Influenza suina del 1976: lezioni dal passato

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Bollettino dell’OMS – Edizioni passate – Volume 87 – n. 6 – 2009

 

Il dottor Harvey V. Fineberg è il presidente dello Institute of Medicine, Washington DC, negli Stati Uniti d’America (USA). È stato rettore dell’Università di Harvard dal 1997 al 2001, dopo 13 anni come preside della Harvard School of Public Health. Ha dedicato la maggior parte della sua carriera accademica ai settori della politica sanitaria e del sistema decisionale medico. È stato coautore di “The epidemic that never was”, un’analisi del controverso programma federale di immunizzazione contro l’influenza suina del 1976. Ha conseguito la laurea e il dottorato presso l’Università di Harvard in psicologia, medicina e politica pubblica.

Nel 1976, un’epidemia di influenza suina, scoppiata a fine inverno in una base militare degli Stati Uniti, fece temere una pandemia devastante. Il presidente Gerald Ford annunciò un piano di vaccinazione di tutti i cittadini del Paese. Alla fine dell’anno, 40 milioni di americani su circa 200 milioni furono vaccinati contro il nuovo ceppo, ma non si verificò alcuna pandemia e la credibilità della sanità pubblica ne risentì. Il dottor Harvey Fineberg spiega al Bulletin perché il suo studio del 1978 relativo a quanto accaduto è ancora attuale.

D: L’attuale epidemia di influenza è una replica dell’esperienza del 1976?

R: Ci sono chiari parallelismi e forti distinzioni tra la situazione di allora e quella di oggi. Nel 1976 il virus era stato rilevato in un unico insediamento militare, a Fort Dix, New Jersey. Nelle settimane e nei mesi successivi, non fu segnalato alcun caso di influenza suina correlato in altre parti del New Jersey, negli Stati Uniti o in qualsiasi altra parte del mondo. Al contrario, la variante H1N1 di oggi ha dimostrato una capacità di trasmissione multigenerazionale da persona a persona. Una seconda importante differenza, quando si tratta di capacità di risposta, è che ora abbiamo un più ampio arsenale di possibili interventi, farmaci antivirali in aggiunta al potenziale di un vaccino. In terzo luogo, l’11 settembre e gli attacchi all’antrace negli Stati Uniti hanno portato ad una maggiore preparazione al bioterrorismo e alle epidemie di malattie naturali. L’esperienza della SARS (sindrome respiratoria acuta grave) e l’attenzione globale sull’influenza aviaria hanno anche stimolato la capacità di monitoraggio, la preparazione e la cooperazione internazionale. La segnalazione aperta e tempestiva dei casi (che ha caratterizzato l’episodio in corso) è in contrasto con l’esperienza della SARS del 2003.

D: Quali lezioni possiamo trarre dalla risposta all’influenza suina di 30 anni fa, quando si affrontava la minaccia di una pandemia come quella di oggi?

R: La prima lezione è di evitare l’eccessiva fiducia nelle intuizioni scientifiche. Le grandi pandemie influenzali si verificano in media solo tre volte ogni secolo, il che significa che gli scienziati possono condurre relativamente poche osservazioni dirette durante ciascuna di queste mentre hanno molto tempo per rifletterci. È una circostanza perfetta per una sovrastima. Per esempio, nel ’76, dopo aver visto la cosiddetta “influenza asiatica” del ’57 e la cosiddetta “influenza di Hong Kong” del ’68, alcuni esperti credevano che le pandemie influenzali tendessero a ripetersi ciclicamente ogni 11 anni e che avrebbero dovuto prepararsi a un’epidemia alla fine degli anni Settanta. L’idea di un ciclo di 11 anni si è rivelata del tutto priva di valore predittivo.

D: Un tema ricorrente nel suo studio è la difficoltà di mettere in relazione le prove scientifiche con la politica. Come si fa a determinare la politica quando non si dispone di dati scientifici concreti e quando una minaccia per la salute pubblica è probabile ma non certa?

