L’Orso e l’Uomo, creature dello stesso mondo naturale

Oriente ed Occidente si confrontano sul tema

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Di Massimo Scalfati

 

Il recente fatto di cronaca riguardante un uomo assalito ed ucciso da un’orsa in Trentino, ha dato vita al consueto strascico di un’insulsa discussione nei dibattiti televisivi e sui giornali, che si è caratterizzata per il solito dualismo di posizioni piuttosto approssimative e per nulla frutto di un pensiero approfondito e consapevole.

Questo tipo di discussioni televisive è teso soltanto a stimolare nel pubblico una qualche superficiale curiosità (al fine del mero “intrattenimento” del pubblico), risultando privo di contenuti sostanziali. Insomma, posizioni dualistiche pro o contro, che ricordano il tifo calcistico “per la mia squadra” contrapposta alla “tua squadra”.

In ciò, la nostra epoca è lontanissima dai “certamina” del passato, come, ad esempio, quello tra francescani e domenicani sull’Immacolata Concezione (poi risolto da Giovanni Duns Scoto, il Doctor Subtilis, con la sua prodigiosa intuizione che superò quella del Doctor Angelicus, Tommaso d’Aquino), ovvero anche quello, negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia, tra i giuristi fautori della “giurisdizione unica” (es. Pasquale Stanislao Mancini) e quelli che sostenevano la necessità della “duplice giurisdizione” (ordinaria ed amministrativa) come Silvio Spaventa, ma comunque nel quadro della separazione tra i poteri nello Stato di diritto.

Niente di tutto ciò.

Soltanto dualismo di posizioni superficiali, di echi di cose sentite e non meditate, di atteggiamenti esteriori, perfino narcisistici, a cui non corrisponde una sostanza interiore delle persone partecipanti al dibattito.

Soltanto, di recente, un magistrato, fine giurista, in un post su Facebook, intitolato “L’orsa e il runner. Fra biocentrismo ed antropocentrismo”, ha acutamente colto il nocciolo della questione. Di essa si discute fin dal nascere del cd. “diritto pubblico dell’ambiente” (anni ’70) anche in relazione ai diritti della persona.

Stimolato da quel post, mi permetto di tentare anch’io qualche riflessione, ma non in un’ottica giuridica, bensì filosofica e teologica.

La sostanza della dicotomia sta tutta in due diverse concezioni del mondo e dell’uomo, cioè tra da un lato una weltanshauung che privilegia l’omnicomprensività della Natura e vede l’essere umano come un appartenente ad essa alla pari di tutti gli altri esseri viventi e dall’altro lato quel pensiero che concepisce l’uomo come il “dominus” della Natura e, quindi, dei regni animale e vegetale, e collocato in questa posizione egemone dallo stesso Creatore.

Semplificando al massimo, potremmo dire che la prima concezione è espressa, storicamente, dall’Oriente hinduista, zoroastrista, sciamanico, ecc. mentre la seconda è stata teorizzata soprattutto dal pensiero semitico.

Dal canto suo, l’occidente precristiano meriterebbe un discorso a parte perché non si presenta come omogeneo, sussistendo in esso sia la propensione all’attivismo dominatore della Natura, sia correnti che, pur non ascrivibili allo sciamanesimo, comunque ed in qualche modo, si ricollegavano alle “forze sottili” naturali e ne erano interpreti.

Nell’Antico Testamento (Genesi, I, 26) è scritto: “E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».

Ed ancora (Genesi, 2, 19, 20): “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.

Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.”

Pertanto, nelle religioni semitiche è presente l’idea secondo cui l’uomo sarebbe il “dominus” della Natura. E tra gli uomini, alcuni sono eletti rispetto ad altri e devono educare, istradare e, se del caso, dominare sugli altri.

Al contrario, nell’Hinduismo v’è la consapevolezza che tutti gli esseri viventi provengono dall’Essere e ne fanno parte.

Il saggio vedico, immerso nelle foreste, indaga la relazione con se stesso, con gli altri esseri e con Dio. Dalla natura, che generosamente dona senza nulla chiedere in cambio, impara il senso dell’amore disinteressato. Il sole fornisce calore e luce a tutti, un albero la sua ombra; un fiume placa la sete della tigre e della mucca allo stesso modo. L’aria sostiene la vita del regnante come quella del povero, la nuvola dà pioggia a tutti indistintamente.

L’hinduista riscopre Dio anche nella natura sublime, nel bagliore che precede l’alba, nel tramonto, nelle maestose acque del Gange, nell’allegra danza del pavone, nel dolce svolazzare di una farfalla. Da questa contemplazione sorge la “semplice” constatazione della reciprocità tra micro e macrocosmo.

