di Sonia Milone per Comedonchisciotte
Luciano Boi è professore di Geometria, Teorizzazione Scientifica e Filosofia della Natura presso il Centre des Mathématiques della École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e docente di Logica e Filosofia della Scienza all’Università di Cagliari.
Ha studiato filosofia, matematica e fisica nelle università di Bologna, Parigi e Berlino.
Ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, fra cui un award della Guggenheim Foundation di New York e una fellowship dell’Institute for Advanced Study di Princeton.
Un curriculum lunghissimo che rispecchia il vasto campo delle sue ricerche di cui riportiamo solo alcuni dati: ha collaborato con il Centro di Fisica Teorica e Cosmologia dell’Observatoire de Paris-Meudon e con l’Istituto Matematico di Tolosa; ha svolto lunghi soggiorni di ricerca e d’insegnamento a Berlino, Montreal, Princeton, Heidelberg, Lisbona, Calcutta, Roma e Città del Messico; ha pubblicato libri con le più autorevoli case editrici come Johns Hopkins University Press, Oxford University Press, Cambridge University Press, Springer, MIT Press, World Scientific, American Institute of Physics Publishers.
Le sue ricerche riguardano diversi aspetti della matematica e i suoi fondamenti concettuali, le interazioni tra geometria e fisica teorica, l’interfaccia topologia-biologia, la modellazione geometrica e fenomenologica della percezione spaziale, la filosofia e la storia della scienza, nonché le interconnessioni fra scienza e arte.
Professore, “Fermiamo il genocidio, l’appello degli intellettuali”, pubblicato su Comedonchisciotte il 30 ottobre 2023, ha commosso i nostri lettori: hanno risposto in molti, sia intellettuali sia persone comuni. Lei è l’ideatore e l’autore del testo. Come è nata l’idea dell’appello?
L’appello è nato da una reazione spontanea e naturale, direi quasi fisiologia, a qualcosa di assolutamente inaccettabile rispetto ai principi e valori essenziali e universali del diritto ad avere una propria terra e una propria cultura, e della morale che stabilisce il rispetto inalienabile della vita e della dignità umana.
È un pò come quando, con minore intensità, nella vita di tutti i giorni ci insorgiamo contro qualcosa che percepiamo come totalmente ingiusto, per esempio di fronte a uno dei tanti atti di violenza fisica o morale a cui si è quotidianamente confrontanti. Il silenzio in questo caso di fronte alla tragicità inaudita dei fatti a cui assistiamo sarebbe equivalso all’oblio e all’indifferenza.
Certamente la riflessione e lo studio di avvenimenti complessi ed estremi richiedono serietà e sono necessari al fine di comprenderne le cause e gli sviluppi, ma una tragedia umanitaria e umana delle dimensioni e della gravità di ciò che sta vivendo il popolo palestinese richiedeva e richiede un’azione, anzi una molteplicità di azioni rivolte ad infrangere il muro del silenzio egoista e complice, un atto di coraggio che cominciasse con l’esprimere liberamente il proprio pensiero sull’immane tragedia umana che sta sotto gli occhi di tutti ma che la stragrande maggioranza degli individui non vuole vedere.
Nella lettera-appello Lei esplicita, senza mezzi termini, che i complici di questo “crimine immane” sono, da un lato, le grandi potenze economico-finanziarie e militari, dall’altro, soprattutto, “il pensiero unico e asservito”, il silenzio e l’indifferenza della società civile che definisce come “primo colpevole”. Vuole tornare su questo punto?
I responsabili di questo crimine sono innanzitutto il governo, i ministri e i capi militari israeliani. Tuttavia non avrebbero potuto prendere da soli la decisione di scatenare una guerra totale contro il movimento di Hamas, in realtà contro il popolo palestinese, senza, da una parte, l’appoggio di una buona parte degli israeliani e in particolare dei coloni che hanno occupato con l’aiuto dell’esercito le terre dei palestinesi distruggendo quello che di più caro avevano, cioè le case, gli oliveti e gli strumenti di lavoro, e senza il sostegno finanziario, militare e politico delle grandi superpotenze occidentali, in primis degli Stati Uniti e dei principali paesi europei, Inghilterra, Germania, Francia e Italia. Molti altri paesi appoggiano la guerra condotta da Israele, dall’Ucraina all’Argentina, che non sono certo modelli di democrazia e di giustizia.
