a tale manovra disgustosa.
Chupa Chups. Una nota attrice spedisce un proprio famiglio ad acquistare Chupa Chups alla marijuana per i nipoti: “Così si abituano al gusto“, commenta, rivolta agli increduli.
Pecorino? Giammai. Una giovane coppia di fidanzati gay ordina una pasta alla carbonara presso un ristorante romano; la richiesta è accompagnata da una precisa precisazione: niente pecorino! Il cameriere, che si guadagna la stozza, a luglio, camminando avanti e indietro fra le roventi cucine del disagio occupazionale e una clientela spesso volgare e unticcia, si bendispone alla richiesta; segue la pappatoria dei due; al termine della ruminazione, senza pecorino, il proletario reca lo scontrino: su di esso, sfuggito a un registratore di cassa omofobo, appare vergato il “Mane, Tekel, Fares” del peccato postideologico par excellence: l’Offesa: “no pecorino sì frocio“. Froci, addirittura. Questo non è il ristorante “Da Bruno agli Incivili” in cui il commissario Auricchio/Lino Banfi viene accolto dal refrain cult: “E benvenuti a ‘sti frocioni/grandi grossi e capoccioni/e tu che sei un po‘ frì frì/dimme un po‘ che c’hai da dì’ …“. La minuscola goliardata ingrossa in una slavina della stupidità che coinvolge tutti, da singoli babbei di facebook alle associazioni omofile sin alle più alte cariche dell’amministrazione comunale e, ancor più su, ai consueti sfaccendati politici, di destra (la Carfagna!) e sinistra. Al rotolare del pallone di neve vittimista, gonfio di arroganza, malafede, gridolini, occhi strabuzzati e soldi di Pantalone (l’associazione “Gay Helpline“, presieduta da un tal Marrazzo, è ovviamente di derivazione pubblica), non c’è difesa: il minimo ansimo di razionalità – leggi: buon senso – viene travolto subito. La devastazione parolaia lascia sul campo l’unico fantaccino sacrificabile: il cameriere, licenziato; proprio come il vecchio domestico de Il giorno di Parini, discacciato anche lui, dopo una vita di servigi, per aver osato scalciare la “vergine cuccia“, ovvero il cagnolino della signora: “L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo/udì la sua condanna. A lui non valse/merito quadrilustre; a lui non valse/zelo d’arcani ufici …“.
E questa differenza, plastica, la sperimenta, dopo una vita spesa al servizio delle sciocchezzuole, l’ex deputato DS Franco Grillini, storico quanto ubiquo presidente dell’Arcigay. Il suo vitalizio, ricalcolato con perfidia gialloverde, passa da euri 4725 a euri 2486. Solo 2486! Da aggiungere alla sua magra pensioncina! E come farà? Io e molti deputati e senatori saremo travolti dall’indigenza … come potrò pagare, infatti, le cure per il mio tumore … ho lavorato in Parlamento come un matto … e ora mi ritrovo con poche migliaia di spiccioli, ha affermato, pressappoco, con le lacrime al ciglio, l’ex Arcigaio. Io, per me, posso rispondere cosa è successo, a esempio, alla madre di due ragazzi disoccupati (una era cameriera), madre che ha lavorato come una matta, per la famiglia, tutta una vita, e si è ritrovata senza vitalizio e con la pensione minima: è morta. Dopo un paio di interventi, uno più rovinoso e doloroso dell’altro. Caro Grillini, ti conforto: tu, probabilmente, non morirai. Tu. Lo spero; la vita umana è un bene inestimabile. Un cinquemila al mese, tutto sommato, permette cure di buona qualità … cinquemila rappattumate da chiunque … razzista populista, omofobo … il soldo pubblico, strappato dalle tasche altrui, non ha patria e profumo … e poi moglie non ne hai di sicuro … figli nemmeno … una carbonara (senza pecorino) la troverai sempre nella comunità LGBTQIAPK (e son già partiti gli appelli! i ricorsi causidici!). Di poco (solo di poco) le tue probabilità di sopravvivenza, certo, caleranno: succede così, spero tu lo abbia capito, nella vita reale, quando la sedicente politica conculca gaiamente i diritti materiali e passa la dolce vita parlamentare a rivendicare un bel cazzo. La signora, invece, da minime probabilità è passata a zero: l’hanno tagliata e ricucita che non riusciva nemmeno a pisciare come una cristiana, ma solo per dovere, e per farsi rimborsare le cure dalla Regione. All’ultimo, ridotta a un fagottino di ossa e pelle, invocava la morte davanti ai figli, straziata dal dolore che superava persino quello, materno e indistruttibile, di non più rivederli. E sì che li ha amati! Questa è la vita quotidiana di molti italiani, resi carne da cannone, umiliati, insultati e vituperati mentre tu o altri consimili passate il tempo a discorrere di quanto è progressista (e giusto e buono) approntare una squadra di infermiere specializzate nel fare le pippe ai disabili.
