Lo stato e il neoliberismo tra Italia e Francia

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Di Jacopo D’Alessio

Se, diversamente dagli italiani, i francesi sono stati piuttosto scaltri nel gestire a proprio favore l’ingresso nell’Europa liberale, ciò non è dovuto ad una presunta superiorità antropologica, ma ad una tradizione sedimentata nei secoli che distingue la cultura dei rispettivi gruppi dirigenti, innanzitutto, in relazione ad una diversa interpretazione del concetto di Stato.

LO STATO FRANCESE NELLA STORIA

I. La cultura francese ha una tradizione dello Stato e della nazione che pone le sue radici fin dagli albori: ovvero già a partire dal 1100, quando la lingua d’oil, dei regni settentrionali, comincia a produrre i poemi cavallereschi intorno alla figura di Carlo Magno (“Les chansons de Roland”), l’imperatore che, all’esterno, aveva respinto gli infedeli mussulmani dai propri confini, mentre, dall’interno, aveva riunificato l’Europa per la prima volta dopo il crollo di Roma. Il ricordo del sovrano diventa perciò, simbolicamente, la figura di riferimento cui si richiamano le varie dinastie nobiliari che regnano in quella regione per celebrare il proprio potere. Nel mentre si dà adito in questo modo anche ad una propaganda che legittimasse la conquista degli altri popoli franchi, culminata con l’annessione definitiva della Provenza nel 1486, mediante l’incoronazione di Luigi XI, re di tutta la Francia.

II. Alla fine del ‘400, Spagna e Francia, a turno, cominciano a spartirsi la penisola italiana e, nel 600, i francesi danno luogo al primo Stato moderno, attraverso quella parabola di accentramento politico della corona che parte da Richelieu e termina con l’assolutismo di Luigi XIV. Napoleone continuerà questo processo di statalizzazione, tanto che l’Italia adotterà una serie di innovazioni amministrative introdotte con l’occupazione imperiale, come le prefetture, che risultavano più funzionali per riorganizzare l’amministrazione locale.

DA DE GAULLE A MACRON

I. Nel 900, De Gaulle e Macron sono anche il risultato di questo lunghissimo processo storico. Il primo, nazionalista conservatore, popolare, generale e patriota, alla guida della Resistenza contro il nazi-fascismo, nel dopoguerra guida il Paese all’insegna di una società interclassista e uno Stato presente in economia con il fine di subordinare il capitale all’interesse generale e con l’obiettivo di perseguire tendenzialmente la piena occupazione. Il secondo, al contrario, è uno dei protagonisti contemporanei del liberismo europeo che sacrifica welfare e lavoro per puntare tutto sulla stabilità dei prezzi. E tuttavia entrambi i presidenti provengono da quella tradizione lì, sempre nazionalista e statalista, che storicamente aveva raggiunto il suo apogeo, appunto, con il Re Sole. Ciò si evince quando, ad esempio, Macron, nell’arena iper-competitiva del Mercato Unico Europeo, impedisce il disfacimento di un settore industriale francese ad alto valore aggiunto. Difatti, eludendo le regole di Maastricht (1992), blocca il tentativo di Finmeccanica di assorbire i cantieri navali di STX proprio attraverso l’intromissione tempestiva dello Stato che li nazionalizza. La Francia inoltre, all’occorrenza, viola ripetutamente i limiti di bilancio pubblico stabiliti da Bruxelles, dapprima sotto la presidenza di Sarkozy, nei primi anni del 2000, ma anche in molti anni successivi. Questo perché, molto banalmente, e con buona pace della Grecia e dell’Italia, non gli conviene. A questo si deve aggiungere la complicità dello Stato nell’attrarre e sostenere l’accumulazione di capitale all’interno dei confini nazionali (tipico del sistema ordo-liberale). Si noti la fusione di Fiat con Stellantis e, più in generale, la colonizzazione economica a scapito della nostra penisola: il settore privato francese riesce a far incetta di tutti i più importanti marchi di moda italiani e, in parte, di quelli della grande distribuzione agro-alimentare.

II. Per carità, diversamente da De Gaulle, per Macron lo Stato è, né più né meno, l’ancilla del Grande Capitale. Eppure, ha conservato egualmente un suo ruolo strategico che ha la funzione di difendere, contemporaneamente, gli interessi della Francia in quanto nazione. Non tanto gli interessi popolari e del lavoro, ovviamente, quanto piuttosto quelli dello stato-nazione.

