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Putin parla spesso dell’eroica resistenza dell’Armata Rossa di fronte all’invasione nazista della Seconda Guerra Mondiale, e nella sua rievocazione al posto d’onore mette regolarmente la battaglia di Stalingrado. Nell’evocarla Putin non fa neppure i nomi dei comandanti Sovietici e Tedeschi contrapposti, ma sottolinea continuamente l’eroismo e le privazioni dei combattenti, la loro ferrea volontà di non cedere, e come la città sia rinata dal dopoguerra. Non fa nomi Putin perché quello che principalmente gli interessa è far leva sul patriottismo, sentimento che tiene uniti tutti i russi, e nel ricordo di uomini e donne che lottarono per la propria sopravvivenza e quella della patria nessuno scontro esemplifica tale valore meglio di Stalingrado.
La battaglia, che occupa quindi la posizione preminente nella narrativa politica di Putin, ebbe formalmente inizio il 17 Luglio del 1942, quando la VI Armata tedesca guidata dal generale Friedrich Paulus si scontrò con le forze Sovietiche provenienti dalle riserve strategiche della Stavka, l’Alto Comando Sovietico, che erano state raggruppate per sbarrare l’avanzata alle truppe dell’Asse nella grande ansa del Don.
Il 21 Agosto seguente la VI Armata, dopo aver conquistato alcune teste di ponte ad est del fiume, inviava le sue colonne corazzate in direzione del Volga a nord di Stalingrado, città e capoluogo della regione omonima. L’avanzata su Stalingrado rientrava nell’Operazione Blu – Fall Blau – con cui i Tedeschi intendevano spingersi alla conquista dei campi petroliferi del Caucaso, vitali per lo sforzo bellico dell’Asse in Europa, e distruggere la maggior parte delle armate sovietiche rimaste. Le forze tedesche del Gruppo d’Armate Sud avevano ributtato i Russi indietro di quasi 400 chilometri dal punto di partenza dell’offensiva sul fiume Oskol iniziata due mesi prima. Le 22 divisioni della VI Armata, molte delle quali formate da soldati veterani dell’Operazione Barbarossa del ‘41, si apprestavano ora a sferrare l’assalto finale contro la 62° Armata Sovietica di Vasilij Ivanovič Čujkov, asserragliata nella città in gran parte ridotta in macerie dai bombardamenti. Le armate di Hitler avevano conseguito un enorme successo sulla mappa, ancora inconsapevoli che il territorio che occupavano a quasi tremila chilometri da Berlino avrebbe segnato il limite massimo di espansione del Terzo Reich.
Dopo aver subito pesanti perdite nel saliente di Barvenkovo e temendo di venire accerchiati dalla rapida avanzata nemica, i comandanti sovietici decisero di far arretrare il grosso delle proprie forze per riorganizzare una linea di difesa più a est. Si trattava di una ritirata strategica, in quanto le truppe in ripiegamento erano in gran parte ancor intatte, ma Hitler, credendo la mossa indice del fatto che l’avversario fosse prossimo al collasso, cambiò gli ordini dell’Operazione Blu, intimando ai suoi generali di spingersi simultaneamente su Stalingrado e sul Caucaso distruggendo le concentrazioni di forze nemiche lungo la loro avanzata. Inizialmente il piano tedesco prevedeva che tali manovre fossero svolte in sequenza dall’intero Gruppo d’Armate Sud, e non contemporaneamente. Per raggiungere i nuovi obiettivi, che richiedevano sforzi ulteriori, il Gruppo d’Armate Sud fu quindi diviso in due tronconi: il Gruppo d’Armate A che doveva prendere il Caucaso e il Gruppo d’Armate B, di cui faceva parte la VI Armata di Paulus, a cui fu dato ordine di conquistare Stalingrado e strappare ai Russi il controllo del corso del Volga.