Bene, bene così, via, verso il buco nero che ci inghiottirà tutti.
Il sabato lo passo a telefonare e ascoltare musica.
La domenica esco in tarda mattinata. Il sole è già impietoso.
Il bidone. Guido per circa trenta chilometri, poi lascio l’auto. Sono al Parco degli Acquedotti.
I sentieri che recano ai monumenti sono polverosi e luridi. Supero l’Acquedotto Claudio e Anio, su due ordini di arcate, e mi immetto lungo via del Quadraro: di qui ecco il parco di Tor Fiscale; la torre medioevale si staglia di lontano; fra ruderi di casali, erbacce e frattoni, si arriva a uno spiazzo ben tenuto, con un ristorantino in pieno verde: senza pretese eppur ameno: alle sue spalle le arcate dell’Acquedotto Felice.
Sotto tali archi viveva, sin agli anni Cinquanta, un’altra Roma. La Roma dei baraccati, che costruì proprio sotto l’opera di Papa Sisto V, abile a riadattare l’antica Aqua Marcia, le proprie trincee contro ciò che Padoa Schioppa chiamava le durezze del vivere. I poveri dell’Acquedotto Felice divennero epitome del disagio proletario delle borgate romane. Un giovane Federico Fellini, ignorato padre del miglior neorealismo, girò qui uno dei suoi primi capolavori, Il bidone. Il bidone, una storia di truffatori da quattro soldi. In una scena li si vede arrivare proprio fra i poveracci dell’Acquedotto per raggirarli con finte promesse di case popolari.
Mi aggiro con calma, camicia bianca, mani in tasca nei pantaloni scuri. Ritrovo il luogo esatto dove fu girata la sequenza, presso il vicolo dell’Acquedotto Felice: dal 1955 molto è cambiato, ma le arcate hanno il medesimo andamento; il rudere di un antico fontanile è ancora riconoscibile; infissi nel corpo dell’acquedotto possono ritrovarsi, immutati, i posatoi metallici della linea elettrica ora dismessa.
Il bidone fu giudicato uno dei film più realisti di Fellini: ciò è vero, se ci si limita alla forma esteriore. In realtà tale pellicola è la storia di un miracolo: un miracolo mancato in tal caso, a differenza de Le notti di Cabiria dove il miracolo arriva a lambire un cuore e a possederlo definitivamente.
I disegni divini intervengono per vie imperscrutabili.
All’uscita d’un cinema Cabiria conosce un uomo, Oscar; sembra una brava persona; lei si fida; si instaura una parvenza di rapporto umano; un futuro, finalmente! Sì, è possibile! Cabiria vende la minuscola casa, parte con lui. Lungo il viaggio egli la reca presso un lago, ai bordi d’una pineta; la intrattiene ancora con chiacchiere, suadenti, poi i toni impercettibilmente cambiano: si rivela; mette le mani sui soldi del peccato, quindi tenta di ucciderla; qualcosa, però, lo trattiene. Fugge. Cabiria rimane con un’amarezza sconfinata: è tale scacco, tuttavia, perseguito per vie occulte, l’autentico inizio d‘una nuova esistenza. Solo a tal prezzo, ricominciare da zero, e dire no, un no che è inconfutabilmente un no, si intravede la via della salvezza. “Che il vostro parlare sia sì, sì; no, no; il di più viene dal Maligno“, dichiara l’Ebreo per bocca di un altro ebreo, un mezzo usuraio. Il Cristianesimo è una disciplina dura. La parabola della fune e della cruna dell’ago è lì a testimoniarlo. Perdere ciò che si è stati, nel peccato, definitivamente: questo è rinascere in Cristo. E, infatti, la peccatrice rinasce: il prezzo della colpa è stato dilavato con un battesimo inconsapevole; non rimane che la rivelazione. Disfatta, stanchissima, Cabiria si incammina a capo chino lungo la via, con passo lento, come animata da una flebile forza latente; intanto, attorno a lei, quasi inavvertito, si forma un gruppo di giovani; festoso, di un’allegria che pare ciò che è, imbevuta nel disinteresse, un sì che è un sì; Cabiria sente di rianimarsi un poco: la sincerità dell’età verde e una musica spontanea contagiano il suo cuore semplice; dal gruppo una ragazza si volta verso di lei, sorride: “Buonasera!“; le dice, così, cordialmente, senza alcun fine. Noi sappiamo, da lettori accorti, ch’Ella è un angelo. Cabiria sorride a sua volta: è salva.