Questo sostegno totale e incondizionato degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali europee ha diverse ragioni storiche, geopolitiche e culturali, tutte probabilmente riconducibili al fatto che essi condividono con Israele lo stesso modello economico-sociale, gli stessi valori proclamati formalmente ma non realmente realizzati di libertà e di giustizia fondati sull’alleanza fra ricchezza (che può essere accumulata anche a detrimento degli altri), presunta superiorità culturale (rispetto ad altre culture e civiltà) ed eccezionalità religiosa (rispetto in particolare alle religioni non monoteiste).
Nella sfera mondana, questi tre valori si traducono, rispettivamente, in egoismo, in potere di dominio e di controllo sugli altri e nel privilegio assoluto (per così dire divino) di sancire cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è ingiusto, chi possiede la ragione e chi non la possiede.
Dal punto di vista filosofico e antropologico, essi appaiono del tutto privi di fondamento sul piano scientifico, illogici sul piano del pensiero razionale, e inaccettabili sul piano etico ed umano. Una tale alleanza costituisce il cemento più solido che unisce Israele con gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali europee ed esso si rinsalda ancor più, paradossalmente, in momenti di crisi e di conflitto armato come quello che stiamo vivendo in questi mesi, trasponendosi in una giustificazione assoluta e in una difesa ad oltranza di tutte le decisioni prese e in tutti gli atti compiuti da Israele, anche di quelli che possono e devono essere qualificati di sterminio, di “crimini” di guerra e umanitari.
Il secondo punto della sua domanda può essere maggiormente chiarito considerando quanto ho appena detto. Ogni decisione presa e ogni atto compiuto da Israele, anche quello di bombardare un altro territorio, di distruggere tutto ciò che in esso si trova, dalle case agli impianti idrici ed elettrici, dalle scuole agli ospedali, di uccidere decine di migliaia di persone, di cui una buona parte sono bambini e anziani (cioè persone inermi e indifese), l’abbiamo visto in questi ultimi mesi e continuiamo a vederlo in questi giorni, non solo non suscitano nessuna reazione (almeno di indignazione e di condanna) o un’azione collettiva e a tutti i livelli della società civile e delle istituzioni rivolta a impedire e/o a fermare un atto di sterminio di un popolo, ma esse/essi possono essere perpetrati con tale determinazione ed efferatezza perché godono dell’impunità da parte delle grandi superpotenze e incontrano l’indifferenza della maggioranza della popolazione; appare chiaro che l’impunità e l’indifferenza sono i primi alleati di coloro che compiono atti di guerra del tutto ingiustificati e i peggiori avversari di chi subisce tragicamente quegli atti.
C’è da chiedersi: come è possibile che a Israele sia consentito di fare quello che ad altri sarebbe immediatamente impedito? Perché tale impunità e tale indifferenza? Quali sono le loro vere ragioni? Cosa le produce e le alimenta?
Abbiamo visto sopra che le grandi superpotenze, gli Stati Uniti e le potenze che guidano l’Europa facendola sprofondare nell’abisso culturale e politico, partecipano attivamente alla guerra di Israele contro il popolo palestinese, sostenendola pienamente sul piano militare, finanziario e politico, e in questo modo essi ne sono certamente complici.
Il “pensiero unico e asservito”, generato all’interno stesso di questi paesi e voluto dai pochi monopoli finanziari e digitali che controllano l’informazione e dettano le decisioni strategiche riguardanti gli assetti economici e sociali mondiali sovranazionali e che nello stesso tempo gravano sulle condizioni di vita di ogni singolo paese e individuo, produce una notevole riduzione degli spazi in cui si elabora e si condivide il pensiero critico, indebolisce, fino in molti casi a dissolverla, l’autonomia delle proprie riflessioni e la consapevolezza delle scelte che siamo chiamati a prendere in diversi e tanti momenti della nostra vita.
Il “pensiero unico e asservito” tende a seguire sempre un unico e medesimo schema, generalmente superficiale e condizionato da altri, a causa per esempio di mancanza di letture approfondite o d’informazione da fonti originali e attendibili; segue la massa (o il “gregge”) e si lascia suggestionare dalle mode fittizie e dalla propaganda insulsa. In altre parole, il “pensiero unico e asservito” è un terreno sterile che può originare solo insignificanza, cioè rinuncia a pensare attraverso il logos, a porsi domande e a cercare risposte, ad avere una visione, a dare un senso alle cose e alle proprie azioni. Si può dire che è il maggiore avversario della diversità e della complessità essenziali che caratterizzano il mondo naturale e umano, cioè l’intelligenza, la sensibilità e la cultura.