Come conseguenza di tale variazione, l’offensiva dei panzer verso il Caucaso verrà rallentata e alcune unità corazzate furono fatte affluire verso Stalingrado a sostegno della VI Armata. Seppur controllasse il traffico fluviale nella zona e fungesse da punto di accesso agli Urali, Stalingrado non aveva di per sé valenza strategica proprio perché al di fuori delle linee principali dell’avanzata tedesca verso i campi petroliferi. Come disse von Kleist, comandante della I Armata Panzer inviata in Caucaso, all’inizio dell’Operazione Blu “per noi Stalingrado non era niente di più che un nome su una mappa”. Tuttavia Hitler decise di prenderla motivato anche dal fatto che la città portava il nome del proprio avversario e Paulus ubbidì.
Ufficiale di carriera facente parte dello stato maggiore dell’esercito, il cinquantunenne Paulus raramente era stato chiamato a dirigere e non era incline a prendere iniziative. La sua limitata esperienza sul campo lo aveva comunque visto misurarsi con la realtà della guerra nei Balcani e in Francia – dove combatté a Verdun – durante il primo conflitto mondiale, che terminò con il grado di capitano. Negli anni si era rivelato un amministratore capace ed esperto di logistica, e grazie a tali doti divenne generale delle truppe corazzate e comandante della VI Armata a partire dalla fine del 1941. Gli uomini al suo comando erano soldati esperti e disciplinati che possedevano armi all’avanguardia e, seppur nel 1942 avessero visto la guerra in Russia trasformarsi in un conflitto logorante, avevano ancora fiducia nella vittoria finale della Germania. Forze come la VI Armata avevano un morale alto e un forte spirito combattivo, tratti rafforzati anche dalle strabilianti vittorie ottenute nel 1941 durante l’invasione dell’URSS. Il Gruppo di Armate B aveva una forza effettiva di 250.000 uomini, 750 carri armati, 1.200 aerei e 7.900 tra cannoni e mortai. A fronteggiarli vi erano 187.000 soldati sovietici organizzati in tre corpi d’armata – 57°, 62° e 64° – con 360 carri, 337 aerei e 7.500 cannoni e mortai. I Tedeschi avevano quindi un moderato vantaggio in termini numerici ed una sostanziale superiorità di carri armati ed aerei. Questi fattori andavano però a ridursi considerando che i Russi erano avvantaggiati da un terreno che conoscevano, pieno di ostacoli, e da linee di rifornimento e comunicazione assai più brevi di quelle dell’avversario. Furono i 54.000 uomini della 62° armata che si troveranno a difendere la città dall’attacco tedesco.
La battaglia per la presa di Stalingrado iniziò il 23 Agosto con un pesantissimo bombardamento della Luftwaffe finalizzato a radere a zero la città e con essa le difese sovietiche. Oltre 2.000 raid saranno condotti dall’aviazione tedesca, ed il giorno dopo la città era in rovina. Contemporaneamente Paulus, consapevole che l’agglomerato urbano era troppo esteso per essere completamente circondato, ordinò di attaccare frontalmente il nemico in settori separati, che una volta conquistati potevano essere tenuti autonomamente. Inizialmente la preponderanza di mezzi e truppe dei Tedeschi, che conducevano i propri attacchi con estrema determinazione, si fece avvertire. Le difese russe furono sfondate e la 62° armata fu più volte minacciata di accerchiamento, per evitare il quale Čujkov dovette organizzare una nuova linea difensiva. Quando poi anche questa divenne indifendibile, fu costretto a ritirarsi sempre più all’interno della città in rovina. Era il 12 Settembre e mentre l’avanzata tedesca continuava il suo slancio andava rallentando per tre ragioni principali. Innanzitutto nel tentativo estremo di contenere i Tedeschi, le truppe di Čujkov e gruppi di abitanti di Stalingrado sferravano continui contrattacchi contro le unità avanzanti. Inoltre i Russi, mentre venivano respinti verso il fiume con sempre meno terreno alle proprie spalle, organizzavano perimetri difensivi più ridotti dai quali riuscivano però a rispondere più rapidamente agli assalti del nemico. Infine i bombardamenti della Luftwaffe finirono paradossalmente per accrescere i vantaggi dei difensori. I cumuli di macerie creavano blocchi che i panzer dovevano aggirare e fra i quali i Russi potevano nascondersi con sforzi minimi per poi tendere agguati ai carri e alla fanteria. I veicoli corazzati tedeschi, impiegati fino ad allora con successo in manovre d’accerchiamento, potevano avanzare in piccole unità tra le rovine, dove le limitazioni dei movimenti e del campo visivo li rendevano facili bersagli. A Stalingrado mutò quindi in modo improvviso il volto della guerra, ed i teorici del blitzkrieg si trovarono a dover affrontare una realtà nuova, dove lo slancio e la potenza dei gruppi corazzati, che fino a quel momento erano stati la punta di diamante delle loro offensive, finirono con l’essere annullati da una difesa improvvisata quanto efficace che i Russi mai avevano sperimentato in precedenza nel combattimento urbano.
