L’inganno della società aperta

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DI FLORES TOVO

Comedonchisciotte    

Basta guardare la realtà del nostro presente, nel quale la società aperta si è palesata: essa ha distrutto il sacro, il senso della comunità, il bello, il pensare filosofico ed etico; la stessa scienza è diventata puramente descrittiva, atta solo a produrre profitto. L’ apertura crea inoltre paure sempre più profonde. Paura di invasioni incontrollate, dove le frontiere vengono sempre più valicate; paura causata da una insicurezza generale per la propria incolumità; paura di un futuro in cui il lavoro precario è l’unica certezza; paura che pervade ogni momento della vita degli abitanti delle grandi città e non solo.

  

Il termine apertura, che indica genericamente l’atto di effettuare un passaggio dall’interno verso l’esterno e viceversa, ha, in realtà, diversi significati, soprattutto se lo riferiamo empiricamente a tante situazioni particolari e concrete, come ad esempio l’apertura della caccia, di una fiera o mostra, e così via; tuttavia se lo usiamo in rapporto con la nostra esistenza, e cioè se cerchiamo di attribuire ad esso un significato ontico-ontologico, si può allora osservare che il significato di apertura acquisisce un che di misterioso, molto difficile da spiegare.

Il filosofo che più di ogni altro ha cercato di analizzare questo concetto da un tale punto di vista è stato sicuramente Martin Heidegger nel suo capolavoro “Essere e tempo”.  Secondo la sua riflessione, l’apertura è infatti una disposizione d’animo, una propensione  verso il mondo delle cose e il mondo degli altri. Una disposizione che è simultaneamente intuitiva, sentimentale, ed estatica. Intuitiva poiché l’apertura è immediata, spontanea, che si ha quando ci si accorge sensibilmente di essere gettati un mondo di cose (una mondità), che sta lì, di fronte a noi. Un mondo di cose che vediamo trasformarsi e col quale ci relazioniamo soprattutto per mezzo della tecnica, che altro non è, come il filosofo definì, la capacità di manipolare le cose stesse e di utilizzarle, una volta che le si è trasformate, per i nostri bisogni umani: e da questo rapporto si forma, formando le cose, la comprensione, ossia il pensiero operante. L’apertura è poi sentimentale, poiché l’esserci esperimenta nel suo essere gettato nel mondo una situazione emotiva (Befindenlichkeit), perché quando siamo con gli altri si crea sempre un sentimento, uno stato d’animo più o meno coerente che può essere di amore, di odio, di indifferenza o preminentemente di paura o angoscia. Ma l’apertura è soprattutto estatica, poichè pone l’esserci umano nella dimensione della trascendenza. Essa si ha quando si va fuori dalla propria chiusa egoità, che è propria degli animali, ovvero quando si avverte intuitivamente lo scorrere del tempo che si temporalizza: per cui, dice sempre Heidegger, c’è una apertura estatica temporale che si ha dapprima nel futuro pro-gettato, eppoi nel presente e nel passato: da essa nascono il disvelamento della verità e del pensiero, e quindi la coappartenenza fra uomo ed Essere. I modi dell’Essere che si manifestano nell’esserci umano vengono sintetizzati dal filosofo col termine Cura. E questa fa sì che l’esserci sia in realtà un poter-essere, un ente che possiede in sé il senso di un divenire trasformante teoretico-fattivo.

Si può perciò affermare che l’apertura così intesa è da considerarsi come l’essenza propria dell’esserci. Una essenza sostanziale, come aveva ben compreso Hegel nella sua “Scienza della logica”, che non è statica, bensì perpetuamente dinamica, in quanto è costantemente e reciprocamente relazionata con le cose e con gli altri.

Ora, in base a queste premesse, si potrebbe apparentemente dedurre che la società aperta sia l’inevitabile destino dell’ ente umano, il quale, essendo costitutivamente aperto in sé, si trova perciò rivolto inevitabilmente verso il mondo e verso gli altri. Tuttavia per Heidegger, come del resto, per altri motivi, per Hegel, una società aperta intesa in senso liberal-liberista moderno rappresenta invece la negazione di tale essenza: e questa potrebbe sembrare una contraddizione insanabile. Ma così non è.

Una apertura senza fine, parafrasando Hegel, è una cattiva apertura, poiché l’uomo sarebbe senza determinazioni, e così la sua qualità essenziale si disperderebbe in un indefinito inesprimibile. Sarebbe un ente che non è mai appartenente a sè perché indeterminato. Infatti una qualità senza una quantità che la determini sarebbe vuota.