È chiaro dunque che il “pensiero unico e asservito” è il terreno che più favorisce l’inconsapevolezza e l’indifferenza, che a loro volta fanno si che atti atroci come quelli che stanno compiendo da più di sei mesi il governo e l’esercito israeliani in Palestina non suscitino immediatamente una reazione adeguata e generale da parte delle istituzioni mondiali, nazionali e di tutti i cittadini, e che al contrario trovino sostegno politico e militare, cosa vergognosa e contraria a ogni logica di giustizia e di pace, e una complicità diffusissima in tutti gli strati della popolazione umanamente incomprensibile se non evocando una disinformazione totale e un asservimento a un non pensiero (un amalgama ottuso di banalità e ignoranza) i quali generano solo assuefazione e indifferenza, cioè l’assenza dell’azione e la morte dello spirito.
Ecco perché nell’appello ho/abbiamo scritto che ”il pensiero unico e asservito, il silenzio e l’indifferenza sono il ’primo colpevole’ del genocidio in corso”. Il governo e l’esercito israeliano sanno bene che questa è un’arma che gioca a loro favore e infatti l’hanno sfruttata al massimo sin dall’inizio delle operazioni di guerra che conducono contro un popolo che, come tutti i popoli, ha il sacrosanto diritto all’autodeterminazione.
Il silenzio e l’indifferenza, anche se non uccidono direttamente incoraggiano a farlo e rendono possibili tragedie immani come l’eliminazione di migliaia di persone, bambini e anziani innocenti e inerti. Di fronte a tale tragedia tutti gli esseri che si dicono ancora umani dovrebbero sentire l’esigenza razionale e il dovere morale di resistere, ribellarsi e agire per fermare un crimine collettivo deliberato e continuare a farlo finché non si ottengono la giustizia e la libertà di un popolo.
In fondo è dell’umano e della vita che si tratta! Sembra che questa “verità“ essenziale e universale molti di noi l’abbiano completamente smarrita, e in primis i responsabili delle istituzioni internazionali e nazionali, i politici così come molti intellettuali, le cui azioni e scelte denotano una perversione totale (alimentata spesso anche da un’immensa ignoranza e ipocrisia) e una rinuncia alla loro libertà e dignità spirituali per allearsi con progetti infami: sono uomini e donne con importanti responsabilità pubbliche (spesso ottenute corrompendo o lasciandosi corrompere) che combattono contro l’umano, che pur di aumentare il loro successo personale (ed elettorale) e i loro privilegi (e profitti) non esitano a finanziare le guerre che hanno come effetto d’annientare, di negare l’esistenza dell’uomo stesso, di altri uomini. Qui si tocca l’apice dell’assurdo. Finché non ci rivoltiamo non saremo pienamente liberi e coscienti delle nostre scelte.
“La rivolta – scriveva Camus – è il solo modo di superare l’assurdo. (…) Ma la rivolta deve servire a che l’uomo rifiuti e abiuri il crimine come cosa normale”. Affinché la rivolta dia i risultati sperati, occorre pensare da uomini d’azione e agire da uomini di pensiero.
Professor Boi, come è possibile che una società abbia perso la capacità di distinguere il bene dal male? Come spiegare che il male di pochi è reso possibile dal silenzio dei tanti? Quanto pesa la responsabilità dell’indifferenza?
Alla sua domanda risponderei innanzitutto con una puntualizzazione filosofica, che è importante in generale e opportuna nel contesto specifico in cui ci troviamo. Già i filosofi greci (che hanno ancora tante cose da insegnarci e non solo i “grandi” Platone, Aristotele, Pitagora ed Eraclito) parlavano dell’impossibilità di dare un’unica definizione del “bene” e del “male”, di dire cosa sono de facto et de jure il bene e il male.
Persino i filosofi morali contemporanei, che forse hanno studiato meglio di altri il problema, hanno difficoltà a definire queste due categorie (è un pò analogo a quanto accade per i concetti di tempo, spazio, coscienza, spirito, e di ben altre nozioni della scienza e della filosofia). Si tratta di un valore, di un precetto, di un fine, di un suggerimento o di un imperativo categorico?
Solo i riduzionisti di turno o gli scientisti rozzi e dogmatici (che ahimè non mancano e anzi occupano sempre di più la scena pubblica arrecando grande danno alla conoscenza e alla comprensione della nostra realtà complessa!) oserebbero affermare con certezza che il sentimento morale, così come altri sentimenti (per esempio quello estetico), è un dato puramente biologico o neurofisiologico determinato da corredo genetico di ciascuno, perciò fondamentalmente innato e quindi un qualcosa che non ha nulla a che vedere con la nostra volontà e cultura, con l’ambiente in cui cresciamo e ci formiamo.