Nonostante il suo liberismo estremista, anche a Macron non manca infatti una prospettiva di patria capace di proiettarsi nel futuro. Ad esempio, la sua idea di Paese multietnico si fonda, in verità, respingendo il concetto, tanto caro all’Italia, dell’inclusione (ovvero, dare luogo ad una nuova cultura tramite l’incontro di altre due), per promuovere e consolidare, al contrario, quello di integrazione: “Se vuoi abitare e lavorare in Francia devi rinunciare alla tua identità e diventare francese”. Perché Macron sa benissimo che, nel mondo globalizzato, ha molte più probabilità di sopravvivere una collettività che rimane unita e consapevole della propria identità. In altre parole, solo chi mantiene, protegge, e rilancia l’unità nazionale, sarà in grado di affrontare gli scossoni geopolitici, prima ancora che economici, sia dall’una che dall’altra parte.

LO STATO ITALIANO NELLA STORIA

I. Di converso l’Italia, fin dal Medioevo, come denunciava correttamente anche Dante, era divisa in numerosi comuni in continua lotta fra loro. Vane furono le imprese, prima del Barbarossa e poi del suo discendente, Federico II, di unificare le piccole città-stato così da rendere quel territorio una proto-nazione. Poi, conclusasi la subordinazione nei confronti dell’Impero tedesco (si pensi alla lotta per le investiture e il perenne conflitto tra le dinastie degli ottoni e la chiesa di Roma), l’Italia si gode qualche secolo di indipendenza e relativa tranquillità per poi divenire oggetto del dominio altrui per quasi quattrocento anni, dal 1492 fino al 1861. Pertanto, nonostante l’omogeneità culturale tra le popolazioni italiche, se consideriamo gli anni che intercorrono fra il Risorgimento (che però non fu fenomeno popolare) e la Resistenza, il periodo patriottico italiano vero e proprio è stato molto intenso ma abbastanza breve. Sia chiaro: non lo si sta screditando affatto ma lo si vuole semplicemente circoscrivere ad una storia meno stratificata nel tempo rispetto a quella francese. E ancora più breve fu quello dello “stato dirigista”: dal 1949 (anno in cui si conclude l’incarico di Einaudi al Tesoro) al 1978 circa. Se si aggiunge, inoltre, il decennio socialista, guidato da Craxi, si arriva a circa 40 anni: un lasso temporale davvero modesto se confrontato con lunga tradizione dei cugini d’oltralpe. Ora, il ’78 è l’anno in cui la Democrazia Cristiana, grazie all’appoggio esterno dei comunisti, introduce il SSN (Sistema Sanitario Nazionale). Eppure, per lo stato dirigista italiano si tratterà del canto del cigno. Nello stesso anno infatti viene assassinato Moro, senza il quale si esaurisce anche quell’esperienza popolare e socialista che aveva caratterizzato la DC di sinistra, partita da Dossetti, Fanfani, Mattei, e scalzata dalla definitiva intromissione anglo-americana negli affari della Res Publica, a causa dell’imminente metamorfosi del PCI, guidato dai Miglioristi di Napolitano, nuovo partito delegato dagli USA in Italia. Tanto che, nel giro di un decennio, gli americani, nonostante il ritardo dovuto alla parentesi craxiana, ci condurranno alla definitiva rivoluzione liberale e anti-statalista per eccellenza del 1992.

II. Con l’avvento dell’europeismo, l’Italia rinuncia completamente a quello straordinario compromesso ibrido, socialmente avanzato, cristiano-marxista, del dopo guerra, che fu la Costituzione, e diviene, nel giro di un paio d’anni, il paese più liberista d’Europa. È tale da superare in privatizzazioni perfino l’Inghilterra della Thatcher, arrivando seconda solo alla DDR a seguito della riunificazione tedesca.

