DI WAYNE MADSEN
strategic-culture.org
Chiedete agli esperti se la Costituzione permetta agli Stati americani di separarsi: vi diranno di no. Vi faranno notare che la guerra civile ha sistemato, non solo in teoria ma anche in pratica, la questione della secessione. Ma tutti i princìpi costituzionali considerati non impediscono agli Stati Uniti di passare dall’autorità di Washington a quella statale.
Sotto le politiche forti di Donald Trump, gli U.S.A. stanno sperimentando lo stesso rapido decentramento che altre federazioni, poi divisesi, hanno visto. Ovvio, gli States non hanno le stesse cause di origine etnica, linguistica e religiosa che hanno contribuito a dissolvere l’Unione Sovietica, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia: ma le azioni unilaterali del governo federale stanno portando ad un allontanamento degli stati dalla capitale. Trump e relativi consiglieri, in campagna elettorale sostenitori dei diritti dei singoli stati membri, hanno mostrato una tendenza ad ignorare la loro autorità e la loro rappresentanza nel Congresso, a favore di un forte esecutivo unitario. Il desiderio di independenza degli stati, nonché il tentativo di Trump di sopprimere i loro interessi, è pieno di pericoli.
Le forme federali di governo hanno successo solo quando esiste un dialogo continuo tra il governo nazionale e quelli subnazionali. Quando il centro inizia a dare dettami unilaterali, gli altri si oppongono e lo ignorano. La poll tax imposta dalla Thatcher negli anni ’80 contribuì ad allontanare Scozia, Galles ed Irlanda del Nord da Londra. Da lì nacquero i movimenti indipendentisti, soprattutto scozzesi. L’immobilismo dei vari governi belgi portò ad una suddivisione del paese in tre zone: Fiandre (di lingua olandese), Vallonia (di lingua francese) e regione di Bruxelles-Capitale, ognuna con i propri parlamenti e governi.
Dato che gli stati americani non possono legalmente separarsi, a causa dalla sconfitta militare degli Stati Confederati nella guerra civile, si potrebbero esplorare altre vie.
La spinta verso l’autonomia è aumentata grazie alle politiche dell’attuale amministrazione: in particolare, quelle relative all’ambiente, all’assistenza sanitaria, ai dati elettorali, ai rapporti con Cuba, alla politica sull’immigrazione ed al commercio estero. Anche se ci sono delle frizioni tra il presidente ed i suoi sostenitori al Congresso, i suddetti motivi sono l’appiglio cui si aggrappano molti Stati americani per autodeterminarsi.
La decisione di uscire dall’Accordo di Parigi ha portato alla creazione della «United States Climate Alliance», un gruppo di Stati che rimangono impegnati a raggiungere gli obiettivi del suddetto, indipendentemente dai desideri di Washington. I primi tre stati ad averla fondata sono stati California, Washington e New York, col Connecticut a ruota. Anche i governatori repubblicani di Massachusetts e Vermont hanno aderito all’alleanza, ponendo fine alla critica che questa fosse una mossa del Partito Democratico. Si sono poi aggiunti anche Rhode Island, Oregon, Hawaii, Virginia, Minnesota e Delaware. Altri Stati che rimangono impegnati a sostenere l’Accordo di Parigi ma che non hanno formalmente aderito all’alleanza sono Colorado, Maryland, Montana, North Carolina, Ohio, Pennsylvania, New Mexico, Illinois, Iowa e Maine. Il distretto di Columbia e Porto Rico, che non sono stati veri e propri, hanno anch’essi aderito.
Il Climate Alliance è servito ad alcuni governatori per condurre colloqui bilaterali con leader di governi stranieri, non solo sull’ambiente ma anche sull’immigrazione. Il governatore dello stato di Washington, Jay Inslee, si è incontrato col primo ministro canadese Justin Trudeau a Seattle per sostenere congiuntamente l’Accordo di Parigi. Inslee ha anche discusso dell’immigrazione messicana nel proprio stato in colloqui col presidente Enrique Pena Nieto a Città del Messico. Jerry Brown, governatore della California, è volato fino a Pechino per incontrare Xi Jinping. Lì, i due leader hanno ribadito il loro appoggio all’accordo di Parigi e hanno discusso di interessi economici bilaterali. Questi includono accordi tra Cina e California, in un periodo in cui Trump sta minacciando di scatenare una guerra commerciale globale.
Quando si tratta di non rispettare l’amministrazione Trump, gli Stati della West Coast – che stanno diventando una sorta di congrega all’interno degli Stati Uniti – sono sempre in prima fila.
Washington, Oregon e California hanno ignorato le minacce del procuratore generale Jeff Sessions di iniziare ad applicare le leggi federali sulla marijuana. I tre stati hanno legalizzato la marijuana per uso sia medico che ricreativo. A questi stati si è recentemente aggiunto il Nevada, che, come Washington e Colorado, si è anch’esso accorto che legalizzandola le casse statali ne hanno tratto beneficio. Dato che i funzionari di Trump non hanno offerto garanzie sulle compensazioni per la perdita di entrate da marijuana, gli stati hanno sostanzialmente detto a lui, a Sessions ed alla Drug Enforcement Administration di non intromettersi. Tra gli stati pro-marijuana ci sono ora anche Alaska, Massachusetts e D.C.