La Caraka-samhita (4.13:5) riporta: «Ascolta, o Agnivesa! La comprensione vera sorge per colui che vede allo stesso modo tutto l’universo all’interno di sé e sé stesso in tutto l’universo». Cosa renda allora l’essere umano distinto dagli altri esseri viventi?

In teoria, questi ha maggiore capacità di decidere la qualità del proprio agire, avendo coscienza della responsabilità della sua azione. Si trova nella “via di mezzo”. Può scegliere, infatti, di intonare la sua vita in armonia con il “grande tessitore”: il dharma e scalare, così, le vette del Cielo oppure inabissarsi nel buio dell’ignoranza e dell’egoismo.

Negli animali tale autodeterminazione è ridotta in quanto sospinti dall’istinto della specie. Tuttavia, alla luce della concezione della krama-mukti, tutto ciò che esiste, prima o poi, otterrà mukti, l’identità con il Divino.

«I fiumi, o caro, scorrono gli orientali verso Oriente, gli occidentali verso Occidente. Venuti dall’oceano, essi nell’oceano tornano e diventano [una cosa sola] con l’oceano. Come là giunti non si rammentano di essere questo o quest’altro fiume. Perciò le creature, che sono uscite dall’Essere, non sanno di provenire dall’Essere. Qualunque cosa siano qui sulla terra – tigre, leone, lupo, cinghiale, verme, farfalla, tafano o zanzara – esse continuano la loro esistenza come Tat. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’universo è costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è l’Atman. Essa sei tu» (Chandogya-upanishad, 6.10.1-2).

Al riguardo, va chiarito che il mio riferimento all’Hinduismo, lungi dal concretizzare una tendenza new age verso l’esotismo dell’Oriente ed un indistinto senso di appartenenza dell’uomo alla Natura, va inquadrato, invece, nel pensiero cd. “tradizionale”.

Al riguardo, nel mio saggio “Civiltà dell’essere. Società del divenire” (nella rivista di filosofia “Heliopolis”, n.1, 2003, pagg. 9-24), affermavo: “Julius Evola (capitolo “Lo spazio, il tempo, la terra” in “rivolta contro il mondo moderno”, Roma 1969, pagg. 182-199) aveva osservato che la percezione della natura, come quella dello spazio e del tempo, nell’uomo tradizionale, ebbe un carattere assai diverso da quello che è presente nell’esperienza dell’uomo contemporaneo.

Il sentimento della natura, così come è inteso oggi, cioè come un pathos soggettivo, era assente negli antichi. La natura intera era avvertita come un simbolo di realtà trascendenti. Dinanzi allo spettacolo degli elementi naturali (i monti, le foreste, i corsi d’acqua, ecc.) gli antichi non ebbero sensazioni di tipo lirico, ma sensazioni reali – anche se a volte appena intuitive – del sovrasensibile, cioè di poteri (numina) che impregnavano quei luoghi. Sensazioni che la fantasia, poi, tradusse in immagini di Dei degli elementi, delle fonti, dei boschi, ecc.

Solo in tempi recenti ed in gran parte della popolazione del mondo, è mutata la relazione tra “Io e non-Io”, nel senso di una separazione netta e completa tra l’Uomo e la Natura a cui egli appartiene. Nelle origini, invece, le frontiere tra “Io e non-IO” erano potenzialmente fluide ed instabili, al punto che, in certe circostanze, potevano perfino essere rimosse, con una doppia possibilità di irruzione sia del “non-IO” nell’Io (assorbimento, anche temporaneo, dello “spirito naturale” nella propria personalità), che viceversa dell’Io nel “non-Io”, con la conseguenza di imprimere una mutazione al reale (cd. magia naturalis).

È evidente quanto il modo di pensare dell’uomo contemporaneo sia lontano dalla “mente naturale” di cui parla Elémire Zolla (in “La filosofia perenne. Incontro tra le Tradizioni d’Oriente e d’Occidente”, Milano, 2000), la quale rifugge dalla separazione illusoria tra l’Io ed il mondo. Per Zolla: “conoscitore”, “conoscere”, “conosciuto” formano un’unità. Di qui la possibilità di una “percezione sottile” (sul tema, ved. Mircea Eliade “Lo sciamanesimo e tecniche dell’estasi”, Torino, 1940) delle forze che sono presenti nella natura. Il problema sta nel fatto che oggi ci si trova dinanzi alla “incapacità di concepire a radice della realtà fisica, il piano fondativo, metafisico, dove non sussistono spazio, né decorso del tempo” (Zolla, op. cit. pag. 71)”, né esistono distinzioni tra Uomo e Natura.