Heidegger altresì afferma che l’esserci umano, in quanto poter-essere, se non riconoscesse il proprio insormontabile limite, sarebbe destinato ad una esistenza anonima e inautentica. La morte è appunto questo limite che fa dell’esserci un ente finito che sa di essere tale, in quanto l’ estrema possibilità dell’esistenza è la certa rinunzia ad essa. Di fronte a questa certezza l’esserci può scegliere  fra una vita inautentica e una autentica, che comporta, a seconda della scelta, il vivere nella  situazione emotiva della paura nel primo caso, o dell’angoscia nel secondo. La paura, che è la dimensione esistenziale subita ed accettata dai più, implica il tentativo di nascondere la verità del dover morire, cercando di dimenticare se stessi disperdendosi, dice Heidegger, nella dimensione della chiacchiera, della curiosità e dell’equivoco, cadendo conseguentemente al livello degli oggetti (Verfallenheit): il che porta alla deiezione verso un’esistenza anonima e passiva, distruggendo così la propria personalità nell’alienazione esistenziale.  L’angoscia, invece, è una situazione emotiva che nasce da una decisione anticipatrice con la quale si accetta, una volta per tutte, la propria finitudine. E proprio perché si sa, permanentemente, di dover morire, che si “vive” perciò per la morte.  Una decisione, tuttavia, che rifugge dall’attesa della morte o del suicidio, poiché sarebbero due atti realizzativi di un qualcosa che andrebbe a minacciare le libere possibilità dell’esserci.  Infatti la vera esistenza autentica si ha quando si accetta liberamente il proprio destino:

“Il fenomeno del poter essere autentico permette di gettare lo sguardo anche sulla stabilità del se-Stesso nel senso del mantenimento in un determinato stato. La stabilità del se-Stesso, nel duplice significato di persistenza e di mantenimento in uno stato, è l’autentica contropossibilità della indecisione deiettiva. La stabilità, in fondo, non significa altro che la decisione anticipatrice. La struttura ontologica della decisione anticipatrice rivela l’esistenzialità sell’essenza del se-Stesso” (1).

Questa frase è illuminante: il filosofo che considera l’apertura verso il mondo delle cose e degli altri la vera essenza dell’esserci umano, è anche il filosofo della stabilità. Una stabilità che, proprio perché scaturita dalla decisione anticipatrice, permette al soggetto che la compie di vivere intensamente il proprio destino, sia nelle gioie che nelle crudeltà della vita, e di goderne appieno i singoli istanti. Solo così la temporalità nelle sue tre dimensioni di futuro-presente-passato può essere vissuta con intensità profonda. Infatti “la finitudine, una volta afferrata, sottrae l’esistenza alla molteplicità caotica delle possibilità che si offrono immediatamente (i comodi, le frivolezze e le superficialità) e porta l’esserci al cospetto della nudità del suo destino” (2). Ecco perché la stabilità è lo stato sociale ed individuale più cercato, consapevolmente o meno, da tutti. Il vero uomo può conoscere se stesso solo se ha rapporti stabili nella famiglia, nel lavoro, con gli altri. Se non trova tale stabilità per propria scelta o per scelte imposte da altri, egli non potrà che vivere nella dimensione dell’autoestraniamento. La stabilità comporta l’adesione al destino comune del proprio popolo. Solo nella comunità si è davvero insieme con gli altri, partecipando ad un destino che rende libere le persone, poiché solo con gli altri che appartengono alla medesima storia è possibile la conoscenza di sé e una vera esistenza autentica.

Ora, nel mondo attuale, vi sono molti teorici della società aperta che sostengono che solo avendo un’apertura a tutti i livelli, politici, sociali, economici, migratori, sessuali, ecc.  è possibile la piena libertà dell’individuo. Una società aperta che conduce però la distruzione di ogni salda stabilità. Karl Popper è stato ed è il principale teorico di questa società, in quanto i suoi due libri “La miseria dello storicismo” e in particolar modo “La società aperta e i suoi nemici” rappresentano la summa ideologica di tale visione del mondo. Visione che tuttora viene considerata la Bibbia del liberal-liberismo. Egli individuò nello storicismo e nel totalitarismo la negazione di ogni forma di libertà. Lo storicismo viene da lui considerato una perniciosa teoria filosofica, poiché ha la pretesa di prevedere, alla stregua della scienza fisica, le leggi della storia valide anche per il futuro. Per cui egli individuò in Eraclito, Platone, Hegel e Marx i principali fautori di questa veduta.