Un altro gruppo di Stati ha dichiarato la propria volontà di espandere i benefici dell’obamiana Medicaid, rifiutandone i tagli proposti dai repubblicani. Ancora una volta, in prima fila ci sono California, Oregon e Washington, assieme ad Alaska, Hawaii, Nevada, Arizona, Nuovo Messico e Colorado. Altri stati favorevoli all’espansione del Medicaid sono Montana, North Dakota, Minnesota, Iowa, Arkansas, Illinois, Louisiana, Michigan, Indiana, Kentucky, West Virginia, Pennsylvania, New Jersey, Maryland, Delaware, Rhode Island, New York, Connecticut, Massachusetts, Vermont e New Hampshire.
Si sta assistendo ad un principio di devolution, visibile anche in altri àmbiti.
Ben 44 stati hanno respinto la richiesta di registrare i dati degli elettori fatta dalla Commissione sull’Integrità delle Elezioni, anche nota come «Commissione Kobach», dal nome del segretario dello stato del Kansas Kris Kobach. La commissione è uno stratagemma per sopprimere in massa il diritto di votare, sullo stile deil Mississippi di una volta con gli afro-americani. In un tweet, Trump ha chiesto: «cosa cercano di nascondere [questi stati]?». La risposta è niente, vogliono solo proteggere i dati personali. È sconvolgente che il presidente non capisca le leggi basilari, federali e statali, sul rispetto della privacy.
Il segretario di Stato della California, Alex Padilla, ha lanciato il guanto di sfida: “Non fornirò informazioni sensibili sugli elettori ad una commissione che ha già detto erroneamente che milioni di californiani hanno votato illegalmente”. Il segretario dello stato del Mississippi, il repubblicano Delbert Hosemann, ha detto alla commissione Kobach di «gettarsi nel Golfo del Messico: il nostro è un ottimo stato da cui saltare».
La decisione di Trump di recedere dagli accordi fatti con Cuba da Obama ha anch’essa scatenato una ribellione tra gli Stati che vedono benefici nella collaborazione tra i due paesi.
La decisione ha incontrato la resistenza, tra gli altri, del Minnesota. Il Democratico lieutenant governor ha guidato una delegazione commerciale bipartisan a Cuba che ha dichiarato il suo sostegno alle politiche distensive inaugurate da Obama. Il governatore Democratico della Louisiana, John Bell Edwards, ed il commissario agricolo dello Stato, il repubblicano Mike Strain, hanno dichiarato che le sanzioni di Trump contro Cuba non influenzeranno il crescente commercio agricolo della Louisiana con l’isola. Vogliono aumentare il commercio con Cuba, non diminuirlo, indipendentemente dalle azioni del presidente.
L’altra questione che ha spinto gli Stati a sfidare l’autorità di Trump è l’immigrazione. Il primo aspetto è il travel ban, che ha creato problemi nel concedere visti ai rifugiati provenienti da sei paesi musulmani: Iran, Siria, Sudan, Yemen, Libia e Somalia (in un primo momento anche l’Iraq era nell’elenco). Tra gli stati che hanno fatto causa al governo per questo, troviamo due degli Stati ribelli del Pacifico – Oregon e Washington.
Il secondo aspetto è il rastrellamento e successiva deportazione degli immigrati clandestini da parte del Dipartimento della Sicurezza Interna. La California sta per diventare un «sanctuary state», il che significa che impedirà che gli immigrati illegali vengano incarcerati.
Potrebbe però essere il commercio estero il vero catalizzatore. Le multiculturali Hawaii, che hanno un forte movimenti indipendentista, sono l’unico stato a denunciare l’amministrazione per l’incostituzionalità del travel ban. Lo stato si considera l’ingresso americano per il Pacifico e l’Asia, per cui la libertà di viaggio è fondamentale. Le Hawaii non parteciperanno alla guerra commerciale di Trump, come testimoniano i suoi uffici commerciali molto attivi a Pechino e Taipei.
Anche altri Stati, in particolare i ribelli del Pacifico, non adotteranno le politiche commerciali dell’amministrazione. La Costituzione americana stabilisce che il commercio estero sia responsabilità del governo federale: perciò questo sarà il motivo delle prime fratture tra Washington e gli Stati. La California ha un grande ufficio commerciale a Pechino, Washington ed Oregon ce li hanno a Shanghai. Alcuni rappresentanti del commercio dei singoli stati ricevono le stesse cortesie diplomatiche di un console. Gli stati non rinunceranno alle proprie opportunità di commercio estero per soddisfare i capricci di un megalomane come Trump.
Le forze di decentramento attualmente attive sono in gran parte bipartisan e transcontinentali – ad eccezione di alcuni retrìvi southern states e di alcuni stati nelle praterie e nelle montagna dell’ovest – e non mostrano segni di pausa. Se questa è la situazione sei mesi dopo l’insediamento del governo, gli scienziati politici si chiedono se ci saranno proprio degli Stati «Uniti» alla fine del mandato di Trump, specialmente se ciò accadrà nel gennaio ’25.
Fonte: www.strategic-culture.org
Link: bhttps://www.strategic-culture.org/news/2017/07/10/the-rapid-devolution-of-the-united-states.html
10.07.2017
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di HMG