Di Comidad
Ad una prima e superficiale impressione potrebbe sembrare che
il senatore leghista Claudio Borghi abbia ragione a recriminare su certe reazioni ad un suo commento sul discorso di Mattarella in occasione della festa della Repubblica. La comunicazione mediatica conosce solo il lessico, procede per vocaboli slegati ed ignora la sintassi; perciò, al cospetto di un periodo ipotetico, la mente del giornalista vacilla e si aggrappa alla singola parola dal senso più forte. In questo caso la parola era “dimettersi”. Ma non era giusto correre a scandalizzarsi, poiché c’era un “se”, una condizionalità: se fosse vero ciò che ha detto Mattarella sulle elezioni dell’8 e 9 giugno, che secondo lui consacrerebbero la sovranità europea, allora non avrebbe senso tenersi un nostro Presidente della Repubblica.
In realtà, più che irriguardosa o eversiva, l’osservazione di Borghi risulta incongruente; poiché, in base al
discorso di Mattarella del 2 giugno, la domanda logica avrebbe dovuto invece riguardare l’utilità delle elezioni, per le quali non si finge nemmeno più che servano a qualcosa; infatti non si capisce per che cosa si vada a votare visto che ha già deciso tutto Mattarella. Insomma, dove sarebbe questa paventata “cessione di sovranità”? Persino sulla guerra in Ucraina, la linea la impone lui: niente “baratti”, perciò alla Russia non rimarrebbe che ritirarsi con la coda tra le gambe di fronte all’incrollabile fermezza della NATO. Probabilmente Mattarella è il primo a sapere che sono soltanto chiacchiere, ma il senso è che i limiti del recinto li stabilisce lui. Del resto è il Presidente della Repubblica a presiedere il Consiglio Supremo di Difesa; un superpotere che neppure le attuali ipotesi riformatrici nel senso del cosiddetto ”premierato” (definite da alcuni un “oltraggio” a Mattarella) si sognano di contestare. Durante la riunione del Consiglio Supremo di Difesa del maggio scorso
il ministro Crosetto è rimasto addirittura sopraffatto dallo stress e ricoverato per problemi cardiaci.
Pur nella sua apparente spregiudicatezza, la posizione di Borghi non prende atto che, senza più il contrappeso di partiti di massa, era inevitabile che diventasse monarca un Presidente a capo delle Forze Armate (e quindi dei servizi segreti), che presiede il Consiglio Superiore della Magistratura, che ha i poteri di nomina dei ministri e di scioglimento delle Camere, che sceglie cinque membri della Consulta, che firma le leggi, eccetera. Persino il Governatore della Banca d’Italia è nominato per decreto del Presidente della Repubblica; sembra solo una formalità ma non lo è affatto. A questo punto fanno ridere quelli che dicono che saremmo una democrazia liberale basata sulla separazione dei poteri. Ancora più ridicola è l’illusione di limitare l’invadenza della magistratura ostacolando i poteri di indagine delle Procure; come se all’occorrenza i dossier già pronti non arrivassero dai servizi segreti. La nostra Costituzione “più bella del mondo” era stata formulata sul presupposto erroneo che i grandi partiti di massa fossero una componente ineliminabile della politica. Negli anni ’70 chi avesse detto che il PCI poteva svanire da un giorno all’altro, sarebbe stato preso per scemo; eppure è accaduto.
