DI FRANCO CARDINI
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Decisamente, la “distrazione” degli italiani a proposito della tragedia delle foibe è colpevole e indecorosa. Siamo all’ennesima riprova che, centocinquant’anni dopo l’unità, la nostra coscienza identitaria nazionale è poco più che all’Anno Zero. Il punto è pero questo: che fare? Sensibilizzare meglio l’opinione pubblica, a cominciare dai giovani? Vincere le residue e implicite reticenze di quanti (tantissimi) in passato hanno a lungo proclamato e sostenuto che il solo richiamare quella memoria era “propaganda fascista”? Organizzare magari delle gite scolastiche in Carso, così come abitualmente molti istituti fanno per i campi di sterminio nazisti?
Ecco, partiamo da qui: giornata della memoria sulla shoah, giornata del ricordo sulle foibe. Abbiamo accettato tranquillamente questa sorta di doppia celebrazione: e molti di noi mostrano, per quanto non lo dicano a chiare lettere, d’intendere questa scelta come qualcosa di bipartisan.Fino a poco tempo fa si sarebbe detto che ricordare la shoah soddisfaceva di più la sinistra, onorare le vittime delle foibe faceva più piacere alla destra. Ma oggi questi contorni politici, un tempo almeno in apparenza così chiari, si sono andati complicando e confondendo. Io credo che i cittadini di buoni sentimenti e di buona volontà vorrebbero in effetti che entrambi gli eventi fossero altrettanto presenti nella memoria e nella coscienza di tutti, pur essendo qualcosa di molto diverso tra loro
Ma proviamo ad andar oltre: ciascuno di noi guardi bene dentro la propria coscienza, fino a quegli angoletti sordidi e bui nei quali di solito si annidano i sentimenti dei quali noi stessi abbiamo paura e vergogna. Dimenticare è colpevole e vergognoso: ma siamo davvero del tutto in buona fede, quando ricordiamo? Dovremmo aver il coraggio di spingerci oltre: e di renderci ben conto che anche il ricordare può essere un dimenticare.
Il mondo è grande, il flusso della storia è immenso: abbiamo il sacrosanto diritto di aver a cuore anzitutto e soprattutto “i nostri”, la nostra famiglia, il nostro prossimo. Ma, dal momento che tale diritto ce l’abbiamo tutti, non dobbiamo né possiamo ormai trascurare nemmeno quello, sacrosanto, degli altri. Di tutti gli altri. Tale era del resto il senso originario della giornata della memoria del 27 gennaio, quando ne fu proposta l’istituzione; era il medesimo senso nel quale si erano mossi i giudici di Norimberga. Ricordare affinché queste cose non accadessero mai più a nessuno. A nessuno: non solo agli ebrei o ai giuliano-dalmati. Questo senso originario si è andato perdendo. Si è discettato e ci siamo accapigliati sulla “unicità” della shoah. Ci siamo dati all’odioso espediente della computisteria funebre, domandandoci chi avesse ammazzato più gente in senso assoluto o in proporzione all’ambiente e al momento in cui aveva agito: Hitler? Stalin? Pol Pot? I conquistadores? Genghiz Khan? I colonialisti europei in Asia e in Africa?
Ho guardato tutto il giorno la televisione, il 27 gennaio scorso. Vi assicuro che tutte le reti e tutti i canali hanno quasi ininterrottamente parlato della shoah. E’ un bene: non ne parleremo e non ce ne vergogneremo mai abbastanza. Ma guai e arciguai se anche per un istante solo pensassimo che la shoah serva a giustificare o a nascondere i poveri morti dei campi di Sabra e di Chatila o gli oltre mille palestinesi falcidiati a Gaza due anni fa nell’operazione che gli israeliani denominarono “piombo fuso”. Guai e arciguai se solo per un momento cedessimo alla tentazione di ritenere che la memoria delle foibe serva a nascondere le violenze e le infamie delle quali gli “italiani-brava-gente” e i loro alleati tedeschi e ustascia si resero responsabili tra ’40 e ’45 in Slovenia e Croazia.
Siamo tutti – nessuno escluso – corresponsabili dell’immenso dolore del mondo: e ciascuno di noi deve accollarsene la sua parte di colpa, compresi i silenzi, le dimenticanze, le viltà. Ciascuno di noi dovrebbe ormai imparare non tanto e non solo a elaborare il lutto dei torti subiti, ma anche a fare un pieno e completo esame di coscienza di quelli fatti subire agli altri. Nel marzo del 2000, papa Giovanni Paolo II ci dette una splendida lezione, con il documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato. Dissero ch’era l’ora che i cattolici ammettessero i delitti commessi. Ma quel documento era ben altro; era un esempio e un ammonimento. Tutti i popoli dovrebbero metterlo in pratica per quel che riguarda ciascuno di essi. Senza aspettare dagli altri il primo passo. Perché – come s’insegna o si dovrebbe insegnare ai bambini – quando si pretendono delle scuse dagli altri, bisogna cominciar a presentare le nostre per primi. Visto che ricorre il 150° dell’unità, diciamolo con chiarezza: quando noialtri italiani avremo fatto debita e onorevole ammenda dei “briganti” meridionali massacrati, dei libici fatti a pezzi nel 1911-12, degli obbrobri della conquista dell’Etiopia del 1935-36 (rileggete Canale Mussolini del “fasciocomunista” Pennacchi per rinfrescarvi la memoria) e delle carognate seminate a piene mani dai Balcani all’Albania alla Grecia durante la seconda guerra mondiale, allora potremo chiedere gli altri di fare altrettanto. E vedrete che risate, quando toccherà agli inglesi, ai francesi, agli americani, ai piccoli gloriosi popoli olandesi e al loro opulento passato coloniale. Pensate che esageri? Date un’occhiata alle oltre settecento documentatissime pagine dell’ Encyclopedia of genocide messo insieme da Israel W. Charny, Direttore generale dell’Istituto dell’Olocausto di Gerusalemme (edizione statunitense nel 1999; quella francese, della Privat di Tolosa, è del 2001; purtroppo ne manca una italiana) e a Le livre noir du colonialisme di Marc Ferro (Hachette 2003): poi ne riparliamo.
Del resto, basterebbe cominciare a essere una buona volta sul serio dei buoni europei. Ha senso che in Alto Adige/Sudtirol si continui ancora a litigare dopo oltre mezzo secolo di convivenza? Ha un senso, dopo tanti anni di comune cittadinanza europea, che ciascun paese continui a celebrare le sue gloriuzze conseguite in guerre fratricide tra europei? Non sarebbe bello, almeno da qui, cominciar a impiantare sul serio uno spirito di concordia europea?
Napoleone agì in modo esemplare a Parigi, cancellando l’infausto nome di Place de la Revolution attribuito alla piazza dove per troppi anni aveva lavorato la ghigliottina e sostituendolo con lo splendido nome di Place de la Concorde. E io, vecchio impenitente europeista, ho un sogno: che tutti i paesi d’Europa cancellino le loro piazze dedicate “alla vittoria”, ch’è sempre e comunque una vittoria contro compatrioti europei in guerre fratricide come quelle combattute dalla riforma del Cinquecento fino al 1945, e lo sostituiscano con la dedicazione “alla concordia europea”; in attesa di diventar tanto saggi da riuscir sul serio a celebrare la concordia umana e mondiale.
Franco Cardini
Fonte: www.francocardini.net
11.02.2011