UNA GENERAZIONE DI SMEMORATI CREATA DA INSEGNANTI E PEDAGOGISTI

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DI FRANCO CARDINI

Ebbene, sì: parliamo di nuovo di scuola. E, sia chiaro, non m’importa niente se queste righe saranno prese per un elogio di Madame Moratti o per un attacco alla sua riforma. Il discorso è più ampio: e, ohimè, ben più drammatico.
Una confessione, anzitutto. Dopo oltre un quarantennio di onorato servizio nell’insegnamento pubblico, di cui ben trentasette anni passati nell’Università, mi trovo a non esser più in grado di fare il mio lavoro di professore di storia: e non, che io sappia, per un principio di Alzheimer, quod Deus avertat.
No. Per un altro, semplicissimo motivo. Insegno storia medievale a ragazzi di età oscillante fra i 19 e i 23 anni circa. Per lungo tempo, quando all’inizio di ogni anno accademico mi sono trovato dinanzi delle «matricole», dei ragazzini del primo anno, ho sempre saputo come parlar loro. Venivano dal Liceo Classico, avevano sulle loro care spallucce otto anni di latino, cinque di greco, tutta la Divina Commedia letta e commentata verso per verso, con ampi passi a memoria. Era facile far lezione a studenti così.
Sono poi giunti gli anni della contestazione e della liberalizzazione. Alla Facoltà di Lettere accedevano anche ragazzi da scuole diverse dal Classico. Ma, anche allora, mi barcamenavo bene: erano in genere motivati, interessati, pieni di buona volontà.
Da alcuni anni a questa parte, tutto è cambiato. Prima di tutto perché ormai a Lettere vengono sempre meno studenti interessati e motivati e sempre più studenti che non sanno né che pesci prendere né che cosa fare e che hanno scelto tale Facoltà ritenendola meno impegnativa di altre; ragazzi che poco si curano anche delle future prospettive di lavoro e che spesso sono apatici e demotivati. E poi perché la loro preparazione specificamente storica non solo è quasi sempre scarsa e di cattiva qualità, ma è soprattutto molto superficiale e generica. Prima, sapevo di poter tranquillamente usare anche parlando a principianti parole come «papato», «impero», «feudi», «comuni», «signorie», «diritto», «stato», «diocesi», «monasteri», «leggi», «tasse», «insediamenti», «stanziamenti» e così via. Ora, mi trovo dinanzi a ragazzi che in genere sono praticamente incapaci di definire tali concetti; e che spesso non riescono nemmeno a spiegarne alla buona il significato a utilizzarli correttamente in un discorso. Date queste condizioni, la lezione universitaria è nel primo anno – e in realtà nel triennio propedeutico – diventata un esercizio impraticabile. Non parliamo di critica o di ricerca.

Di chi la colpa? Non certo dei ragazzi. Inutile cercar di ripartirla, più o meno impressionisticamente, tra scuola, famiglie, politici, sociologi, pedagogisti e chi altro vogliate.
Il fatto è comunque che, come si dice a Napoli, ‘o pesce fète d’a’capa. E la testa del nostro pesce è probabilmente la dissennata lotta che, negli Anni sessanta-Settanta, è stata condotta da insegnanti, pedagogisti e famiglie d’orientamento «progressista», tutti in illustre combutta, contro il cosiddetto nozionismo. Ricordo che Delio Cantimori, scomparso nel 1966, era stato invitato una volta a redigere un manuale scolastico di storia: si rifiutò di farlo, sostenenedo che avrebbe dovuto essere un libro rigorosamente e duramente nozionistico, tutto nomi fatti definizioni e date, e che senza dubbio i colleghi lo avrebbero accusato di essere per questo un ottuso reazionario. Ma i risultati del fatto che per lunghi anni dai manuali (e dall’insegnamento pratico) mancassero nomi fatti definizioni e date, più tardi s’è sentito eccome.

Del resto, tutto era cominciato con i bambini delle elementari. Il cervello è un computer fisiologico: e come tutti i computer va usato e tenuto in carica. Il deprecato esercizio dell’imparare a memoria, ad esempio, era una preziosa disciplina mnemotecnica, così come quelli consistenti nel star seduti composti sul banchino e nel far «il gioco del silenzio» insegnavano il controllo e la piena padronanza del proprio corpo. Anni d’insegnamento «intelligente» senza T’amo pio bove da imparar a memoria e senza rudimenti di autodisciplina, ci hanno portati a questo: a ragazzi schiavi della propria smemoratezza, della propria pigrizia, della propria mancanza di autocontrollo. La disciplina fu intesa, da quegli insegnanti democratici e da quei saggi pedagogisti, come pura e semplice repressione: il fatto che essa fosse la necessaria anticamera dell’autocontrollo, a sua volta poi fattore primario e fondamento indispensabile di libertà, non li toccava. Conosciamo le dirette conseguenze di questa lungimirante metodologia. Tutto è cominciato da qui: anche la droga, anche le morti del sabato sera.

Franco Cardini
Fonte:www.iltempo.it
10 novembre 2004

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