Pareggio di bilancio

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DI TONGUESSY

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Partiamo da un paio di considerazioni: l’erogazione dell’indennità di disoccupazione da parte dell’INPS dal 2015 al 2017 è raddoppiata. Il che significa che l’opera di deindustrializzazione da parte del finanzcapitalismo sta portando copiosi frutti. La libera circolazione di merci (oggetti e uomini come oggetti) e capitali porta conflitto tra lavoratori ed al previsto impoverimento senza alcun intervento da parte dello Stato nel difendere i cittadini. Il pareggio di bilancio in questo contesto non ha storia: mai si è verificato che lo Stato per rientrare dai costi di scelte sbagliate si rifacesse nei confronti dei responsabili, siano essi imprenditori con scellerate scelte piuttosto che organismi della UE che permettono la delocalizzazione delle risorse nazionali.

Sempre in ambito contributivo, una volta appurato che in Italia i conti si reggono su una tassazione molto più elevata della media OCSE (32,7% contro il 21% medi, e 19,5% in Germania) la narrazione ci impone il proprio cahier de doléances dove l’INPS con circa 218 miliardi di spese (ovviamente inclusi gli ammortizzatori sociali, dato del 2015) ed entrate pari a 191 miliardi, lamenta un apparente saldo negativo di 27 miliardi. Peccato che le tasse dei pensionati siano pari a 50 miliardi, il che porta i conti in attivo di svariati miliardi. Se a questi numeri poi sottraiamo i costi elevati ed in eterna crescita dei paracaduti sociali si capisce chiaramente come il sistema pensionistico regga benissimo, se non gravato da altre spese.

Tito Boeri, l’economista che è presidente dell’Inps, ha detto che l’Inps dovrebbe chiamarsi Istituto della PROTEZIONE sociale (non solo della PREVIDENZA), visto che eroga 440 prestazioni e solo 150 sono di natura pensionistica.

Il resto è assistenza. E questa dovrebbe essere pagata con i soldi delle tasse, non con i contributi previdenziali o tagliando le pensioni.
Al netto dei contributi figurativi, tra il 2009 e il 2013 le spese per gli ammortizzatori sociali ci sono costate quasi 59 miliardi di euro: la gran parte dell’importo di questi sussidi (il 72,7 per cento), che in termini assoluti corrisponde a 42,8 miliardi di euro, è stata coperta dai contributi versati dai lavoratori dipendenti e dalle imprese, mentre la parte rimanente (il 27,3 per cento), pari a poco più di 16 miliardi di euro, è stata pagata dalla fiscalità generale.

“Se analizziamo l’andamento registrato in questi ultimi anni – sottolinea il segretario della CGIA Giuseppe Bortolussi – notiamo che c’è stato un boom della spesa delle misure di sostegno al reddito dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro. Dai circa 10 miliardi riferiti al 2009 si è saliti a quota 14,5 nel 2013. Il costo degli ammortizzatori sociali è sempre più a carico della collettività.”

Ricapitoliamo: l’INPS non si incarica di rendere ai cittadini ciò che hanno versato in una vita lavorativa (cosa che in sé, come dimostrato, frutta all’INPS un buon saldo positivo) ma si incarica anche di pagare quei settori in crisi a causa degli sciagurati vincoli imposti dalla UE oppure per le scelte delle imprese di tagliare i costi trasferendo all’estero la produzione oppure ancora a causa della crisi generale. In nessun modo lo Stato riesce a rivalersi su chi sta impoverendo strati sempre maggiori di popolazione.

Il segreto per conseguire costanti impoverimenti, l’avete già capito, sta tutto nel creare l’obbligo di pareggio di bilancio mettendo al suo interno voci che non c’entrano con i servizi, ma che trascinano gli stessi bilanci verso il deficit.
Secondo George Lesson, direttore dell’Oxford Institute of Ageing Population, ogni società dovrà cambiare le proprie abitudini per adeguarsi al calo demografico. Ad esempio, spiega Lesson, “non sarà più sostenibile andare in pensione a 68 anni, che attualmente è limite massimo consentito in Gran Bretagna”.

Qui da noi abbiamo avuto la coccodrillesca Fornero a pigiare il bottone della sostenibilità pensionistica conseguita attraverso il pareggio di bilancio. O, come ama raccontare il mio commercialista: per vent’anni di pensione ne servono quaranta di contributi se si vuole il pareggio di bilancio. Non mi ha mai chiesto però se IO lo voglia, penso per pudore.

La coccodrilla (non bastava il caimano?) ha quindi fatto due conti: si inizia a lavorare a 25 anni, aggiungici 42 e sei a 67, più venti fanno 87. Ma chi cazzo ci arriva a 87?

Nel 2017 è stato battuto un importante record: mai così tanti decessi. Grazie all’impennata del numero di morti l’aspettativa di vita è calata. Quindi sarebbe dovuta diminuire l’età del pensionamento. Ma il presidente dell’Inps Tito Boeri ha stimato in 141 miliardi il costo in dieci anni del mancato adeguamento a 67 anni dell’età per la pensione di vecchiaia.

Solita tiritera neoliberista: bisogna perseguire il pareggio di bilancio e impedire il deficit. Resta il mistero dell’Istat che, da una parte lamenta un aumento dei morti e dall’altra dice che l’aspettativa di vita è incrementata di oltre sette mesi rispetto al 2013: la speranza di vita alla nascita si attesta a 82,8 anni.