Ed aggiungevo: “ … nel pensiero tradizionale lo spazio [e qui potremmo dire anche la Natura] fu considerato “vivo”, ovvero saturo di ogni specie di qualità e di intensità. Così, nel pensiero hindu, l’idea di spazio si confonde con quella di “etere vitale”, pervaso dal “mana”, cioè dalla “sostanza-energia”, più immanente che materiale, distribuita nei vari luoghi non uniformemente, ma secondo varie saturazioni”.

Collegato a tutto ciò, è il concetto di “Anima Mundi”, usato dai platonici per indicare la vitalità della Natura nella sua totalità, assimilata a un unico organismo vivente. Rappresenta il principio unificante da cui prendono forma i singoli organismi, i quali, pur articolandosi e differenziandosi ognuno secondo le proprie specificità individuali, risultano tuttavia legati tra loro da una tale comune Anima universale.

Inevitabile, poi, è il riferimento allo sciamanesimo.

Nell’umanità arcaica (e fino a qualche anno fa nelle popolazioni siberiane) la funzione sciamanica consentiva di accedere al mondo animale; in altri termini, i rapporti con il soprannaturale aprivano l’accesso alle risorse della natura. L’obiettivo della funzione sciamanica era di ottenere dagli spiriti animali, sotto forma di promesse di cacciagione (di ‘fortuna’) per i cacciatori, la forza vitale degli animali stessi, necessaria all’anima dell’uomo così come la loro carne è necessaria al suo corpo. L’appropriazione di forza vitale effettuata col rituale sciamanico condiziona e prefigura a livello simbolico l’appropriazione di carne effettuata nella realtà con la caccia.

Nelle società sciamaniche tradizionali tale funzione è spesso concentrata nel personaggio definito come ‘sciamano’. Questi però non è l’unico membro della comunità a rivendicarne il possesso, né ha la certezza di conservarlo a lungo, in quanto viene giudicato dai risultati e può essere soppiantato da uno dei suoi rivali. Del resto, la stessa funzione può essere assolta da un gruppo, o anche dall’intera comunità. Come affermano alcune popolazioni siberiane che eseguono collettivamente i rituali pubblici, vi può essere sciamanesimo senza sciamano. L’appropriazione di forza vitale non avviene in modo unilaterale: dagli spiriti animali, così come avviene con gli uomini, si può “prendere” solo a condizione di ricambiare (altrimenti si tratta di furto, passibile di vendetta).

Per comprendere lo sciamanesimo in generale occorre considerare, innanzitutto, il simbolismo dell’alleanza con gli spiriti animali, che comporta l’animalizzazione dello sciamano.

Lo sciamano comunica attraverso i movimenti del corpo con gli spiriti animali. Quando salta o si scuote ma si attiene al modello prescritto per la sua funzione (emulazione degli atteggiamenti dell’animale); egli interpreta il suo ruolo. Ma ciò presuppone un’ambivalenza dello scambio, che è simmetrico e reciproco. Gli spiriti animali sono concepiti come partners degli uomini in condizioni di parità con essi; assicurano la vita, ma devono anche toglierla: in sé non sono né buoni né malvagi, ma possono essere di volta in volta l’una o l’altra cosa; sono rispettati, ma mai venerati né implorati. Ambivalente è anche la funzione sciamanica, in cui l’atto di “prendere” dagli spiriti animali è sempre necessariamente associato al dovere di “compensarli” per i doni ottenuti (la cd. “fortuna”). Al termine del rituale, lo sciamano dà la garanzia di questo “risarcimento” agli spiriti animali, cadendo sul dorso sopra un tappeto che raffigura la foresta e la sua fauna; egli è divenuto “offerta”. Gli astanti attendono che lo sciamano, sfuggendo al pericolo di essere divorato dagli spiriti, si rianimi e predica a ciascuno il suo futuro e la sua speranza di vita. A conclusione del rituale, i partecipanti decidono di comune accordo sulla correttezza della sua esecuzione, assumendosi la loro parte di responsabilità sulla sua efficacia futura.

Di Massimo Scalfati

Massimo Scalfati. Classe ’49, napoletano, vanta nel suo palmarès ben quattro lauree: Giurisprudenza, Sociologia, Economia e Commercio e specialistica in Scienze della Pubblica Amministrazione. Attualmente è docente dell’alta formazione post-universitaria nonchè avvocato abilitato al patrocinio dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione; in passato ha tenuto corsi sia presso l’Università degli Studi di Napoli che presso la SNA – Scuola Nazionale di Amministrazione. Dal maggio 1980 è iscritto all’Ordine Nazionale dei Giornalisti.

Fonte: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=pfbid02hAuteQwyUEpcPrVt1b5hfj2cu3VpPz8qRVNn5TKWNBDKEKtTuvUzLT8Mj5KjDbTEl&id=10000979224925

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