D’altra parte, le religioni monoteiste hanno sempre preteso che le due categorie non solo siano completamente distinte ma che esse siano opposte o il contrario l’una dell’altra, senza tuttavia poter offrire un ragionamento fattuale o un argomento razionale capace di fondare una tale affermazione. Schematizzando un pò, si può dire che per le religioni monoteiste è “bene” tutto ciò che viene fatto in nome di un Dio (unico e assoluto), dal momento che Egli, per verità non dimostrata ma rivelata tramite un atto di fede, non può che volere il “bene” e mai il “male” per gli uomini creati a sua immagine e somiglianza.
La debolezza e contraddittorietà di una tale dottrina appare piuttosto evidente. Per ovviare a una tale debolezza e rafforzare il fondamento umano della dottrina si aggiunge che il “bene” comporta l’assunzione che la vita di ogni singolo individuo è un valore supremo e universale inalienabile e tale deve rimanere qualunque siano le circostanze in cui essa si trova ad essere vissuta.
Va detto a questo proposito che storicamente molte guerre e molti crimini sono state scatenate in nome del “bene’, che fosse esso mondano o divino, in particolare del bene dell’incivilimento (termine usato da Leopardi e che oggi corrisponde in realtà a imbarbarimento; infatti, la corsa sempre più veloce verso l’incivilimento, oramai sinonimo di globalizzazione, digitalizzazione e artificializzazione, appare per molti aspetti come un progressivo e inesorabile inseguire la decadenza dell’uomo e dei suoi comportamenti, il declino del pensiero e del linguaggio – di cui l’inconsistenza e l’insignificanza sono i tratti più salienti -, e questo è dovuto precisamente in gran parte alla perdita delle tradizioni e della memoria, della diversità culturale e linguistica, della distruzione antropologica e cancellazione di intere civiltà, comunità, tradizioni filosofiche e letterarie, saperi e pratiche rituali, gestuali e mnemoniche, espressioni artistiche come teatro e musica) nei confronti delle presunte popolazioni primitive (o dei selvaggi), del bene dell’evangelizzazione di popoli che ancora vivevano seguendo miti e praticando rituali magici del tutto estranei a un’educazione religiosa e alla fede che sole possono renderci creature umane a immagine di Dio, del bene della trasmissione dei valori superiori della civiltà occidentale a popolazioni in qualche modo inferiori e in ogni caso sprovviste di tali valori.
Tutte e tre le accezioni del bene appena richiamate sono più o meno presenti anche nella guerra che Israele sta conducendo contro i palestinesi nel nome della lotta al terrorismo e al fanatismo islamico e ai loro favoreggiatori (cioè i palestinesi) e nel nome del non diritto di un popolo, perché “inferiore” e “arretrato”, ad avere una sua terra e un suo Stato. Così come lo sono state prima nelle guerre condotte dagli Stati Uniti e i suoi alleati contro l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia e in diverse altre regioni del mondo (dal Vietnam allo Yemen). Si evince chiaramente dalle precedenti osservazioni che il bene è servito spesso nel corso della storia e continua a servire oggi da alibi menzognero per poter commettere impunemente le più infami e inaccettabili atrocità.
Il grande storico della scienza Alexandre Koyré ebbe a scrivere (in “Réflexions sur le mensonge“, testo di una conferenza svolta a New York nel 1943) che «Perciò sosteniamo che nessuno ha mai mentito tanto quanto oggi e che nessuno ha mai mentito in modo così massiccio e completo come oggi. Infatti, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, fiumi di menzogne si riversano nel mondo. L’uomo moderno (…) bagna nella menzogna, respira la menzogna, è sottoposto alla menzogna ad ogni istante della sua vita. Per quanto riguarda la qualità – intendiamo la qualità intellettuale – della menzogna moderna, essa si è evoluta in direzione opposta al suo volume (ma io direi piuttosto: la qualità intellettuale della menzogna moderna si è evoluta in un rapporto inversamente proporzionale al suo volume). Del resto ciò si capisce. La menzogna moderna – e questa è la sua qualità distintiva – è prodotta in serie e rivolta alle masse. E tutta la produzione di massa, tutta la produzione – soprattutto quella intellettuale – rivolta alle masse, è costretta ad abbassare i propri standard. Quindi nulla è più raffinato della tecnica della propaganda moderna, nulla è più crudo del contenuto delle sue affermazioni, che rivelano un disprezzo assoluto e totale per la verità».
Penso che Koyré, pur mantenendo per intero queste sue affermazioni, sarebbe tuttavia portato a dire che gli strumenti tecnologici che si hanno oggi di fabbricare la menzogna e di farla passare per verità, di smontare sistematicamente ogni sforzo per capire e avvicinarsi a delle idee vere seppur parziali e non definitive (a spiegazioni giustificate e plausibili dei fenomeni e dei fatti), sono infinitamente più sofisticati e perfidi.