Il fatto incredibile è che ancora oggi si dia credito a questi due libelli a dir poco dilettantistici, che, si ha la pazienza di leggere, dimostrano non solo la povertà teorica, ma anche la pochezza umana di questo presunto filosofo. Per cui ci si soffermerà molto brevemente sul “pensiero” di questo autore, facendo solo alcuni esempi per dimostrarne l’infimo livello. Per quanto riguarda Eraclito, egli lo considerava il portavoce della più arrabbiata aristocrazia greca, un nobile sdegnoso che di fatto aveva inventato, con la sua dottrina dei contrari, lo storicismo. In realtà se Popper avesse studiato più attentamente Eraclito, avrebbe scoperto che egli era politicamente un “moderato”, come si evince dal suo frammento 43, in cui affermava che “bisogna spegnere la dismisura più di un incendio” , intendendo dire che bisognava controllare la sfrenatezza o tracotanza (la hybris) politica onde evitare scontri continui, proponendo l‘isorropia, l’equilibrio armonico.  Infatti Eraclito era seguace di Ermodoro, un politico costretto all’esilio, che eccelleva non negli eccessi, ma nella compostezza e nella conoscenza delle leggi (era un monoteta) e che propugnava la morigeratezza dei costumi. Per questo Eraclito non sopportava i suoi concittadini Efesii (3).

Platone viene invece rappresentato come l’esponente della reazione alla società aperta incarnata dalla democrazia ateniese e il teorico dello statalismo organicistico. In questo caso Popper destoricizza il pensiero politico platonico, che altro non è, se si studia davvero la “Repubblica”, la sintesi fra il modello spartano e quello ateniese. Platone scrisse il suo capolavoro in risposta al caos generato dalle due guerre pelopponesiache, che causarono il disastro e declino della civiltà greca.  Le colpe di tale caos furono da lui imputate alla cultura relativistica e nichilista dei Sofisti, in particolare di Gorgia. Certo è che nel pensiero di Platone non vi è nulla che possa condurre ad una veduta totalitaria dello stato. L’idea di giustizia eterna che fonda lo stato è quella di attribuire ad ogni uomo il suo, secondo attitudini e criteri di merito. Le classi sociali sono perciò aperte, a differenza di quelle affermatesi nell’India, le quali sono chiuse per il fondamento religioso brahamanico. Platone era invero un filosofo che pensava all’ordine comunitario, poiché aveva visto i risultati terribili della cosiddetta società aperta.

Ma la miseria filosofica di Popper la si può notare nitidamente quando egli tratta di Hegel, verso il quale manifesta un odio profondo pari a quello dell’invidioso Schopenhauer. Egli lo accusa di essere il teorico di uno stato etico, e perciò illiberale e totalitario, nemico della società aperta. La veduta storicista, secondo Popper, trova in Hegel la sua massima espressione, poiché il filosofo di Stoccarda pretende di ridurre tutta la realtà a razionalità (il finito è ideale) con la conseguenza che tutto ciò che accade viene giustificato dalla Ragione provvidenziale secondo un piano prestabilito e finalisticamente determinato. Da queste considerazioni si comprende come Popper non solo non ha capito niente di Hegel, ma che non l’ha manco letto. Del resto in questo egli sta in buona compagnia, poiché basta sfogliare qualche manuale di filosofia, tra cui l’Abbagnano, per rendersi conto della diffusa ignoranza attorno la filosofia hegeliana. Per dimostrare ciò è sufficiente riportare alcuni passi del capolavoro politico di Hegel, e cioè i “Lineamenti di filosofia del diritto”. Vediamo allora che cosa scrive l’autore:

Il compito della filosofia è comprendere concettualmente ciò che è, e perché ciò che è, è la Ragione. Per quanto riguarda l’individuo, ciascuno è senz’altro figlio del suo tempo; così, anche la Filosofia è il proprio tempo colto nei pensieri. Credere che ogni Filosofia vada oltre il suo tempo presente, è tanto assurdo quanto credere che un individuo possa saltare al di là del tempo, che salti oltre Rodi. Qualora la sua teoria vada di fatto oltre ciò, qualora si costruisca un mondo così come deve essere, qualora l’individuo si costruisca un mondo così come deve essere, allora questo mondo esiste, sì, ma solo nella sua opinione – cioè in un elemento malleabile in cui è possibile plasmare tutto ciò che ci pare e piace” (4).

Questo brano si trova nella prefazione dell’opera testè citata: sarebbe stato molto opportuno leggerla attentamente prima di pronunciare giudizi insensati sul pensiero del filosofo. Come si nota non c’è nessuna pretesa di prefigurare con esattezza il futuro: anzi. La stessa equazione essere=dover essere viene di fatto derisa se la si proietta avanti nel tempo. La filosofia è una scienza umana che ci può acconsentire solo di comprendere il nostro presente ed eventualmente di pronosticare a grandi linee quello che sarà. Essa invero è come la “civetta di Minerva che inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo” (5) quando la realtà è “bell’è fatta”.