Di fronte a tale scenario i comandanti della VI Armata avrebbero dovuto adattarsi e cambiare tattica evitando attacchi frontali in scontri che ottenevano discutibili vantaggi a fronte dei costi subiti. Ma sotto pressione per ubbidire agli ordini di Hitler, Paulus si limitò ad applicare i principi dello sfondamento coi corazzati al combattimento urbano, impiegando i tank per attacchi massicci in un contesto nel quale “si rivelarono totalmente inadatti”, come evidenziato da McTaggart nella sua analisi della battaglia. Logica avrebbe voluto che, vista la difficoltà di avanzare nella città, le sacche di resistenza nemiche venissero aggirate, separate, e l’attacco portato ai fianchi e contro la linea del fiume, così da poter isolare definitivamente i difensori della città dalle proprie basi di rifornimento e causarne la caduta. Nel condurre l’offensiva Paulus rimase ligio agli ordini ricevuti e, senza capire la necessità di mutare approccio al combattimento, si impegnò a fondo in attacchi sistematici che causavano gravi perdite di uomini e materiali in cambio di conquiste minime. Come fece osservare un corrispondente di guerra, i Tedeschi avevano conquistato la Polonia in 28 giorni, ma in 28 giorni di combattimenti a Stalingrado conquistarono solo “poche case”.
Il 14 Ottobre Paulus utilizzò cinque divisioni in un attacco generale per espugnare le parti controllate ancora dai resti della 62° Armata sovietica, mentre su Stalingrado furono lanciati 3.000 attacchi aerei. Nelle parole di un ufficiale della 62° il combattimento assunse “proporzioni mostruose, oltre qualsiasi possibilità di descrizione”. L’assalto, condotto ostinatamente, ebbe quasi successo; il fronte della 62° Armata fu spezzato ed i difensori, respinti verso il Volga, furono chiusi in diverse sacche isolate fra loro, ma l’Armata Rossa non cedette, e rimase attaccata alla periferia orientale della città e alle rive del fiume. Esaurito lo slancio e le riserve, tre giorni dopo Paulus dovette far terminare l’attacco a causa delle pesanti perdite subite. A quel punto i Tedeschi arrivarono a controllare il 90% dell’agglomerato urbano dopo aver annientato i tre quarti della 62° Armata, e questo segnerà il culmine della loro espansione a Stalingrado. Seppur padroni di gran parte della sponda ovest, non riusciranno mai ad ottenere il controllo dei punti di collegamento sul Volga e la riva orientale rimarrà saldamente in mano ai Sovietici. Già alla metà di Settembre e ancora di più dopo il 17 Ottobre, quando Paulus ordinò di cessare il massiccio attacco, doveva essere evidente a tutti che i Russi, che il Luglio precedente si erano ritirati di fronte all’avanzata tedesca e che ora resistevano tenacemente a Stalingrado, erano ben lontani dall’essere sconfitti, e che non sarebbe stato sufficiente scacciarli dalla città in rovina per averne ragione.