Secondo alcuni nel super-presidenzialismo all’italiana il Capo dello Stato non è più il garante della Costituzione, bensì il garante dei “vincoli esterni” derivanti dai Trattati internazionali. Certamente è così, ma è anche vero che il vincolo esterno non nasce per imposizione dall’estero ma per dinamiche interne alle oligarchie italiane; è un’invenzione nostrana in funzione della spremitura delle classi subalterne. Quale sarebbe infatti il potere coercitivo degli altri paesi europei nei nostri confronti? Minacciare di farci il favore di cacciarci dall’euro o dall’UE? In una recente intervista al “Sole-24 ore” l’ex Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha dichiarato che i suoi veri referenti in Italia sono stati i Presidenti della Repubblica, mentre ha sempre scavalcato i Presidenti del Consiglio. Nell’intervista c’è anche un altro dettaglio importante, che riguarda le informazioni sulla situazione interna alla politica italiana che Juncker aveva potuto acquisire tramite i Presidenti della Repubblica. In altri termini, ogni volta che a Bruxelles i nostri governi pretendono di debordare dal proprio ruolo di addetti alle pubbliche relazioni, possono essere ridimensionati grazie a ciò che si viene a sapere su di loro. I nostri media hanno cercato di mettere in ombra le dichiarazioni più gravi di Juncker enfatizzando i suoi aneddoti su Conte, ma comunque si tratta di un gossip che riconferma il fatto che ai nostri Presidenti del Consiglio non si deve alcun riguardo, mentre al Presidente della Repubblica se ne deve di rispetto, eccome.
In un’altra dichiarazione Borghi ha ipotizzato che l’intoccabilità dei Presidenti della Repubblica derivi dalla loro provenienza dal PD. In tal caso sarebbe strano che un partito in grado di conferire la virtù dell’intoccabilità agli altri, poi non riesca a trattenerne un pochino anche per sé, visto che il PD è un partito universalmente disprezzato, deriso e vilipeso, ed è certamente il più ricattabile da parte dei media a causa di questa sua immagine così fragile. Per quanto riguarda invece Mattarella, siamo al culto della personalità ormai conclamato e plateale, dato che non c’è occasione pubblica che non si risolva in una
“standing ovation” nei suoi confronti; roba che altrove non potrebbero permettersi neppure Putin o Xi Jinping.
In questo senso l’attuale governo Meloni rappresenta la fase più matura e compiuta della fintocrazia, in quanto la “premier” non solo finge di governare, ma esplicitamente fa intrattenimento, proponendo se stessa come personaggio di una fiction o di un reality show: una Cenerentola popolana che ha scalato l’alta società ed è ascesa ai fasti della reggia, a dispetto dell’invidiosa sorellastra Elly Schlein. Non si fa più appello ad aspettative sociali o economiche dell’elettorato; bensì ad un meccanismo psicologico analogo a quello del tifo sportivo, del following o delle “soap opera”. Si parla tanto dell’astensionismo oppure del voto controllato illegalmente; ma c’è anche un nucleo irriducibile di elettori a cui votare piace moltissimo, così come non riesce a fare a meno dello psicodramma della sfida tra destra e sinistra, e della partecipazione al talk-show collettivo che consiste nel giustificare il malgoverno dei propri amici con l’alibi del precedente malgoverno dei propri nemici. All’atto pratico però i due schieramenti, pur divisi dall’astio reciproco, si somigliano. Il revisionismo costituzionale della Meloni ha infatti la stessa “fissa” dei suoi predecessori, fin dai tempi di Craxi, cioè assicurare la decisionalità e la durata dei governi contro le imboscate parlamentari; mentre invece il vero potere di interdizione e ricatto ce l’ha quella “melma” che risulta dall’intreccio degli apparati del cosiddetto “Stato” con gli interessi privati.
La fiaba però funziona meglio se si racconta che le buone intenzioni della Meloni sono sabotate dalle perfide opposizioni parlamentari.
In una recente dichiarazione ad “Open”, Bruno Vespa ha respinto l’accusa di essere il consulente d’immagine della Meloni, ha professato umiltà e distanza dai giri del potere, infatti parlava a tu per tu con Andreotti. Ha anche smentito di essere figlio di Mussolini; ed in effetti, al confronto di Vespa, il Duce era un povero dilettante.
Poi il conduttore di “Porta a Porta” si è atteggiato anche lui a vittima della “sinistra”, che gli ha tarpato le ali al punto da concedergli soltanto sessant’anni di costante onnipresenza sugli schermi televisivi. In effetti c’è di vero che il rapporto con la Meloni non è di “consulenza”, bensì di vera e propria costruzione e accreditamento del personaggio; insomma il creatore e la creatura. Le vere gerarchie sono quindi capovolte, poiché è la precaria Meloni a dipendere da quell’autentico oligarca che è Vespa.
Di Comidad
13.06.2024
Fonte: http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=1217