La verità è diventata estranea all’uomo, non gli è più consentito cercarla, ma deve solo subire la menzogna travestita da (subdola) verità. L’arte di fabbricare il falso (e la propaganda per diffonderlo attraverso i vari media) ha sostituito l’arte del dubbio, la meraviglia rispetto alla natura e al mondo e la ricerca di un inizio di verità e poi di una verità sempre più profonda ed estesa. Tutti gli spazi per cercare di comprendere, di dare spiegazioni ai problemi (la ricerca del vero è questo, e non quella che consisterebbe nel trovare una verità unica, assoluta e definitiva) si stanno chiudendo sempre di più, e il pensiero unico che viene promosso e diffuso ha come scopo quello di vanificare ogni sforzo per pensare criticamente e autonomamente.
Alla prima puntualizzazione, deve però seguire un’ulteriore precisazione per così dire complementare alla precedente. Il fatto che non si possa erigere una barriera assoluta e definitiva tra il “bene” e il “male”, non significa l’impossibilità di distinguere fra un’azione moralmente lodevole e una riprovevole, fra una decisione giusta e una ingiusta, fra un comportamento che cerca il dialogo e uno che cerca la violenza; e non significa neanche che tutto è lecito dal momento che è possibile, e che tutto si deve poter fare perché si ha voglia di farlo.
In questo modo si passa da un dogmatismo morale che, come abbiamo visto, assegna al bene un valore assoluto che sta al di sopra dell’umano e della vita degli esseri umani, a un relativismo altrettanto assoluto che elimina ogni distinzione oggettiva – ossia riconducibile ai fatti e alle loro cause che vanno analizzate e spiegate – e soggettiva, ovvero relativa a principi e valori filosofici, antropologici ed etici fra cui le decisioni e le azioni umane.
Occorre perciò affermare la possibilità e la necessità di distinguere e di definire intersoggettivamente categorie fondamentali come quelle di democrazia, di libertà e di giustizia, non in modo univoco e assoluto ma come principi normativi ed antropologici di convivenza individuale e collettiva e altresì come fini volti a stabilire non solo i limiti entro i quali deve svolgersi l’azione degli Stati, dei governi e di ogni singolo cittadino, ma anche a promuovere la cooperazione tra di essi nel rispetto della loro reciproca autonomia culturale e politica nonché e soprattutto a migliorare le virtù essenziali di ogni essere umano.
È doveroso aggiungere, in riferimento al massacro che si sta compiendo a Gaza e in altri territori palestinesi, che il governo e l’esercito di Israele violano le diverse accezioni del bene (inteso nel senso di democrazia, libertà e giustizia) che abbiamo evocato, vale a dire come principio normativo, fondamento giuridico e fine morale universale, in barba a tutte le risoluzioni delle istituzioni e del diritto internazionali e in barba a certi principi etici fondamentali e valori morali universali, in primis il riconoscimento del diritto per gli altri popoli ad esistere e il rispetto inviolabile della vita e della dignità umane.
Come ha scritto Italo Calvino: «I perseguitati di un tempo si sono trasformati in oppressi. (…) Io personalmente vedo la soluzione del problema palestinese nella via rivoluzionaria tanto nel mondo arabo quanto nelle masse israeliane. Rivoluzione degli israeliani poveri (e in larga maggioranza di origine mediorientale o nordafricana) contro i loro governanti coloniali, ma anche rivoluzione delle masse popolari dei paesi arabi contro le oligarchie reazionarie e militariste (anche se si dicono più o meno socialiste) che sfruttano il problema palestinese per demagogia nazionalista. La vera resistenza non è soltanto lotta contro un invasore esterno: dev’essere lotta per un rinnovamento profondo della società nel proprio paese».
Si può infine dire, per rispondere all’ultima parte della sua domanda, che quando, anche se pochi in numero, i più potenti sul piano economico e militare lo sono anche su quello politico, tecnologico e della propaganda mediatica a livello mondiale, e se in più godono di uno statuto privilegiato esclusivo, allora diventa possibile che la loro posizione di supremazia e sfera d’influenza pervengano a ridurre al silenzio la maggior parte delle persone e a vanificare gli sforzi degli altri.
A generare l’indifferenza contribuisce anche un’informazione superficiale e unilaterale o una propaganda del tutto fabbricata basata su una narrazione totalmente distorta e sull’uso sistematico della menzogna come arma per annientare il pensiero critico e dissuadere da ogni forma di ribellione.