I combattimenti rimarranno aspri, casa per casa, in uno stillicidio quotidiano fatto di imboscate e contrattacchi che costerà alle truppe del Reich decine di migliaia di vite. Particolarmente alto sarà il prezzo pagato dagli ufficiali, che cadranno falcidiati dai cecchini, privando la Wermacht di un’intera generazione di leader con esperienza di combattimento. Fra coloro che sicuramente non comprendevano il dramma che si stava consumando a Stalingrado e il rischio che le truppe germaniche stavano correndo vi era Adolf Hitler. Era l’8 Novembre, tre settimane dalla conclusione del grande attacco sferrato da Paulus e che la VI Armata non era più in grado di replicare, quando Hitler annunciava esultante di voler prendere Stalingrado e di come la sua intenzione fosse tutto sommato di portata modesta “perché in realtà ce l’abbiamo già fatta!”. A questo punto il Führer aveva completamente perso di vista gli obiettivi di importanza strategica – i campi petroliferi – dell’offensiva originaria e continuava ad imporre alla Wermacht una battaglia dai costi imprevedibili, e questo solo per assecondare una sua mira personale, strategicamente inutile e pericolosa.
Ancora prima dell’arrivo della VI Armata sul Volga la Stavka aveva deciso di impiegare la 62° Armata come esca per attirare i Tedeschi in quella regione, circondarli poi con manovre aggiranti, e, dopo averli isolati, distruggerli. L’idea era quella di fare in modo che essi avanzassero allargando il fronte oltre le proprie capacità, esponendo le proprie formazioni al contrattacco sovietico. Su tali presupposti il piano, in buona parte congegnato dal Maresciallo Georgy Konstantinovich Zhukov, aveva previsto l’ammassamento di grandi forze a ridosso della linea del Volga, pronte ad irrompere nelle difese tedesche e a tagliar fuori le truppe presenti nell’area di Stalingrado al momento opportuno. La 62°, insieme con la 51°, 57° e 64° Armata, venne consolidata, mentre la 24°, 65°, e 66° schierate sul fronte a nord della città furono rinforzate. Analogamente la Stavka concentrò due armate di riserva, la 21° e la 5° Armata Corazzata, nell’area a sud della città. Così, mentre gli uomini di Čujkov resistevano ad oltranza, i Russi andavano ammassando nuove forze ed armamenti per un poderoso contrattacco contro il nemico. Contemporaneamente la Stavka lanciò una vasta operazione di depistaggio facendo credere che le truppe stazionate nella zona nord dovessero essere inviate a sostegno del fronte di Mosca. Quando i preparativi furono completati l’Armata Rossa era pronta con oltre un milione di uomini, circa 900 carri armati, 13.500 cannoni e mortai e 1.100 aerei. Anche le forze dell’Asse lungo il fronte del Don ammontavano ad oltre un milione di effettivi, con 675 tank operativi, 10.000 cannoni e mortai e 1.200 aerei. Ma se sulla carta i due contendenti si equivalevano, i Sovietici, che avevano avuto il vantaggio della difesa durante l’attacco contro Stalingrado, ora dalla loro, oltre a più numerosi carri e cannoni, potevano impiegare intere divisioni di truppe fresche, e non provate da mesi di combattimenti e privazioni come i loro avversari che stavano per essere investiti lungo l’intero fronte da una poderosa offensiva. Questa si concretizzò il 19 Novembre quando l’Armata Rossa fece scattare l’Operazione Urano, in cui 9 armate sovietiche – 6 a nord e 3 a sud della città – attaccarono simultaneamente spazzando via la III e IV Armata rumena che proteggevano i fianchi delle forze di Paulus. In precedenza, dopo la divisione del Gruppo d’Armate Sud, diversi comandanti avevano espresso perplessità sulla vulnerabilità del fronte settentrionale in caso di contrattacco sovietico. Von Seydlitz, subalterno di Paulus, aveva a più riprese invitato quest’ultimo affinché rafforzasse quel settore e vi tenesse due divisioni panzer di riserva per respingere i Sovietici se questi avessero sfondato. Paulus non si curò di tali osservazioni, accettando l’idea di Hitler che vedeva i Russi ormai sconfitti ed incapaci di coordinare un attacco su vasta scala. Ora non vi erano quindi unità che potessero contrastare l’avanzata delle formazioni sovietiche che, penetrate in profondità nelle linee tedesche, si riunirono 4 giorni dopo a Kalach ad ovest di Stalingrado. Da quel momento i Russi continuarono a consolidare le proprie posizioni ed intrappolarono il grosso della VI Armata in una sacca, che nel punto di estensione massima misurava 130 chilometri.