R: Quello che abbiamo visto nel ’76 è che i leader politici volevano fare la cosa giusta, ma mancavano di competenze tecniche e gli esperti di sanità pubblica riconoscevano l’incertezza della minaccia, ma volevano trasmettere la gravità del rischio in un modo che riuscisse a superare l’inerzia politica. La sfida della comunicazione tra esperti tecnici e responsabili politici è rilevante oggi come lo era negli anni ’70. I responsabili politici e gli esperti non possono basarsi esclusivamente su qualifiche semiquantitative come “di solito”, “occasionalmente” e “eventualmente”. Un evento è “possibile” quando la sua probabilità di verificarsi è di 1 su 10 e rimane “possibile” quando le probabilità sono scese a 1 su un milione. Un cambiamento di probabilità di oltre cinque ordini di grandezza ha implicazioni politiche. Termini che bastano per i discorsi di tutti i giorni non sono adeguati per seguire e adattarsi a una situazione dinamica come un’epidemia di influenza. La responsabilità dell’esperto tecnico in questo caso è quella di riflettere attentamente e precisamente su ciò che è noto e sconosciuto, di rappresentare l’incertezza in modo accurato e modificabile nel tempo al variare delle circostanze, e di comunicarlo ai responsabili della politica. Sia i responsabili politici che gli esperti tecnici si trovano di fronte a un dilemma di comunicazione più complesso quando si tratta di raggiungere il pubblico, la cui comprensione, il cui sostegno e la cui partecipazione possono diventare cruciali.

D: Ci si era chiesti se dichiarare una pandemia nel ’76?

R: All’epoca non esisteva un sistema di classificazione generalmente riconosciuto per descrivere il potenziale di una pandemia. Ancora oggi, pochi cittadini sono in grado di dire cosa significano i livelli di pandemia quattro, cinque o sei. Un modo naturale di pensarla potrebbe essere la scala Saffir-Simpson (scala per la misurazione dell’intensità dei cicloni tropicali, N.d.T.), un sistema di misurazione dell’intensità del vento. Tuttavia, la nostra scala di potenziale pandemico riflette la probabilità di una pandemia e non la sua gravità. Idealmente, un sistema di classificazione delle pandemie dovrebbe prevedere la probabilità che si verifichi, la scala prevista e la gravità prevista. È anche importante che i responsabili politici lascino spazio per spiegare gli scostamenti verso il basso e verso l’alto.

D: Perché la risposta all’epidemia di influenza suina del ’76 è stata considerata un fallimento?

R: Nel processo decisionale, il difetto strategico fondamentale è stata la combinazione di tutti gli aspetti della risposta in un’unica decisione “procedere o meno”: la decisione di procedere alla caratterizzazione del virus in un vaccino, di produrlo, testarlo e somministrarlo ad ogni uomo, donna e bambino negli Stati Uniti che è stata presa e annunciata nel marzo del ’76 in un sol colpo. Questa grande lezione è stata recepita dai responsabili politici: distinguere ciò che è necessario fare, per prepararsi a decisioni future, dal giungere a conclusioni e annunciarle prima che le informazioni pertinenti siano a disposizione. Ad esempio, si può procedere allo sviluppo di un vaccino, ma non è necessario decidere contemporaneamente se procedere con l’immunizzazione, quale sarà lo scopo e chi saranno i destinatari preferenziali. Nei prossimi mesi, impareremo molto dalla diffusione o meno del virus nell’emisfero sud, dagli studi sulla distribuzione per età dell’attuale epidemia, dai test sul campo sull’immunogenicità del vaccino e molto altro ancora. Tutto ciò è fondamentale al fine di orientare le scelte politiche in merito a un vaccino.

D: Nel 1976 le informazioni sono state tenute nascoste al pubblico per paura di provocare il panico e di compromettere la capacità dei politici di ottenere voti?

R: Non credo che la parte politica sia entrata in gioco. Quando avete parlato con i partecipanti, come abbiamo fatto noi, alcuni esperti tecnici hanno ritenuto che decisioni che sembravano premature dovessero servire a un’agenda politica. Allo stesso tempo, i responsabili politici hanno sempre pensato che gli scienziati non avessero altra scelta se non quella di procedere con un programma di immunizzazione di massa. Per questo motivo abbiamo posto l’accento sulla comunicazione e sulla trasparenza in merito alla natura e al cambiamento di questa incertezza nel tempo, perché ciò avrebbe permesso agli esperti di essere ascoltati e ai politici di fare scelte informate.