Il miracolo. Il fatto di cronaca da cui è tratto Le notti di Cabiria, l’omicidio di una prostituta a Castelgandolfo, viene mutato da Fellini, scientemente, nel punto essenziale.
Il protagonista de Il bidone, invece, rinnega la possibilità del miracolo. Di fronte a una ragazza storpia, provata da un’esistenza durissima, dolce e senza malizia (un angelo), egli cede, invece che alla carità, alle lusinghe del denaro: porta a compimento la sua truffa e sottrae proprio quei soldi che l’avrebbero guarita. Scelte. Libero arbitrio. La Grazia si allontana. Egli finirà come merita, con la schiena spezzata ai bordi della strada, le grida di dolore e aiuto inascoltate, in un contrappasso perfetto col rifiuto della parola di Dio. Tutto questo in Fellini rimane inavvertito; egli non rende mai evidente; è lo spettatore a dover comprendere l’intimo significato delle vicende. Il protagonista e lo spettatore, perciò, coincidono: entrambi sono posti di fronte a una verità, segreta; alla scelta.
Il bidone: l’angelo e la Grazia rifiutate |
Vele d’un battello corsaro. Riprendo l‘auto, mi lancio lungo via Palmiro Togliatti. Scendo all’altezza del Quarticciolo, m’incammino lungo le sue vie. La regolarità dei lotti mi rassicura subito. Le strade che tagliano la borgata sono deserte, così come quelle interne dei cortili e dei giardini. Come sempre cerco di render conto a una verità che mi assale con una evidenza plastica, ma a cui non riesco a dare ragioni. Perché tali palazzi sono belli? Progettati da Roberto Nicolini (padre di Renato, il profeta dell’effimero durante le giunte comuniste fra Settanta e Ottanta) poco prima della guerra, essi furono concepiti per esclusivo uso popolare; e però ancora risaltano, a fronte delle costruzioni viciniori, molto più recenti, e irrimediabilmente brutte, per una loro intima armonia. Perché? Forse perché sotto il Fascismo vigevano ancora gli intellettuali? Cosa ritengono questi parallelepipedi giallini, di elegante, umano, rispetto all’infamia utilitaristica dei palazzinari attuali o delle impennate di sedicente e costosissima genialità delle archistar? Non saprei.
La forma? Quelle feritoie regolari nei fianchi dei palazzi, le vetrate, la regolarità ininterrotta della sagoma. O forse la concezione d’essi, umana, umanissima, abile a donare a ciascun abitante il proprio humus vitale grazie al ritaglio di giardini interni aperti a tutti, vialetti alberati, anditi, scalette d’entrata, muriccioli; persino i nettasuole convengono a intimamente arredare quel microcosmo popolare. Era benigno, assai benigno quel demiurgo, Roberto Nicolini; egli provvide solo apparentemente alla bassa utilità; in realtà tutto ciò che realizzava, dai manufatti alle architetture, rivela uno scrupolo commovente; l’uomo che progettò tali cose possedeva, infatti, ancora un‘empatia, la preoccupazione di costruire luoghi a favore di una esistenza comunitaria. Cosa, se non tale preoccupazione, ha fatto sì che nelle borgate si riservasse spazio ai quadrati di sabbia interni ai lotti per far giocare i bambini? Oppure agli stenditoi: semplici paletti di ferro, ordinati con cura, però, e una certa rigorosa regolarità, col filo che corre umilmente dall’uno all’altro. Decine di lenzuola, e panni, e tute, una volta, venivano qui appesi, fermati da semplici mollette di legno, ad asciugarsi ai refoli delle brezze più miti; nei fine settimana, quando su ciascuno gravava meno l’impegno della scuola o del lavoro; su ogni stenditoio s’intuiva una famiglia: i pantaloni più lunghi del padre, spesso una divisa, grembiuli e sottane della madre, tovaglie multicolori, candidi strofinacci, veli e fazzoletti; e poi, decrescenti per misura, i figli: canottiere, calzini, mutandine, magliette, calzoncelli, gonnelline a fiori, pannolini; rossi sbiaditi, verdi accesi, turchesi, giallo cromo s’alternavano in un guazzabuglio multicolore.