Paulus, che inizialmente non poteva avere una chiara visione di quanto era accaduto, reagì lentamente. Tre giorni dopo l’inizio dell’offensiva nemica tenne un incontro con i suoi comandanti in cui quasi tutti si pronunciarono a favore dell’abbandono di Stalingrado e proposero tale iniziativa agli altri comandi del Gruppo d’Armate B. Prima della risposta giunse l’ordine da Berlino di mantenere le posizioni. Mentre i Russi tagliavano le linee di rifornimento della VI Armata, Paulus il 23 Novembre richiese nuovamente l’autorizzazione di ritirarsi affermando che in caso contrario le sue truppe avrebbero rischiato “la totale distruzione nell’immediato futuro”. A tale richiesta Hitler rispose con un ordine supremo intimandogli di difendere la Festung Stalingrad – la Fortezza Stalingrado – e che la VI Armata sarebbe stata rifornita da un ponte aereo. Da Berlino Göering promise che la Luftwaffe avrebbe inviato costantemente agli assediati armi, cibo e carburante, ma in realtà l’aviazione riuscì a consegnare meno della metà delle 300 tonnellate giornaliere di materiale necessario per garantire la piena operatività degli uomini e delle unità di Paulus e, dopo che i Russi si impadronirono degli aeroporti intorno alla città, i rifornimenti cessarono del tutto.
Il 12 Dicembre, poco meno di tre settimane da quando il cerchio si era chiuso attorno alla VI Armata, la Wermacht compì un tentativo per soccorrere le truppe intrappolate nella sacca e rompere l’assedio. Sotto il comando di Erich von Manstein, tre divisioni panzer, una divisione di fanteria e tre divisioni da campo della Luftwaffe, tutte provenienti dal Caucaso e dall’Orel più una dalla Francia, si unirono con la 4° Armata Panzer. Le forze schieravano sul campo 230 veicoli corazzati da impiegare nell’Operazione Wintergewitter, Tempesta d’Inverno, nella quale von Manstein affidò l’avanzata alle divisioni panzer del generale Hoth, le cui unità si aprirono un varco nelle difese russe. Dopo cinque giorni di aspri combattimenti fra le valli dei fiumi Askay e Myshkova i carri tigre del gruppo d’assalto del maggiore Hauschildt si assicurarono un testa di ponte di tre chilometri nei pressi della città di Gromoslavka, sul fiume Myshkova a soli 48 chilometri dalle linee tedesche a Stalingrado. Dalla città assediata i soldati tedeschi potevano sentire i cannoneggiamenti dei rinforzi in avvicinamento e sebbene ormai fossero ridotti ad abbattere i cavalli da traino per cibarsene e a corto di munizioni, il loro morale era ancora alto. A quel punto impossibilitati ad avanzare oltre senza rischiare l’accerchiamento, le truppe di Hoth resistevano nella speranza che la VI Armata lasciasse la sacca di Stalingrado per riunirsi a loro. Il 19 Dicembre il maggiore Eismann, capo del servizio informazioni del comando di von Manstein, riuscì a raggiungere la VI Armata e diede a Paulus un’accurata descrizione della situazione strategica del fronte del Volga. Paulus inizialmente concordò con Eismann che la soluzione migliore sarebbe stata tentare di sganciarsi al più presto, ma poi, dopo che il suo vice, il maggior generale Schmidt, fece osservare che la VI Armata, ridotta a 70 veicoli operativi, non aveva né la forza né il carburante sufficiente per ricongiungersi con Hoth, decise di restare fermo sulle proprie posizioni. La manovra di sganciamento venne bollata come una “soluzione catastrofica” e Paulus ribadì che, stante la scarsità di rifornimenti e le condizioni delle sue unità che non gli permettevano di muoversi, era suo dovere rimanere a Stalingrado ubbidendo agli ordini di Hitler. Il 22, sotto l’intensificarsi dei contrattacchi russi, che avevano anche respinto dal fronte del Don reparti Italiani dell’8ª Armata, von Manstein ordinò di abbandonare la linea del Myshkova e di