Questo è quanto accade e sta accadendo su scale diverse: di uno o più paesi, di una comunità o di individui: il silenzio e l’indifferenza di tanti favorisce e consente sempre la prepotenza e le atrocità di pochi, e in questo senso si può dire che l’indifferenza ha una parte notevole di responsabilità nelle sciagure e ingiustizie umane.
Professor Boi, Pierpaolo Pasolini scriveva che “il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano” la società. Abbiamo invece assistito, negli ultimi anni, al tradimento della quasi totalità degli intellettuali, muti e asserviti al potere. Come spiega questa involuzione storica? Gli intellettuali possono ancora avere un ruolo oggi?
Pier Paolo Pasolini era un autentico intellettuale come pochi ce ne sono stati in quegli anni e ancor meno dalla sua morte in poi (d’altronde la sua tragica fine non è molto probabilmente estranea al suo anticonformismo e al suo impegno civile). Certo anche Italo Calvino, Giuseppe Ungaretti, Andrea Zanzotto, Leonardo Sciascia e Ludovico Geymonat (per fare solo qualche esempio) sono stati dei grandi intellettuali attivi nel periodo che va dal dopoguerra agli anni ottanta e oltre.
Un tratto comune li univa, e cioè il fatto di saper affiancare alla curiosità, allo studio e alla creatività filosofica, scientifica o letteraria un impegno civile sincero e costante sui grandi temi della società e della cultura, spesso impegnandosi in prima persona nelle battaglie fondamentali per la libertà d’espressione, per una reale democrazia partecipativa e per un’effettiva giustizia in tutti gli ambiti della società e della cultura, che deve cominciare con l’offrire pari opportunità nell’apprendimento, nella formazione e nel lavoro indipendentemente dalla condizione sociale di ciascuno.
Oggi assistiamo invece a un aumento impressionante della forbice per quanto riguarda la distribuzione delle risorse, le retribuzioni nel lavoro, le possibilità di accesso a mansioni di responsabilità nella pubblica amministrazione, e altresì alla crescita delle diseguaglianze sociali in tutti i settori, da quello della scuola e della cultura a quello della salute e del tempo libero.
Se è vero, da una parte, che “sapere è potere” (come spesso si usa dire), dall’altra è anche vero che il potere si accompagna spesso d’arroganza e d’ignoranza. Chi ha troppo potere, soprattutto quando esso è usurpato, non è portato a fare uno sforzo, a cercare di migliorarsi, a studiare, a condividere con gli altri quello che ha e sa. Non cercherà o studierà per il piacere di capire e scoprire o al fine di trasmettere agli altri curiosità, conoscenze e capacità, ma per aumentare il suo potere e rafforzare i suoi privilegi.
Va chiarito che l’intellettuale non è colui che si specializza in un settore molto specifico o su un aspetto estremamente ridotto di un oggetto di ricerca, e tanto meno può dirsi intellettuale colui che per mezzo dei suoi studi ha acquisito uno status professionale importante nella piramide sociale.
Va anche chiarito che il termine stesso “intellettuale”, da intellectus, ossia esercizio delle nostre facoltà intellettive (di cui parlava già Aristotele nel “De anima“, IV secolo a.C.), della ragione o del logos, indica la nostra capacità, specificatamente umana, di meravigliarci, di dubitare, di pensare, cioè di formare ed esprimere pensieri attraverso la riflessione e il linguaggio, pertanto non indica uno strumento o un mezzo per acquisire una professione e tanto meno esso può essere identificato all’esercizio di una professione.
Robert Musil e Carlo Emilio Gadda sono dei grandi scrittori e letterati non perché fossero anzitutto professionalmente degli ingegneri ma perché hanno elaborato un pensiero originale, perché hanno prodotto un’opera letteraria di grande profondità che ancora oggi ci parla e ci offre chiavi per capire la realtà e la psicologia umana.
Ricordiamoci che Platone collocava la filosofia fra le attività intellettuali più essenziali e anche più nobili, e attribuiva al filosofo (nella “Repubblica“) il difficile compito di governare, che per lui significava comprendere il bene collettivo e tradurlo in leggi e atti politici adeguati. Per il suo allievo Aristotele, il principale compito dell’intellettuale era quello di studiare metodicamente i fenomeni e di comprendere le cause attraverso l’osservazione empirica e la spiegazione teorica.
Da quando Max Weber ha analizzato la professionalizzazione del lavoro intellettuale (in “La scienza come professione“, 1917) si può dire che la figura dell’intellettuale come uomo capace di pensiero e di azione è stata progressivamente scalzata da quella dell’intellettuale come professionista specialista di un oggetto molto settoriale ma incapace di formarsi una visione d’insieme dei problemi e delle conoscenze nel suo campo o di esprimere un pensiero critico su temi che rivestono un interesse scientifico, filosofico o artistico fondamentale.