D: I Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) hanno perso credibilità durante la vicenda dell’influenza suina del ’76, non solo a causa dei circa 30 decessi dovuti a reazioni avverse al vaccino?

R: Una volta intrapreso il proprio percorso, il CDC non ha stabilito una base di revisione e riesame della situazione. Con l’evolversi dei fatti, come l’assenza di ulteriori casi, il perseguimento da parte del CDC della strategia originale di immunizzare tutti è diventato sempre più controverso e costoso in termini di credibilità a lungo termine. Da un punto di vista tecnico, politico e di politiche, è molto difficile affrontare eventi di scarsa probabilità, eventi che sono relativamente improbabili, ma che avrebbero conseguenze catastrofiche se si verificassero. Quando si prospetta un evento di questo tipo, chi sostiene che si sta reagendo in modo eccessivo ha più probabilità di avere ragione che di sbagliare. È proprio come la persona che dice: “Non comprate l’assicurazione per la vostra casa quest’anno, non andrà a fuoco”. Alla fine di ogni anno, per la maggior parte di noi questa sarà stata una decisione conveniente, ma la valutazione di quanto sia stato saggio può essere fatta solo con il senno di poi. In prospettiva, è imprudente non avere l’assicurazione. Si tratta di una sfida fondamentale per i politici rispetto alle numerose minacce di questo tipo, tra cui quelle di una  pandemia.

D: Quali altre sfide ha comportato la risposta del ’76?

R: Problemi di responsabilità legale sono sorti quando gli assicuratori si sono rifiutati di assicurare i produttori di vaccini in caso di azioni legali. Le prove sul campo hanno suggerito che i bambini avrebbero avuto bisogno di due vaccini per ottenere una protezione adeguata, complicando la logistica. I problemi amministrativi abbondavano perché i vari stati erano molto diversi tra loro per quanto riguardava la capacità di somministrare i vaccini. Se si immunizza un numero molto elevato di anziani, inevitabilmente alcuni avranno un infarto il giorno dopo, quindi bisogna preparare il pubblico a tali eventi. In una città, alcuni anziani sono morti di infarto poco dopo essere stati vaccinati e le vaccinazioni sono state temporaneamente sospese. Alla fine, ci sono stati decine di casi di sindrome di Guillain-Barré (si veda anche Dottoressa grave dopo l’iniezione del vaccino Pfizer, N.d.T.). Se ci fosse stata una pandemia, questo non avrebbe fatto notizia, ma, in assenza di influenza suina, questi rari eventi sono stati sufficienti per porre fine al programma.

 

D: E la mancanza di comprensione dei media da parte del CDC nel ’76, in particolare la conoscenza delle reti televisive, non ha aiutato?

R: Nel ’76, due grandi network hanno elaborato la storia iniziale di un programma di immunizzazione in modi diversi, e ciò ha creato differenti atteggiamenti in ogni canale televisivo nel corso di tutto l’anno. Il network che ha parlato con le personalità politiche di Washington è giunto alla conclusione che il programma di immunizzazione doveva essere una decisione scientificamente motivata. Il network che ha parlato con i principali esperti del CDC, che credevano che si trattasse di un caso di “colpevoli a prescindere dal fatto che si facesse o meno”, ha concluso che la decisione doveva essere politica. Oggi siamo ben oltre. È molto più sofisticato trattare con i mezzi di comunicazione di massa. Lavorare con i media è ancora cruciale. La questione ora è come la sanità pubblica possa utilizzare a suo vantaggio anche i nuovi media, il web, twitter, i blog e le capacità di comunicazione elettronica. Si tratta di una nuova svolta rispetto alla vecchia sfida.

Link: https://www.who.int/bulletin/volumes/87/6/09-040609/en/

 

Scelto e tradotto da Cinthia Nardelli per ComeDonChisciotte

 

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