DI FEDERICO DEZZANI
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Dopo la netta ed inequivocabile sconfitta referendaria, un 60-40 reso ancora più doloroso dall’affluenza record, Matteo Renzi ha annunciato l’intenzione di dimettersi. Molti commentatori ragionano sulle cause circostanziali del voto referendario: la disfatta del premier era in realtà una “necessità storica” e si inquadra nel più ampio disfacimento della Seconda Repubblica che ha traghettato l’Italia nella moneta unica. La relativa calma con cui è stata accolta la vittoria del “no” ed il boom di Piazza Affari del 6 dicembre indicano che lo scenario di un governo che termini la legislatura, scongiurando così le elezioni anticipate, è sempre più concreto: i problemi che erano sul tavolo il 3 dicembre, sono però ancora lì. Il momento della verità si avvicina.
L’epilogo di Renzi era scontato. Quello dell’euro, pure.
Antipatico; saccente; arrogante; spocchioso; vacuo. Le ragioni della sconfitta di Renzi devono essere cercate nel suo carattere? Troppo legato alla sua cerchia di amicizie toscane; troppo intimo delle banche, dei salotti buoni, della Confindustria. È la gestione elitaria dell’esecutivo, la causa della disfatta di Renzi? Troppo distante dalla realtà del Paese; troppo legato alla favola “dell’Italia che riparte”; troppo ossessionato dai “segni più” all’economia. È un’errata “narrazione” (termine che rimarrà per sempre legato all’epoca renziana) il motivo della sua batosta elettorale? Divisivo; indebolito dalle beghe di partito; dimezzato dalle faide interne. Sono i malumori interni al Partito Democratico l’origine della sua debacle?
Le analisi, dopo l’inequivocabile 60-40 che ha affondato la riforma Boschi, reso ancora più pesante dall’affluenza record, abbondano.
Giornalisti, commentatori, politici discutono sul perché “il rottamatore” è andato a schiantarsi contro il muro del voto, al primo, vero, appuntamento elettorale che ha affrontato. E sono analisi accompagnate da un certezza e da un invito: Renzi non uscirà dalla scena politica, anzi, potrebbe anche restare, come se nulla fosse. Già l’ex-premier Mario Monti, ben introdotto negli ambienti “cosmopoliti”, aveva sollecitato Renzi a non abbandonare in ogni caso Palazzo Chigi. Oggi tocca a Ferruccio De Bortoli che, nella veste di ex-direttore del Corriere della Sera è stato ed è tuttora intimo dei salotti “illuminati”: “la sconfitta è bruciante ma il buon senso suggerisce che Renzi non lasci subito.” 1 “Non è successo nulla! Non fare pazzie, resta con noi…” è il messaggio lanciato dai poteri forti.
In passato abbiamo già scritto diverse analisi sulla parabola discendente di Matteo Renzi, quando i maggiori media e commentatori politici ne tessevano ancora le lodi: cominciammo nell’aprile 2015 con l’articolo “Parabola di un falso capo carismatico”; proseguimmo a distanza di un anno con “Renzi a vuoto. L’ultimo colpo in canna: l’M5S”; siamo tornati sull’argomento un mese fa con il pezzo “L’Italia dopo Trump: l’establishment attende inquieto la fine”. La sua caduta era così certa che, una settimana prima del voto, abbiamo persino previsto nell’articolo “Il No supererà qualsiasi sondaggio” l’entità della sconfitta cui il premier andava incontro: quel 60-40 poi uscito dalle urne.
Avevamo così a lungo studiato il logoramento del premier, inquadrandolo soprattutto in contesto storico-politico più ampio, da non avere nessun dubbio che Matteo Renzi sarebbe uscito perdente dalla consultazione del 4 dicembre: la sua sconfitta era, in un certo senso, una “necessità storica”. Doveva verificarsi e, in caso contrario, avrebbe rappresentato una stonatura nello spartito, una pagina mancante nel libro. La disfatta del premier Renzi si inquadra, infatti, nel più vasto movimento di ribellione dei popoli contro le élite, della classe media contro l’1% della popolazione, delle Nazioni contro le entità sovranazionali: è il sommovimento che, nell’arco di soli sei mesi, ha mietuto illustri vittime come Barack Obama, Hillary Clinton, David Cameron, François Hollande, etc. etc.
Calata nella realtà italiana, questa dinamica internazionale si sta concretizzando nel disfacimento sotto i colpi del “populismo” della Seconda Repubblica, quella che dal 1992 in avanti ha indissolubilmente legato le sue fortune alla moneta unica ed al processo d’integrazione europea.