ritirarsi per evitare di essere a sua volta circondato. I registri della VI Armata mostreranno effettivamente che nel momento in cui Eismann portava a Paulus l’invito di von Manstein di abbandonare Stalingrado, gli assediati avevano a disposizione carburante per coprire solo 30 chilometri, cosa che non gli avrebbe permesso di percorrere gli ultimi 18 chilometri e riunirsi alle truppe di Hoth. Tuttavia questo punto è rimasto controverso alla luce di un aspetto specifico legato ai combattimenti sul fronte orientale, dove le necessità dettate da una guerra di logoramento avevano causato un continuo trasferimento di mezzi e uomini da unità intatte verso quelle che più avevano bisogno di integrare i propri ranghi e scorte. Questo aveva de facto portato al consolidarsi di una pratica che vedeva gli ufficiali addetti al rifornimento a livello di compagnia, battaglione, reggimento e divisione, ridimensionare nei rapporti la disponibilità di carburante e di rifornimenti in generale proprio per non vederseli sottrarre. E’ quindi probabile che la differenza fra le stime riportate e le reali risorse di carburante fosse sostanziale e che Paulus avesse nafta sufficiente per far muovere i propri carri e ricongiungersi con le truppe che tenevano il fronte sul fiume Myshkova evitando il crollo totale.
La ritirata da Stalingrado di 200.000 uomini sarebbe comunque stata una manovra complessa, sia perché dalla città i Russi non avrebbero lasciato facilmente la presa, sia perché i Tedeschi avrebbero dovuto aprirsi la strada combattendo con un avversario che avrebbe portato attacchi da multiple direzioni. L’operatività ridotta dei mezzi e la necessità di coordinare un rapido ripiegamento di gruppi da combattimento di decine di migliaia di uomini, sparsi in una vasta area attraverso la steppa in pieno inverno ed ostacolati dal nemico, non davano alla manovra grandi garanzie di successo. Fermo restando la pesante situazione della VI Armata a Stalingrado, nel rifiutare di sganciarsi effettuando un’operazione di difficile riuscita, Paulus dimostrò una carenza di coraggio morale il cui possesso è una delle caratteristiche principali, se non la principale in assoluto, fra quelle che deve possedere chi detiene il comando supremo di truppe in battaglia. Paulus, più volte incerto sul da farsi, avrebbe potuto – e dovuto – terminare l’assedio da tempo e tentare di rompere l’accerchiamento ricongiungendo la sua VI Armata o parte di essa al resto delle forze dell’Asse, ma non si mosse. Le sue alternative nel tardo Dicembre 1942 erano rimanere a Stalingrado decretando la disfatta di tutte le sue truppe, condannandole alla morte e alla prigionia nel migliore dei casi, o tentare di salvare almeno una parte degli uomini sotto il suo comando, con una mossa che, per quanto disperata, non era votata al fallimento certo. Scelse la prima adducendo a sua giustificazione lo scarso carburante e l’ubbidienza ad ordini che si erano già dimostrati fallimentari. L’indecisione iniziale combinata con la sua passività fu l’atto finale di una lunga serie di errori strategici e tattici – dal mutare gli obiettivi cruciali dell’Operazione Blu all’impegnarsi in una guerra d’attrito dai costi crescenti per conquistare un luogo senza alcuna importanza strategica, al non cambiare tattica nel fronteggiare un nemico tenacemente ancorato alle proprie difese, considerato inferiore per pregiudizi ideologici e la cui capacità di resilienza fu scioccamente sottovalutata – commessi da vari protagonisti, in primis Hitler e Paulus come diretto esecutore dei suoi ordini, che determinò la disfatta tedesca a Stalingrado. Dopo il ripiegamento delle colonne di rinforzo dal Myshkova il comando tedesco capì che non era più possibile soccorrere la VI Armata, definitivamente condannata.
