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di Annalisa Lo Monaco
Esperimenti medici su esseri umani non consenzienti: roba da campi di concentramento nazisti, senza dubbio, ma non solo. Negli Stati Uniti, ancora nel 1972, si protraeva una “ricerca scientifica” su circa seicento ignari uomini afroamericani, nell’ambito di un quarantennale studio sull’evolversi della sifilide non curata.
Nel 1932 il servizio sanitario pubblico degli Stati Uniti (PHS), sezione malattie veneree, organizza un gruppo di studio per monitorare la sifilide non curata in un gruppo di uomini afroamericani, 399 dei quali con una forma latente della malattia e 201 sani.
Collabora alla ricerca la Tuskegee University, un college dell’Alabama riservato ai neri. Sono gli anni della grande depressione, e nella contea di Macon sono molti i mezzadri neri fortemente impoveriti. Probabilmente a loro non pare vero il fatto di poter ricevere cure mediche gratuite da parte del governo, e per questo accettano di partecipare allo studio.
Non sanno che diventeranno le cavie per quello che sarà definito “senza dubbio lo studio più infame nella ricerca biomedica nella storia degli Stati Uniti”. A nessuno di quei 399 malati viene detto che hanno contratto la sifilide, la diagnosi è invece “sangue cattivo”.
Quella ricerca doveva inizialmente osservare gli effetti della sifilide non curata, su uomini afroamericani, per un periodo dai sei ai dodici mesi. Dopo, i malati avrebbero dovuto ricevere cure adeguate, quelle conosciute all’epoca per la lue, a base di arsenico e mercurio. Peccato che dopo pochi mesi di sperimentazione i fondi destinati allo studio vengono cancellati, e le cure previste non possono più venire erogate.
Nonostante questo il direttore del PHS, Taliaferro Clark, decide di proseguire con l’esperimento, che avrebbe dovuto determinare gli effetti della sifilide negli uomini afroamericani rispetto a quelli riscontrati in uomini di razza bianca basandosi, per questi ultimi, sui dati di uno studio condotto in Norvegia, che però analizzava la storia clinica pregressa di pazienti in trattamento.
In realtà Clark si dimette prima che siano trascorsi 12 mesi dall’inizio dell’esperimento, ma c’è qualcun altro pronto a farsi carico di quella responsabilità: osservare la progressione della lue fino alla morte del soggetto non curato. Per far questo, l’intero staff nasconde la diagnosi e impedisce alle cavie di accedere ai programmi di cura comunque presenti in quel territorio.
Quegli uomini vanno incontro a un destino orribile perché la sifilide porta cecità, sordità, malattie cardiache e mentali, deterioramento osseo fino al collasso del sistema nervoso e quindi la morte. Ma non solo, tutti quei malati, non informati del loro stato di salute, infettano le mogli (in 40 casi) e mettono al mondo dei figli con sifilide congenita (in 19 casi).
Nemmeno la scoperta di una cura definitiva per la lue, a base di penicillina, nel 1943, pone termine all’esperimento. Il dottor Thomas Parran Jr. scrive anzi, nel suo rapporto annuale al PHS, che quello studio diventava “più significativo ora che è stata introdotta una serie di metodi rapidi e programmi di terapia per la sifilide”.
Insomma quell’esperimento rappresentava l’ultima occasione per studiare come la sifilide uccidesse un uomo non sottoposto a cure. Perché la sperimentazione medica va al di là dei diritti dei singoli, a maggior ragione se questi sono afroamericani poveri e senza nessun accesso a informazioni di base.
Oliver Wenger, un dirigente del PHS, scrive: “Ora sappiamo, dove prima potevamo solo supporre, che abbiamo contribuito ai loro disturbi e abbreviato la loro vita. Penso che il minimo che possiamo dire è che abbiamo un alto obbligo morale nei confronti di coloro che sono morti per rendere questo il miglior studio possibile”.
Come dire che l’esperimento deve andare avanti proprio per onorare le vittime…
Nel corso della durata dell’esperimento, 40 lunghissimi anni, le cavie sono invogliate a proseguirlo perché ricevono visite mediche gratuite, gli spostamenti da casa alla clinica e viceversa sono gratuiti, così come le terapie per i disturbi collaterali. Hanno anche diritto un pasto caldo nei giorni in cui sono sottoposti ad esami. I medici spacciano come “ultima possibilità di un trattamento gratuito speciale” una puntura lombare che in realtà serve a prelevare un campione di fluido spinale per cercare i segni della neurosifilide.