Ora vorrei sapere come sia possibile godersi vent’anni di pensione a partire dai 67 anni imposti dalla coccodrilla: 67+20 fanno 87, non 82. Ma non solo: la speranza di vita in buona salute cioè il numero di anni che una persona può aspettarsi di vivere prima di diventare malato cronico o disabile, in Italia, è di 59,2 anni per gli uomini e di 57,3 anni per le donne (media europea di 61,4 anni). Sono 5 anni di contributi proditoriamente rapinati ai lavoratori, che con quei soldi mantengono anche chi è in mobilità.

Resta da chiarire ancora un paio di questioni: a cosa servono le tasse, e i servizi sono tutti soggetti a questa logica?

Per capire la questione tasse bisogna prima distinguere tra politiche attive (formazione e incentivi) e politiche passive (disoccupazione e prepensionamenti). L’Italia si conferma tra i fanalini di coda su scala europea per investimenti in formazione: il 4% del Pil, sotto di quasi un punto percentuale rispetto alla media della Ue (4,9%) e poco più della metà di quanto investito da Danimarca (7%), con due conseguenze negative: da un lato gli istituti formano meno profili specializzati e appetibili dalle imprese nei settori con più possibilità di espansione, soprattutto in ambito tecnologico; dall’altro la carenza di risorse penalizza l’offerta di borse di studio e altri strumenti di mobilità sociale, disincentivando la scelta di corsi che potrebbero avere un impatto immediato sullo sviluppo economico.

In sintesi: se la famiglia di appartenenza ha soldi allora grazie al proprio intervento economico l’istruzione può avere un ruolo importante nella formazione, sennò lo Stato garantisce molto poco. Garantisce poco anche nella Sanità, passata da ente pubblico ad azienda con autonomia di bilancio, più o meno come le Università. Lo Stato si sta affrancando dai propri compiti istituzionali, e sta inesorabilmente traghettando i propri servizi verso il privato o una commistione pubblico-privato. Soldi ne investe sempre meno nelle attività a favore dei cittadini declamate nella Costituzione e lascia che sia la logica aziendale a condurre i giochi. Cioè inserisce pareggi di bilanci in ogni attività.

No, mi sbaglio. Non in tutte le attività. I militari ad esempio. Con una spesa in costante aumento (+25,8% dal 2006 mentre il 97% delle famiglie italiane ha un reddito inferiore a quello su cui contava all’inizio della crisi del 2008) ed i 25 miliardi del 2018 non si prevede alcun pareggio di bilancio: sono solo soldi spesi, nessun introito. Non fanno molto meglio la varie Armi, che grazie a 467 poliziotti in servizio ogni 10mila abitanti rendono l’Italia il terzo stato più militarizzato al mondo, con i costi che si possono immaginare e senza prevedibili pareggi di bilanci.

Quindi si assiste ad un incorporare e scorporare, a seconda del tornaconto politico, cifre e impegni nelle varie voci che compongono il bilancio dello Stato, con un occhio di riguardo verso le direttive europee che ci hanno “obbligato” (per ignavia o più facilmente per interessi personali) a modificare anche la nostra Costituzione. In ossequio a tali direttive e alla pletora di lobbisti che stazionano a Bruxelles per difendere gli interessi delle elites, ci siamo attrezzati a smantellare il welfare, a far andare in pensione cittadini sempre più vicini all’inevitabile dipartita, a non sovvenzionare adeguatamente diritti costituzionali quali sanità, istruzione, casa e lavoro per lasciare spazio ad una gestione aziendale dello Stato, ovvero alla dittatura dell’austerity a tutto beneficio delle grandi corporation.

Avendo citato le lobby, non si possono dimenticare i sindacati concertativi diventati negli ultimi anni sempre più cassa di risonanza della voce del padrone. Al grido di “meno Stato, più Privato!” hanno radicalmente cambiato le loro posizioni politiche, favorendo l’industria parassitaria del risparmio gestito (nelle cui amministrazioni occupano delle poltrone) grazie alla crescita dei fondi pensione spacciati per alternativa all’ormai collassante (?!) INPS. Grazie alla concertazione sindacale vari contratti di lavoro prevedono addirittura meno soldi per chi non aderisce a un fondo pensione negoziale, con buona pace del principio secondo cui a lavoro uguale deve corrispondere paga identica.

Il quadro che ne esce da questa situazione è di una situazione decisamente ingarbugliata, dove apparentemente tutti sono contro tutti mentre gli attori principali soffiano sul fuoco sempre più sfibrato e sfibrante dell’economia neoliberista.

Così nonostante la Corte Costituzionale abbia decretato che “deve essere la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non questo a condizionarne l’erogazione” (sentenza 275/2016) il mainstream insiste nel sostenere che la perversa strada iniziata da Monti sia l’unica percorribile, a costo di trascinare l’Italia verso scenari greci. L’austerity si realizza con i vari pareggi di bilancio e la pletora di menzogne che accompagna la necessità di salvaguardarli.

“una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità”- Joseph Goebbels

 

Tonguessy

Fonte: www.comedonchisciotte.org

31.01.2019

 

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