Matteo Renzi, venduto all’opinione pubblica come “rottamatore”, “homo novus” estraneo alle vecchie logiche di potere, altro non è stato che l’estremo tentativo della Seconda Repubblica di scongiurare il drammatico (ed inevitabile) esito finale: il dissesto finanziario e l’uscita dall’eurozona. Coltivato in provetta come quasi tutti i leader europei di questo ultimo decennio, sponsorizzato da Israele e dagli Stati Uniti (e di riflesso dalla cancelliera Angela Merkel), gradito ai potentati locali (gli Agnelli-Elkann, i Berlusconi, i De Benedetti, etc. etc.), l’ex-sindaco di Firenze è stato l’incarnazione del celebre motto del Gattopardo: “tutto deve cambiare, perché tutto resti come prima”.
Si installa a Palazzo Chigi un graffiante e giovane premier che grida ai quattro venti di volere abolire le province, il CNEL e tagliare i costi della politica, ma intanto attua politiche di svalutazione interna (“le riforme strutturali”) e privatizzazioni, indispensabili per tenere l’Italia agganciata alla moneta unica. Non a caso, il Financial Times lo definisce già nel 2015 come “l’ultima speranza delle élite italiane”, perché dal suo successo “riformatore”, ossia dall’attuazione di quelle politiche lato offerta caldeggiate dalla Troika, dipende la permanenza dell’Italia nell’eurozona: ciò spiega perché l’intero establishment italiano, dalla Confindustria alla Chiesa Cattolica, dal Corriere della Sera a La Repubblica, si è stretto attorno al premier. La posta in gioco era la salvaguardia di interessi e di assetti consolidati da decenni.
Come l’eurozona è inevitabilmente vocata all’implosione, così era però inevitabile che l’esperienza di Matteo Renzi terminasse con un clamoroso fallimento. È tutto, tranne che casuale, che il premier sia caduto nel vano tentativo di approvare una riforma costituzionale “suggerita” dal trio BCE-UE-FMI. La disfatta di Matteo Renzi era in certo senso scritta nelle stelle: la spocchia del premier, le sue amicizie con miliardari e banchieri, le faide interne al PD, sono accidenti, elementi cioè legati alla situazione contingente. La sostanza della sua disfatta deve essere cercata nel fallimento della moneta unica, dell’Unione Europea e dell’economia neoliberista sottostante: mille giorni di governo “europeista” hanno logorato Renzi a tal punto da rendere scontato il rigetto da parte dell’elettorato.
Tutto l’establishment euro-atlantico si è speso per il referendum costituzionale: Romano Prodi, Giorgio Napolitano, Eugenio Scalfari, Barack Obama, Jean-Claude Juncker, Wolfgang Schäuble, etc. etc., hanno unanimemente espresso il loro sostegno alla riforma Boschi. È difficile dire quanti però scommettessero sulla sua effettiva approvazione alle urne: l’editoriale del The Economist del 26 novembre, “Why Italy should vote no in its referendum”, si può collocare ad esempio nell’ottica di una sconfitta preannunciata e certa.
La City e Wall Street, avendo a disposizione buoni sondaggi, sapevano che il 4 dicembre avrebbe trionfato il “no” e, per nulla allarmate dalla prospettiva, hanno promesso l’immunità all’Italia sui mercati finanziari, in cambio della formazione di un docile e malleabile esecutivo che traghetti il Paese sino alle elezioni del 2018, senza disturbare così le fondamentali elezioni politiche che si svolgeranno in Francia e Germania tra la primavera e la tarda estate:
“What, then, of the risk of disaster should the referendum fail? Mr Renzi’s resignation may not be the catastrophe many in Europe fear. Italy could cobble together a technocratic caretaker government, as it has many times in the past. If, though, a lost referendum really were to trigger the collapse of the euro, then it would be a sign that the single currency was so fragile that its destruction was only a matter of time.”
Ciò spiega la relativa calma a Piazza Affari cui si è assistito lunedì 5 dicembre: appena resi i noti i risultati del referendum, l’euro è affondato nelle borse asiatiche. Quando però è entrata in azione Londra, la moneta unica ha velocemente riacquistato il terreno perduto e gli indici azionari italiani hanno chiuso con danni limitati. Il boom sui listini cui è assistito il 6 dicembre (Piazza Affari ha chiuso in rialzo del 4%), indica che i “mercati” hanno ormai la certezza che lo scenario delle elezioni anticipate è scongiurato e si va verso un governo tecnico o politico che porterà a termine, senza gesti inconsulti e brividi elettorali, la legislatura.