Il punto è che la storia pesa molto. E dunque, questa è la ragione del perché sia bastato così poco per cancellare quella cornice pubblica che aveva tenuto insieme le spinte centrifughe di una società politicamente scissa, sia pure omogenea per tradizioni. Lasciando sprigionare con foga quel tratto pre-moderno, dapprima anarchico-comunale e, successivamente, rinascimentale, che tanto ha fatto per il genio italico, sia nell’industria che nel commercio. Si pensi solo alla capacità delle PMI che, trovandosi innanzi ad uno Stato con le funzioni fiscali invertite, orientato a drenare ricchezza privata con una tassazione vessatoria invece che a generarla per mezzo della spesa pubblica, è riuscita comunque a reinventarsi e sopravvivere nel modello mercantilista. Si tratta di una cultura del “fare” che occupa ampia parte della nostra tradizione e che trova il suo apice nel Rinascimento. Una cultura che però, rimasta priva di una bussola inscritta nel solco dell’unità nazionale, ha finito per rivelare anche il lato di sé più individualista e predatorio. Così che la nostra attuale classe politica, esattamente come quella francese, ha potuto sacrificare, davvero senza alcuno indugio, gli interessi del suo popolo sull’altare del capitale trans-nazionale e della rendita finanziaria.

CONCETTI DI STATO DIVERSI

Destini analoghi, quindi, che stravolgono il cuore d’Europa, con gli ex-parlamenti sovrani e le loro costituzioni popolari, realizzate faticosamente nel corso delle innumerevoli lotte per la conquista dei diritti, cominciate nel mezzo dell’Ottocento. Istituzioni democratiche che furono il frutto di un’illuminata coscienza politica, maturata a seguito della guerra civile in seno al conflitto mondiale, sigillate infine entro il disegno novecentesco di un moderno stato lavorista, che sembrava aver posto dei limiti invalicabili nei confronti del processo di accumulazione. Vengono invece da ultimo smantellate dai trattati internazionali, a partire da quello di Maastricht del 1992. Eppure, ogni Paese ha anche una storia a sé e la classe dirigente francese si è distinta, al contrario di quella italiana, per continuare ad attribuire al proprio Stato un ruolo ancora attivo che, sia pure minimo, mantiene il fattore politico parzialmente autonomo rispetto alle logiche mercantili diffuse nel resto del continente.

Vi si trova, quanto meno, una visione di Paese suffragata ancora da programmazioni industriali che ottengono investimenti pubblici rilevanti e una strategia geopolitica che ha al suo fondo una chiara idea della propria collocazione, non solo in Europa, ovviamente, ma anche sul Mediterraneo. Mentre da noi, che ne occupiamo il centro, la presenza del mare è stata addirittura rimossa dall’immaginario collettivo. Nulla di tutto questo, ahimè, interessa la classe dirigente nostrana, che preferisce navigare a vista, accontentandosi di conseguire il bottino della giornata. È la prima in tutta la storia di questo paese che sacrifica gli interessi del suo popolo (nella fattispecie, sia a Washington che a Bruxelles) senza chiedere nessuna contropartita in cambio. Si tratta solo di tornaconti personali in assenza di una qualunque prospettiva di largo respiro e di lungo periodo.

CONCLUSIONE

Questo significa forse che gli italiani siano condannati? O che siano inferiori ai francesi? O che tutto è ormai inevitabile? No, perché il cambiamento c’è già stato una volta. Alla Conferenza di pace di Parigi del 1946, De Gasperi partecipò in rappresentanza di un Paese sconfitto che aveva un conto da pagare al resto del continente. Ma nulla impedì che il Primo Ministro se ne tornasse a Roma a testa alta, orgoglioso di aver sottratto l’Italia ad un risarcimento, prima di tutto pecuniario, ma anche simbolico in termini di dignità nazionale, che avrebbe impedito qualsiasi possibilità di ricostruzione del proprio Paese. Nel dopo guerra nacque insomma, dalla tragedia della guerra civile, una classe politica nuova, popolare, che aveva spezzato l’eredità culturale anarchico-individualista italiana di lungo corso, e che si era ricollegata invece con quella più recente e patriottica, anche se inizialmente solo elitaria, di stampo risorgimentale. Lo stato dirigista, che da Mattei e Fanfani è arrivato fino a Moro, c’è stato davvero e animava, non solo la DC, ma anche gli altri partiti di massa del Novecento. Non si è trattato cioè di un’invenzione scaturita da un’ideologia astratta ma ha fondato, sia pure in un lasso di tempo relativamente più breve di quello francese, le sue premesse storiche concrete. Sta però a noi raccoglierle ed utilizzarle.

Di Jacopo D’Alessio

29.03.2023

Jacopo D’Alessio. Laureato in lettere moderne, insegna Italiano nelle scuole medie di Roma. Autore di saggi brevi e articoli su politica, economia e cultura cinematografica.

Fonte: https://proitalia.org/articoli/lo-stato-e-il-neoliberismo-tra-italia-e-francia

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