Verità. Nel primo pomeriggio, deserte le strade, un vento improvviso, a volte, rabbuiato velocemente il cielo, interveniva a musicare quei pentagrammi: ogni tanto un lenzuolo, sferzato violentemente, si gonfiava con un rumore secco, o qualche fibbia iniziava a tinnire ritmicamente contro il ferro dello stenditoio; l’aria era risucchiata dalle scale interne provocando un lamento sospiroso lungo la vertigine della prospettiva verticale; una persiana sbatteva; il grido breve d’un uccello; i popoli delle foglie cadute a terra, rinsecchite dalla calura, crocchiavano piano, recati in piccoli mulinelli.
In quei momenti, in cui l’Italia era ancora l’Italia, si era sempre sul punto di scoprire la Verità, come se, indebolito l’inganno di Maia, Essa si concedesse in un lampo: era l’intuizione di un pertugio, d‘un passaggio felice.
Distruzione. Fra i Settanta e gli Ottanta si distrusse questo; e molto altro. Il Tiburtino III, fra gli altri. Basti guardare questa immagine del Tiburtino nel 1969 e confrontarla con l’attuale discarica architettonica lì riedificata, per comprendere, finalmente, la postmodernità.
La crepuscolare bellezza del Tiburtino III. Dal film Plagio (1969) |
Accattone. La magnifica contraddizione di Accattone, il primo film di Pier Paolo Pasolini: passare alla storia come una denuncia delle condizioni di vita del sottoproletariato romano del primo dopoguerra e, invece, essere molto altro (o tutt’altro). Per decenni ci è stato detto che Pasolini portò alla luce la vita miserabile delle borgate per poi, da comunista, auspicare una redenzione attraverso l’attivismo politico e precise rivendicazioni sindacali e sociali. Può darsi che questa fu la sua prima intenzione conscia; ma, sotto la pelle del suo marxismo immaginario, covava ben altro. Mao, Stalin, la Cina è vicina, la semiotica, e va bene; ma ciò ch’egli in fondo desiderava, con tutto il fuoco delle proprie viscere, era l’esatto contrario: la cristallizzazione di quel proletariato, così puro nella sua essenza anticapitalista, il “Fermati, sei bello!”: l’eternità d’esso. La colonna sonora di J. S. Bach, da La Passione secondo San Matteo, ne sanciva addirittura la sacralità. Pasolini arrivò a Roma nei primi mesi del 1950; per lui, nato a Bologna e vissuto in Friuli, la scoperta dei suburbi capitolini rappresentò una vertigine pari a quella provata dalla turista inglese di Passaggio in India. Le distese interminabili della campagna romana, brulle e cespugliose, piatte come un olio, ove l’occhio, liberato dalle costrizioni della città, poteva vagare liberamente e trovare, sepolte da fioretti e porrazzo, gli enigmatici ruderi di una civiltà sopravvissuta ai millenni (acquedotti, altari sbrecciati, chiese diroccate, ponti, casali medioevali) ne colpirono l’immaginazione, da sempre devota alla classicità; e la realtà delle borgate, che in quella campagna fiorivano, improvvise come ciuffi d’erba vetriola, e gravide di solitudine e di genti misteriose, sconvolse la sua visione della storia e della bellezza. Camminare lento lungo le vie rettilinee di Primavalle, perduta a nord di Roma, fra prati dolci e ondulati di papaveri, coi suoi lotti giallini sovrastati da un implacabile cielo cobalto, o far visita, lui intellettuale del Nord, ai poveracci dell’Acquedotto Felice, fu uno shock culturale e il principio di un innamoramento che non avrebbe mai più tradito. La plebe che qui formicolava, poi, era la stessa di Petronio e Belli, brutale, rutilante, festosa e menefreghista; assomigliava, in tal modo, alle plebi di tutto il mondo, dallo Yemen alla Siria, e godeva di regole tutte proprie, di un proprio linguaggio e di una distinta e orgogliosa etica distillata nelle viscere di un tempo immutabile. Accattone fu il tentativo di rappresentazione di queste plebi, ma solo superficialmente si indurì quale denuncia sociale; intimamente, invece, fu la confessione che il sottoproletariato bizzoso di Roma, scansafatiche, arrogante e fatalista, costituiva l’unica poetica sacca di resistenza al nuovo che avanzava, orrendo e volgare. Pasolini, insomma, si sdoppiò: la parte cosciente, marxista, comunista, politica, auspicava il progresso; la parte segreta del suo cuore, misoneista e conservatrice, desiderava ardentemente che quegli uomini e quelle donne rimanessero per sempre nella propria condizione poiché il loro modo di vivere, pur duro e spietato, era l’unica possibilità di preservarsi intatti dalla corruzione della modernità