Quella che fu combattuta nei due mesi che intercorsero fra la presa di Kalach e la fine di Gennaio del ’43 fu un escalation della Rattenkrieg, la “guerra dei topi” che Russi e Tedeschi ingaggiarono nelle cantine, nelle gallerie delle fogne e fra le macerie onnipresenti della città distrutta, mentre attorno a Stalingrado le difese tedesche, sempre più a corto di rifornimenti, andavano restringendosi sotto la morsa dell’avversario, in un confronto che gli uomini di Paulus alla lunga non potevano vincere. Gli attacchi continui, il bombardamento dell’artiglieria e i rigori dell’inverno russo avevano già iniziato ad intaccare la coesione della VI Armata prima che venisse accerchiata, e la situazione si acuirà dopo che a fine Dicembre le speranze di sottrarsi all’assedio si infransero definitivamente. Alla fine il venir meno dei rifornimenti costringerà i Tedeschi alla capitolazione per fame. Il 10 Gennaio i Russi sferrarono un assalto generale che gli assediati non riuscirono a contenere. Le difese di Stalingrado vennero spezzate in due tronconi. Sarà un esercito di 91.000 spettri, emaciati, malati e malnutriti, quello che il 2 Febbraio 1943 si arrese definitivamente ai Sovietici, che il 31 Gennaio avevano schiacciato la resistenza tedesca nel settore meridionale della città e ricevuto la proposta di resa di Schmidt in quel che rimaneva dei Grandi Magazzini, ora sede del comando tedesco. Il 22 Gennaio Paulus aveva chiesto ad Hitler il permesso di arrendersi e gli era stato rifiutato. Il 30 il Fuhrer gli conferì il grado di Feldmaresciallo, insistendo che la VI Armata avrebbe dovuto resistere “fino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia”. Paulus invece capitolò commentando che non aveva “alcuna intenzione di suicidarsi”. Dopo aver accettato per mesi ordini insensati, si rifiutò di ubbidire all’ultimo, quando ormai non poteva fare nessuna differenza. Di quei 91.000 uomini, fatti marciare con poco cibo a temperature di 30° sotto zero verso i gulag, meno di 5.000 torneranno in Germania dopo la fine della guerra. In 11.000 si rifiuteranno di deporre le armi e continueranno a combattere in cantine e fogne, tagliati fuori dai propri comandi, fino al Marzo del ’43, convinti che fosse preferibile la morte ad un campo di prigionia russo.
Il costo in perdite umane causate dagli scontri che ebbero come fulcro Stalingrado – intendendo sia quelle sostenute nella città che nella regione circostante – fu devastante. Nel periodo incluso tra il 23 Agosto 1942 e il 2 Febbraio 1943, quando la battaglia per Stalingrado si concluse, l’Asse ebbe più di 500.000 tra morti, feriti e prigionieri. Enormi quantità di materiali andarono distrutte. Le forze tedesche persero circa 3.500 fra carri armati e semoventi, 12.000 cannoni e mortai e 3.000 aerei. Il fronte di Stalingrado in 4 mesi fece svanire materiale bellico pari alla metà di quello prodotto dalla Germania quell’anno, e questo da un’idea chiara dell’enorme battaglia di annientamento in cui le forze Tedesche furono coinvolte. Anche il costo in vite umane, pari a 1.100.000, pagato dall’Armata Rossa fu tremendo. Il numero delle vittime civili rimase sconosciuto. Nonostante le perdite complessive fossero a sfavore dei Russi, questi rimasero padroni del campo dopo aver inflitto ai Tedeschi una pesante sconfitta che aveva intaccato seriamente l’aura di invincibilità della Wermacht e rinsaldato il morale dell’Armata Rossa provato dai rovesci militari del ’41-’42. I combattimenti a Stalingrado non furono più duri di quelli affrontati dai soldati Alleati e dell’Asse in altri teatri della guerra. Seppur non condizionati dal rigido clima dell’inverno russo, gli scontri corpo a corpo fra le macerie di Montecassino, o di Ortona, o nei bunker nascosti di Okinawa possono ben equivalere per tipologia e caratteristiche a quelli senza quartiere sostenuti nella città assediata. Neppure fu Stalingrado la battaglia più lunga in termini di tempo fra quelle combattute – rispetto ad esempio a Guadalcanal. Rimane tuttavia quella in cui l’acuirsi dello scontro farà sì che i due contendenti finiranno per impiegare e dissipare risorse umane e materiali in un’escalation di distruzione che non trova eguali fra le battaglie della Seconda Guerra Mondiale.