Il fenomeno è molto diffuso tra gli “intellettuali” che appartengono alle professioni liberali come ingegneri, avvocati, ragionieri e managers per i quali l’intelletto è messo a profitto della professione, del guadagno e dello status sociale.
All’altro estremo della specializzazione angusta e riduttiva abbiamo gli intellettuali opinionisti che parlano di tutto e di niente e di preferenza lo fanno nei talk show televisivi o sui social. Per loro pensare è “un parlare a vuoto” “un parlarsi addosso“ percorrendo sempre lo stesso circolo vizioso del pensiero che si fa mero strumento di comunicazione, dove la parola è un dire senza più contenuto, pensiero, cioè è vuota, allo stesso modo di un corpo senza più sostanza, movimento e sensibilità; sono intellettuali da salotto o da caffè: parlare serve a nutrire il loro narcisismo più che il pensiero e la comprensione dei fatti.
Come ha scritto il neurobiologo Lamberto Maffei (in “Appaio dunque penso”, apparso sull’Avvenire, 21 maggio 2021), «le loro opinioni su ciò che è buono e ciò che è cattivo alimentano un dibattito reiterativo che non può, o forse non vuole, incidere sulla realtà. Si tratta di opinioni per lo più prevedibili “di destra” o “di sinistra” per semplificare, di volta in volta destinate a essere condivise da ben individuate persone della società, che in quelle volentieri si riconoscono e si rinforzano.
Quello che manca è l’elaborazione di un progetto politico a tutto tondo, magari anche impopolare, rivolto in prima istanza ai governanti e di cui gli intellettuali dovrebbero farsi mediatori con i cittadini in un lavoro che non esiterei a definire educativo. (…) Gli opinionisti hanno necessità di essere presenti e quindi, per loro, apparire, diventa importante. (…) Appaiono così frequentemente sullo schermo, nei talk show televisivi, sui social, spesso nello stesso giorno a ore diverse, ripetendo le stesse parole e suoni e gesti; la ripetizione quasi ossessiva dello stesso spettacolo è un altro mezzo neurologicamente potente per imprimere il messaggio nella memoria degli spettatori. La ripetizione ossessiva è la stratega della propaganda di qualsiasi prodotto. Gli intellettuali apparenti (cioè che appaiono) cercano con la stessa strategia di comunicare il loro pensiero apparente e bisogna ammettere, con successo.
È improbabile tuttavia che un intellettuale apparente parli della vergognosa iniquità delle disuguaglianze, la cui terapia può solo consistere in una ridistribuzione delle risorse economiche prendendo dalle tasche di chi ha accumulato grandi o immense ricchezze.»
Queste riflessioni di Maffei possono essere ricollegate, a distanza di ottanta anni, a quelle ancora oggi di grande interesse scritte nel carcere da Antonio Gramsci e poi stampate nel volume “Gli intellettuali“, in cui lo studioso e uomo politico attribuisce agli “intellettuali organici” il fondamentale compito di organizzare i contenuti della scuola e della cultura per un loro studio rigoroso e approfondimento critico e anche di profondi principi educativi che aiutino la formazione di una società più giusta e democratica.
Italo Calvino attribuiva agli intellettuali la funzione di coscienza critica rispetto alla società e al potere. Essi devono avere un ruolo di stimolo e mettere in discussione idee sbagliate e accettate acriticamente. Il loro impegno culturale deve prima di tutto tradursi nella capacità di restituire la complessità del mondo dei fenomeni naturali e umani e uno sguardo critico sui loro atti di interesse pubblico.
Per ritornare a Pasolini, penso che uno dei più importanti insegnamenti che possiamo trarre dal suo esempio è proprio quello a cui lei fa riferimento, cioè la sua lotta incessante per smascherare le menzogne che il potere e i suoi centri di propaganda tentano di fabbricare pur di ottenere quello che vogliono e innanzitutto l’obbedienza servile o l’asservimento, volontario o involontario, delle persone, e la loro mutazione in consumatori di oggetti materiali e immateriali, dove loro stessi diventano una merce come le altre: in questo modo l’essere umano subisce un deterioramento qualitativo e cognitivo per diventare oggetto di consumo e merce di scambio.
D’altronde, Pasolini è stato uno dei pochi intellettuali a capire che «il potere ha bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore».