e del consumismo. Nella miseria si trovava annidata la felicità. Per questo fu definito pauperista, esteta, reazionario; per gli stessi motivi la destra antimoderna lo riscoprì negli anni Novanta, quando molotov, P38 e manganelli furono definitivamente seppelliti come asce di guerra. Innumerevoli esempi egli ci lasciò di tale verità, che condensò nella figura del cascherino (il garzone del fornaio), vitale e strafottente, libera come un passeretto, gioiosa senza sapere d’esserlo: un archetipo impersonato, a metà degli anni Settanta, in una pubblicità di crackers (i tempi cambiano!) proprio da Ninetto Davoli. Nel tempo, Pasolini arrivò addirittura a rimpiangere lo stile urbanistico delle borgate, quell’architettura fascista che aveva dapprima mosso la sua ironia, ma di cui aveva poi riconosciuto, sotto la spinta di una ineluttabile maturazione, la forza assieme realistica e metafisica, nonché la profonda empatia. I muri sbrecciati del Pigneto (oggi quartierino mezzo radical-chic e mezzo immondezzaio) che si vedono in Accattone, i cortili assolati, le scalette, persino le case minime, quelle col bagno all’esterno, erano cose fatte e pensate sì per un’umanità bassa, ma un’umanità dall’esistenza piena, normale, pur vissuta nelle difficoltà e nell’abiezione che la miseria si porta appresso. L’Italia, durante il Fascismo (e a dispetto del Fascismo), rimase davvero sempre identica a sé stessa, normale, tradizionale; e le sue case, che ospitavano uomini e donne non ancora corrotti, avevano a rispecchiare tale eterno ritorno dell’eguale, e una innocenza da tutelare contro gli assalti di un futuro odioso e allucinante. La riprova di tale intuizione è sotto gli occhi di tutti: basti confrontare la quieta malinconia dei palazzi littori di Primavalle o del Trullo con la follia psicopatica di Corviale (ideato e realizzato dalle giunte e dagli architetti del PCI); oppure, nello stesso quartiere (l’Eur) confrontare la monumentale razionalità del Colosseo Quadrato, del Palazzo dei Congressi e degli edifici di Largo Agnelli con gli orribili grattacieli in vetrocemento del dopoguerra, antesignani dell’ultimo disastro, estetico ed economico, ordito in loco dal sinistro Fuksas con la sua Nuvola miliardaria. Nel 1961, quando uscì il film, tale rovello interiore non era pienamente manifesto; in pochi anni, tuttavia, divenne evidente, e riconosciuto per tale da Pasolini stesso che ne tacque, tuttavia, le estreme conseguenze storiche e logiche: un’autocensura fatta per pudore o magari in ossequio al quieto vivere borghese, per non urtare la suscettibilità delle amicizie alte, da Alberto Moravia a Italo Calvino a Elsa Morante. Affermare, durante l’ascesa del PCI, che il Partito ormai condivideva gli stessi obiettivi liberali e consumisti della piccola borghesia democristiana e capitalista mondiale l’avrebbe portato alla riprovazione e alla dannazione (che, poi, vi fu, seppur sotterranea); solo nel 1975, a ridosso della morte, egli vuotò il sacco sino in fondo sino a prospettare, di fatto, l’uscita ideologica dal Partito Comunista. Questa contraddizione insanabile, allora scandalosa, è oggi sotto gli occhi di tutti.
Accattone 2. Senza un soldo, con la camicia appicicata alla schiena, i piedi dolenti, il sole che non concede tregua neanche ora, verso le sette, mi siedo sospirando su un muretto. Miserabile, accaldato, incarognito dalla settimana a venire, fondamentalmente senza prospettive, come è giusto che sia in una società che le ha abolite sostituendole con scadenze meschine (la partita! le vacanze!). Non si cambia mai. Capisco ora Accattone e Franco Citti, uomini senza futuro e direzioni; comprendo l’indolenza, le rimostranze vigliacche verso la moglie e l‘amante, le sbruffonate, i sotterfugi, gli abbandoni incomprensibili ai cigli della strada con la testa fra le ginocchia, i sarcasmi improvvisi, persino i gesti di generosità. Basta poco e si torna indietro … senza essere lui, però, che quella plebaglia possedeva una sua vitalità guizzante e senza indugi. Accattone! Cartagine! Bellicapelli!
92 centesimi. Eccomi a Largo Mola di Bari, davanti alla storica Madonnella.
Tiro fuori i novantadue centesimi e li impilo di fronte alla Vergine: cinquanta venti dieci dieci due.
Mo’ sto bene. Riprendo l’auto, guido lungo il Raccordo, dall’uscita 21 sin alla prima.
Il catorcio risucchia le ultime gocce di benzina e riesce a depositarmi all’entrata di casa.
Entro, mi butto sul letto e amen.