L’aiuto alleato, che Putin tende a minimizzare quando parla della Secondo Guerra Mondiale, è stato molto presentato in termini ridotti anche da una certa storiografia sovietica. Tuttavia, come ha sottolineato Anthony Beevor nella sua ricostruzione della battaglia, il contributo alleato al mantenimento della capacità di combattimento dell’Armata Rossa nell’autunno del 1942 non deve essere sottovalutato. I veicoli americani, specialmente le jeep Willys e i camion prodotti da Ford e Studebaker e i viveri, dalle milioni di tonnellate di grano alla carne in scatola prodotta a Chicago, sono tutti fattori che contribuirono enormemente alla capacità di resistenza dei difensori di Stalingrado.
L’intensificarsi della lotta a Stalingrado fece rifluire continuamente sul Volga uomini, mezzi e risorse che erano stati destinati altrove e finirà per impegnare la Wermacht in uno scontro dalle proporzioni titaniche, una trappola dalle conseguenze catastrofiche da cui l’esercito tedesco sul fronte orientale non si riprenderà più. Su quest’ultimo punto, oltre a biasimare l’ottusità di Hitler e la passività di Paulus che finì per eseguirne gli ordini alla lettera senza adattarli al mutato scenario – finendo per condannare la VI Armata dopo averle causato danni e sofferenze enormi – bisognerebbe elogiare l’abilità dei comandanti Sovietici, Zhukov in primis, e la tenacia degli uomini della 62° Armata sovietica. A Stalingrado questi ultimi resistettero inizialmente a forze nemiche che condussero attacchi devastanti, e se la loro determinazione fu in parte indotta dai rastrellamenti e operazioni dell’NKVD – il famigerato Commissariato del popolo per gli affari interni, le cui squadre a ridosso della linea del fronte avevano ricevuto da Kruščëv l’ordine di Stalin di sparare su chiunque avesse tentato di ritirarsi di fronte al nemico, “giustiziando” a Stalingrado 15.000 soldati sovietici – fu anche il risultato di una rinnovata volontà di resistenza che faceva eco nelle parole che il comandante Čujkov aveva loro rivolto, come monito contro il nemico: “Non c’è terra oltre il Volga”.
L’indecisione al comando della VI Armata tedesca causò la fine dell’invincibilità della Wermacht sul fronte orientale ed una vittoria epocale per i Russi e non stupisce che Putin, nel rendere omaggio a Stalingrado, tenti di attualizzarne i sacrifici accostandoli alle prove odierne con cui deve confrontarsi il suo popolo. Senza nominarli come non nomina i nemici dell’Armata Rossa nel 1942, Putin parla dei pericoli e delle avversità di Stalingrado riferendoli implicitamente ai contrasti politico-strategici con gli Stati Uniti di Trump. “I difensori di Stalingrado — ribadisce Putin — ci hanno lasciato in eredità l’amore per la Patria, la necessità di essere sempre pronti a difendere i suoi interessi strategici e la sua indipendenza, la capacità di resistere davanti a qualsiasi sfida e a qualsiasi sacrificio”. Per i russi, da sempre abituati a leggere tra le righe, il messaggio di Putin non potrebbe essere più chiaro.
27.07.2020
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