Con la lettura di questo breve pensiero riportato si dissolve nel ridicolo ogni elucubrazione sulla presunta veduta storicistica-deterministica di Hegel, per cui ogni critica che lo considera come il fautore del totalitarismo e del necessitarismo non solo è infondata, ma rivela la miseria critica e disonesta da parte di chi lo considera tale, Popper in primis. Per Hegel lo scopo della filosofia nasce da una insopprimibile esigenza del pensiero umano: quella di comprendere il vero e di spiegare  i perché e i come si è svolto il divenire storico, cioè il reale. In fondo tutta la sua logica idealistica applicata alla realtà è guidata dal principio di ragion sufficiente e dalla dialettica dei contrari. Scrive ancora il filosofo:

“…la storia mostra necessariamente ciò che il Concetto insegna, cioè: l’idealità appare davanti alla realità soltanto nella maturità della Realtà, e allora l’idealità si costruisce il medesimo mondo, colto nella sua sostanza, nella figura di un regno intellettuale” (6).

Il significato della famosa frase “ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale”  sta tutto qui: ossia il finito è ideale solo quando lo riportiamo al Concetto (Begriff), cioè all’autocoscienza che comprende. Il reale (Wirklich) è perciò, in Hegel, non l’effettuale, ma ciò che per sua natura potrebbe essere potenzialmente portato al suo concetto secondo l’accezione aristotelica del  “dynamei on”. Lo stato etico, poi, altro non è che lo “Staat”, la comunità fondata sulle leggi.

Si può invece capire l’odio profondo che Popper provava verso Marx. Egli lo considerava il responsabile filosofico delle tragedie avvenute durante il comunismo sovietico: un sistema che in effetti aveva le caratteristiche del totalitarismo compiuto. Ma anche in questo caso la critica a Marx è completamente destoricizzata. Marx, quando scrisse “Il Capitale” , aveva come modello i paesi avanzati industrialmente come l’Inghilterra, gli Usa e la Germania, e non certo un paese arretrato e contadino come la Russia semi-asiatica. Per cui ritenerlo responsabile delle atrocità avvenute durante il regime comunista sovietico, è, a dir poco, azzardato e strampalato. Certamente nel pensiero di Marx, a differenza degli altri “nemici”, ci sono aspetti deterministici molto evidenti, soprattutto quando si parla del necessario avvento del comunismo e quando egli pretende di equiparare l’economia ad una scienza fisica.  Ma, al di là di queste osservazioni critiche teoricamente accettabili, disconoscere la grandezza di Marx come pensatore è ancora una volta ridicolo. Nessun filosofo, ancora ad oggi, è riuscito a spiegare fenomenologicamente meglio di Marx l’essenza del capitalismo. E nessuno è riuscito, nel bene e nel male, a rappresentare con enorme potenza i bisogni di centinaia di milioni di persone.

Da quanto si è scritto, sia pure con pochi esempi, si può ricavare un unico giudizio per noi inequivocabile, e cioè che il “pensiero” di Popper è ben poca cosa. Del resto basta guardare “hegelianamente” la realtà del nostro presente in cui la società aperta si è palesata in tutte le sue forme: essa ha distrutto il sacro, il senso della comunità, il bello, il pensare filosofico ed etico; la stessa scienza è puramente descrittiva, atta solo a produrre profitto. La sua apertura crea inoltre paure sempre più profonde. Paura di invasioni incontrollate, dove le frontiere vengono sempre più valicate; paura causata da una insicurezza generale per la propria incolumità; paura di un futuro in cui il lavoro precario è l’unica certezza; paura che pervade ogni momento della vita degli abitanti delle grandi città e non solo. Zygmunt Bauman ha ben descritto in tutti i suoi parecchi libri i risultati ottenuti dalla società aperta liberal-liberista, per cui non aggiungiamo altro.

L’apertura senza stabilità è allora una falsa apertura, il cui centro è il caos, che nella lingua greca significa abisso spalancato. E Popper, coi suoi corifei, ne è il suo profeta.

 

Note.

  1. HEIDEGGER, Essere e tempo, ed. Longanesi, Milano 1976, pp. 387-88.
  2. IDEM, p.460.
  3. Si veda “Eraclito, il chiaro Oscuro”, di TOVO Flores, Ereticamente maggio 2014.
  4. W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, ed. Rusconi, Milano 1996, pp. 62-63.
  5. IDEM, p.65.
  6. IDEM, p.65.

 

TOVO Flores

Novembre 2018

Fonte: comedonchisciotte.org

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