Di Elsa Forner
PADERNO DUGNANO
Quando accade qualcosa di drammatico dell’ordine della tragedia, si aprono le porte automatiche delle riflessioni, dei pareri e di tutto ciò che emerge sul volersi esprimere a riguardo, come in un riflesso condizionato. Il giusto tempo per riflettere sulla drammaticità di eventi o sulle possibilità che accadano, non è quello che segue la tragedia stessa.
Il passaggio all’atto di un ragazzo di 17 anni che stermina la famiglia mostra i segni di ciò che si annida nella nostra società, restando invisibile, inascoltato ma abile tessitore di fantasmi.
Si avverte il senso di fallimento della società e del suo sistema. In libera caduta il suo ideale e con esso il simulacro delle certezze fin troppo ovvie e indiscusse. Fallisce il sentimento di fiducia.
Nella società definita del benessere si è costituito l’immaginario, totalmente illusorio ma generalizzato, che l’esistenza di un benessere totalizzante sia possibile. Una formulazione del tutto priva di senso della realtà e tuttavia costruita nel tempo, decenni, con strategie ipnotiche in grado di trasformare la realtà nella possibilità, che tutto ciò che è fonte di malessere può essere debellato, in altre parole, non esiste.
È possibile considerare la vita solo in forma positiva e totalmente priva di tutto ciò che è il suo opposto, malessere o altro che sia?
Un aspetto a dir poco chimerico e senz’altro ingannevole che tuttavia ha prodotto un accanito rifiuto generale verso tutto ciò che possa presentarsi sotto forma di critica, dissenso o conflitto, aspetti che la collettività è stata indotta a giudicare come rischiose per la salute sociale e dunque da eliminare non certo da accogliere, ascoltare finanche dialettizzare.
Malessere, dissenso e malattia sono aspetti tutti condensati in aree da tempo create per eliminare la loro criticità e, in fondo, il rischio di sovversione di qualsiasi ordine e grado.
Medicina, psichiatria, psicoterapia, assistenza sociale e progetti scolastici sono istituti a questo scopo. Foucault, lo spiegava molto bene.
L’ascolto intergenerazionale oltre che transgenerazionale più che bandito è ormai dimenticato. Il dissenso è un problema, certo non una risorsa. Nessun dubbio su questo nelle aree istituzionali e preposte al controllo ben più che allo studio e alla ricerca di nuove soluzioni.
Conflitto è un termine che da anni è praticamente usato dagli “esperti” per trovare soluzioni alla sua eliminazione siano esse farmacologiche o progettuali. Le famiglie acconsentono.
Un figlio in conflitto con il mondo adulto è un problema già definito come problematico e assolutamente da evitare, non si accorda con le aspettative sociali e ancor meno con il desiderio individualistico delle famiglie contemporanee di far parte dell’ordine predisposto e definibile come politicamente corretto delle cose.
È una famiglia social-e quella contemporanea, adeguata alle tendenze del momento, ai nuovi linguaggi che rendono social. Lavoratori, bravi genitori, figli esemplari e questo sarebbe eccezionale se non fosse per l’assenza di ciò che fino agli anni 90 ha caratterizzato il pensiero e la vivacità del mondo giovanile: la protesta, il desiderio di confliggere con il mondo adulto fino a dissacrarlo. l’assenza insomma di “the dark side of the moon” come suggerisce il titolo di un pezzo memorabile creato da un gruppo musicale ricercato e geniale, ma anche il bisogno, in questo, di spaziare, di evadere e di sognare.
Un’assenza che sortisce effetti inaspettati, un’assenza premeditata e organizzata politicamente e istituzionalmente a debellare ogni possibilità di conflitto e di protesta.
Un lavoro a più mani, strategico come si addice ai grandi prestigiatori, maghi delle politiche in grado di trasformare un intero paese, nel giro di 30 anni, da audace e creativo a totalmente allineato, obbediente ed innocuo. Una metamorfosi fondata sull’ipnotica formula subliminale: benessere + ricchezza = potere, con accesso libero. Unico prezzo da pagare: nessuna concessione alle volontà individuali. In altre parole essere politicamente corretti.
Come ogni atto ipnotico e decerebrante gli effetti che ne sono derivati sono quelli di una totale perdita del senso, uno in particolare il senso della vita e di ciò che la rende unica e diversa per ogni individuo.
Perché la vita abbia un senso è necessario osare viverla, non subirla nelle contratture socialmente utili ma poco creative e senz’altro prive di quel fondamentale che è la libertà.
Le giovani generazioni attraversano un terreno impervio nel loro crescere. Inevitabile il malessere, quello delle emozioni, della metamorfosi e del timore dell’esclusione. Un tratto di vita per loro difficile da attraversare, come è sempre stato, in ogni epoca. La messa in discussione, è parte del loro discorso. Va ascoltata, sempre.
Questo tratto di vita, difficile ma anche meraviglioso e profondamente invidiato, non è che un grande straordinario viaggio. Le inclusioni, e non le censure segreganti e svalutative saranno aperture in grado di dissipare i fantasmi delle incertezze. Ogni viaggio arricchisce ma deve contemplare la separazione. Per conoscere un mondo è necessario lasciare il proprio. Il viaggio così può trasformarsi in un sogno. Qualcosa in cui credere, sé stessi.
Oggi i viaggi sono alla portata di tutti ma in pochi lasciano veramente il proprio “luogo” per muoversi alla conoscenza di altre realtà.
Il viaggio di ogni adolescente è quello che apre le vie del sogno, quello di essere liberi, liberi di parlare, di scegliere, di dire no.
Nel suo mondo interiore, alla ricerca del proprio viaggio, il ragazzo di Paderno è rimasto soffocato e preda di fantasmi e profonda solitudine, complici di una sorta di depersonalizzazione ed estraneazione dal mondo.
Meglio uscire dai manualistici pronostici medicali ed aprire alle riflessioni e ad un dialogo epistemologico con storici, filosofi e tutto il mondo umanistico che fin troppo negli ultimi 30 anni è stato soppresso, dequalificato e sottosvalutato in favore di ambiti più tecnicistici o medicali.
Il malessere inesprimibile di un ragazzo di 17 anni è già una dichiarazione del profondo bisogno di liberarsi dell’opprimente e fantasmatico senso di morte che lo opprime: lo stesso che può spingere ad azioni oltre limite, inspiegabili, prive di movente e tuttavia non casuali.
Prima di parlare di malattia mentale, proverei a richiudere i manuali nei cassetti ed a riferirmi all’assenza di buoni maestri di vita. Le nostre scuole sottoposte ai regimi di controllo (registro elettronico) e del sistema di valutazione: strumenti imbarazzanti per il fondamento del libero pensiero critico.
Un atto psicotico non è indicativo di una malattia mentale, non ora, non oggi ma ben più di una sofferenza entrata in profondità fino ad assottigliare il confine tra immaginario e realtà. Già il termine malattia mentale categorizza e narcotizza sia la vicenda, che per drammaticità non può sintetizzarsi nel fondo della malattia mentale, e soprattutto il ragazzo, autore di una tragedia che proprio per questo può aiutarci a capire e conoscere ciò che accade.
Le sue parole indicano un mondo ed un modo e al mondo spetta il dovere di ascoltare e riflettere su questo fallimento e sulla sofferenza di un ragazzo di 17 anni.
Di Elsa Forner
18.09.2024