Tutte le cure fornite agli ammalati sono in realtà dei placebo, e la morte è l’unico destino che aspetta quei pazienti curabili semplicemente con un antibiotico. Ai fini di questo disgraziato esperimento, l’autopsia dei deceduti è l’ultima indispensabile procedura per arrivare a dati conclusivi. I parenti del defunto concedono l’autorizzazione a quell’ultima indagine in cambio delle spese del funerale.
Nel corso degli anni molti medici dello staff si dimettono dal loro incarico, qualcuno avanza considerazioni di carattere etico. Nel 1965 un ricercatore non coinvolto, che aveva letto dei dati pubblicati su una rivista medica, scrive direttamente ai membri dello staff una lettera di protesta che viene ignorata. Un anno dopo fa altrettanto il dottor Peter Buxton, che però scrive al direttore nazionale della Divisone di malattie veneree del PHS.
I responsabili dell’esperimento a livello nazionale ribadiscono la necessità di andare avanti fino al completamento dello studio, ovvero fino alla morte di tutte le cavie. Tutto questo con l’approvazione delle diverse associazioni nazionali di medici, comprese quelle che rappresentano i dottori afroamericani. Dopo altre iniziative di singoli, sempre ignorate, Bruxton si rivolge alla stampa. Il 25 luglio 1972 The Washington Star pubblica la notizia, che viene riportata in prima pagina, il giorno successivo, dal New York Times.
Il governo degli Stati Uniti, attraverso le sue organizzazioni di sanità pubblica, ha infranto le sue stesse leggi e condotto esperimenti medici su cittadini ignari. Le firme e i timbri di molti dirigenti sono lì a dimostrare che tutti sapevano e approvavano. A quel punto l’esperimento viene immediatamente interrotto:
Dei 399 malati ne sono rimasti in vita solo 74
Il servizio sanitario pubblico non si è mai scusato né con i sopravvissuti né con le famiglie delle cavie. Non lo ha fatto nemmeno l’infermiera di colore Eunice River, l’unica dello staff a partecipare all’esperimento per tutta la sua durata. Il suo ruolo è stato fondamentale per mantenere i contatti con la comunità nera e ispirare fiducia negli afroamericani coinvolti. Nel 1975 riceve addirittura un riconoscimento dal Tuskegee Institute (dove ha studiato) per i suoi “vari e straordinari contributi alla professione infermieristica, che hanno dato lustro al Tuskegee Institute”.
Il figlio di uno degli uomini morti durante l’esperimento fa invece una considerazione ben diversa: “Fu una delle peggiori atrocità mai compiute dal governo. Non trattate nemmeno i cani in questo modo”
Dal 1975 il governo ha fornito assistenza medica ai sopravvissuti e a tutte le persone infettate a seguito dell’esperimento. Cure che servono a guarire il fisico, mentre le ferite psicologiche sono difficilmente rimarginatili. I figli e i nipoti delle cavie poco hanno saputo della faccenda, perché quello era un argomento tabù, una cosa “di cui vergognarsi”.
Questa vergogna e la diffidenza nei confronti del sistema sanitario pubblico ha condizionato l’adesione a quel programma di assistenza medica istituito nel 1975.
Solo nel 1997 il governo statunitense, nella persona del Presidente Bill Clinton, si è scusato formalmente con le vittime, durante una cerimonia alla Casa Bianca, dove erano presenti cinque delle otto persone ancora in vita. Nel 2004 anche l’ultimo dei sopravvissuti è morto. Forse aveva perdonato quei medici venuti meno al dovere fondamentale della loro professione: curare gli ammalati.
O forse no, ma in ogni caso non poteva dimenticare l’inganno: “Uomini poveri e afroamericani, senza risorse e con poche alternative, credevano di aver trovato speranza quando gli era stata offerta assistenza medica gratuita dal Servizio sanitario pubblico degli Stati Uniti. Sono stati traditi” (Dal discorso di Bill Clinton).
Pubblicata il 13.07.2021