Ne deriva che i presunti propositi del premier di ottenere il prima possibile l’approvazione della legge di bilancio, così da indire le elezioni già a febbraio 2017, saranno frustrati: gli inviti di Ferruccio De Bortoli a comportarsi responsabilmente ed a non rovesciare il tavolo, le indiscrezioni circolate nella mattina del 6 dicembre circa i progetti di Renzi per un “anno sabbatico” negli Stati Uniti2, ed infine l’esclusiva apparsa nel tardo pomeriggio sull’Huffington Post, secondo cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella considererebbe “inconcepibili le elezioni anticipate”3, indicano che, nonostante le dichiarazioni del premier dimissionario, i preparativi per un governo che termini la legislatura sono in stato avanzato.
Tutto fila liscio quindi? I listini azionari potranno inanellare nuovi rialzi, grazie ad un governo Padoan, Gentiloni, Grasso o Franceschini?
No, perché i problemi di fondo dell’Italia, quelli che hanno bruciato nell’arco di mille giorni l’enorme capitale politico iniziale di Matteo Renzi (enorme, perché media e governi stranieri lo hanno costantemente alimentato sin dall’inizio) sono ancora sul tavolo: si tratta delle folli ricette per cercare di tenere l’Italia agganciata all’eurozona. Come abbiamo sovente sottolineato nei nostri articoli, anni di recessione economica e di austerità hanno minato alle fondamenta il sistema bancario italiano, afflitto oggi da 200 €mld di sofferenze e da una cronica carenza di capitale: Monte dei Paschi di Siena ed Unicredit sono, in particolare, i dossier più bollenti di queste settimane.
I dilemmi del prossimo governo sono quindi gli stessi che avrebbe dovuto affrontare l’esecutivo Renzi e pochi analisti seri possono affermare che una nuova costituzione avrebbe facilitato la loro soluzione: applicare il bail-in, come previsto dalle normative europee entrate in vigore il primo gennaio 2016 ed aggravare così la recessione, o entrare con denaro pubblico nel capitale delle banche, dimostrando così per l’ennesima volta che le regole di Bruxelles, che si tratti di bilanci statali o di salvataggi bancari, non reggono alla prova dei fatti?
È una questione impellente, perché l’operazione per l’aumento di capitale di Monte dei Paschi, quei 5 €mld di cui l’istituto ha disperatamente bisogno, sta volgendo al peggio: la conversione volontaria delle obbligazioni in capitale si è rivelata un fiasco (1 €mld), il fondo sovrano del Qatar si è sfilato e con lui il “Consorzio” di banche private che avrebbero dovuto garantire l’aumento. Si vocifera in questi giorni di un possibile salvataggio pubblico in base alla normativa in vigore fino al 31 dicembre 2015 (il cosiddetto “burden sharing”), in aperta violazione4 quindi del bail-in, attivo da gennaio e già applicato in Austria sulla Heta Asset Resolution AG. Come reagirebbero la commissione europea ed i falchi tedeschi?
Senza contare che il quadro macroeconomico, dalla crescita anemica alla disoccupazione a dure cifre, dall’impoverimento della famiglie al debito pubblico record, è sempre più fosco e non è difficile immaginare cosa accadrà quando i tassi delle banche centrali (a metà dicembre la FED, a marzo la BCE) dovessero iniziare a salire: il denaro facile defluirebbe dai titoli di Stato, facendo esplodere in poche ore i differenziali tra Bund e Btp.
Il prossimo governo italiano ha quindi dinnanzi a sé tutte le criticità già note il 3 dicembre: “Volker Wieland, consigliere di Angela Merkel: l‘Italia chieda aiuto all’Esm“5 si può leggere a distanza di due giorni dalla bocciatura del referendum costituzionale. Arrivati al 6 dicembre, il governo tedesco non ha più nessuna necessità di tacere sulle condizioni economiche dell’Italia per assecondare Renzi; come l’Eurogruppo, superato il referendum, non si è più fatto scrupoli a chiedere una manovra aggiuntiva a Roma per rientrare nei parametri del Patto di Stabilità6. Altre tasse, altri tagli alla sanità, altre privatizzazioni? Od un commissariamento tout court da parte della Troika UE-BCE-FMI? E poi perché? Per allungare di qualche altro anno ancora le sofferenze di una società già stremata e (pericolosamente) insofferente?
È quasi certo che le dimissioni di Matteo Renzi non comporteranno le elezioni in primavera e si vada, per la felicità del The Economist e dei mercati finanziari, verso un governo tecnico o “politico” che traghetti l’Italia sino al 2018: ciononostante, la resa dei conti si avvicina e lo scenario di un’implosione dell’eurozona è ormai apertamente contemplato nel mondo finanziario e politico. Quando il premier-cazzaro tornerà dal suo anno sabbatico negli Stati Uniti, difficilmente cambierà i dollari in euro.
Fedrico Dezzani
Fonte: http://federicodezzani.altervista.org
Link: http://federicodezzani.altervista.org/lultima-speranza-dellelite-italiana-andata-leuro/
6.12.2016