Andrebbe aggiunto: non solo consumatore di merci superflue di vario genere, ma anche di pubblicità insulsa, cronache unilaterali, informazioni false, opinioni insignificanti, insomma gli ingredienti necessari per ottenere l’amalgama del “pensiero unico”. E paradossalmente, «più nun sanno e più sono imbevuti di false informazioni più pensano di sapere» (Giordano Bruno).
È sconcertante e triste nello stesso tempo vedere che la maggioranza di quelli che impropriamente si chiamano ancora “intellettuali” hanno rinunciato a pensare e ad agire e altro non sono che venditori di prodotti immateriali e delle volte anche materiali (quando approfittano dei talk show per fare pubblicità ai loro libracci, oggetti dei quali già il genio Gottfried Wilhelm Leibniz deplorava la pubblicazione e la diffusione, poiché – scriveva già ai suoi tempi – essi sono un ostacolo alla conoscenza e non fanno che aumentare l’ignoranza dei più…) e soprattutto di parole volgari e vuote spacciate per delle idee, e la cui principale preoccupazione è quella di voler apparire ad ogni costo, di essere alla ribalta, di occupare la scena e l’audience nei media.
Tale è diventata la principale occupazione di molti politici, parlamentari, senatrici e senatori a vita, scienziati professionisti e in particolare accademici, contro i quali già inveiva il filosofo Arthur Schopenhauer nella grande opera “Il mondo come volontà e rappresentazione“, ingiustamente mortificato e ostacolato nella sua carriera, e dopo di lui l’ingegnere-scrittore Robert Musil stigmatizzava con vena ironica nel suo saggio “Sulla stupidità”, in cui leggiamo: «La costituzione non artistica di un popolo si esprime non solo in tempi cattivi in modo brutale ma anche in tempi buoni in tanti modi, a tal punto che tra la repressione o divieto o laurea ad honorem, tra nomina accademica o assegnazione di un premio ci sono [solo] differenze di grado».
Va notato che la critica della spettacolarizzazione della cultura e della degradazione dei costumi non è nuova ma risale a tempi antichi, tant’è che il grande poeta e filosofo romano Lucrezio nel I° secolo d.C. scrisse: «L’avidità e la cieca brama di onori, che spingono i miseri uomini a varcare i confini della legge e talvolta, compagni e ministri di colpa, a cercare di giorno e di notte con tutte le forze di emergere a somma potenza: sono queste le piaghe della vita, in gran parte nutrite dal terrore della morte». (“Denique avarities et honorum caeca cupido quae miseros homines cogunt transcendere finis iuris et interdum socios scelerum atque ministros noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes, haec vulnera vitae non minimam partem mortis formidine aluntur”).
Pasolini è stato un esempio d’intellettuale che pensava da uomo d’azione e agiva da uomo di pensiero. E come lui gli altri che ho citato all’inizio. Oggidì la maggior parte degli intellettuali ha rinunciato a pensare e ad agire, il che costituisce chiaramente un’involuzione culturale e morale che ha i caratteri di un vero e proprio declino spirituale (cioè della crisi profonda di un modello di società e di civiltà). O forse non ne sono più capaci in un’epoca in cui domina una tecnologia dell’informazione che punta a omologare e a banalizzare tutto, innanzitutto le idee.
La riflessione di Lamberto Maffei (in “Elogio della lentezza”, 2014) sembra focalizzarsi su questo punto. Egli scrive infatti: «La capacità critica rischia di diventare una illustre sconosciuta, almeno tra i nativi digitali che “divorano” social media dalla mattina alla sera e, non di rado, pure di notte. È questa, dunque una delle conseguenze che si riscontrano in chi è bombardato da messaggi: diventare una sorta di “protesi del pensiero”, senza più spirito critico».
Il risultato di questa globalizzazione dei messaggi è che possa influire sulla capacità di prendere decisioni e in un comportamento sempre più condizionato da una spinta alle decisioni rapide in una corsa che non lascia più tempo per ascoltare, colloquiare e forse neanche per riflettere e pensare.
Questa capacità critica è un bene prezioso, una caratteristica fondamentale dell’uomo e della sua specificità, che tra l’altro lo distingue da tutte le altre specie viventi. Con la riduzione progressiva della capacità critica, uno dei rischi maggiori è “perdere l’io”, in un livellamento delle menti: uno scenario che potrebbe suggerire l’immagine di un gregge che risponde collettivamente a messaggi globali, e disposto a “seguire un pastore”, inteso come “colui che grida”».
Per ritornare nuovamente a Pasolini, si può dire che sia stato un intellettuale integrale o “organico”, per riprendere l’espressione di Antonio Gramsci, che al tema degli sviluppi della cultura e delle sue diverse espressioni ha dedicato delle pagine bellissime e profondissime, ed è stato capace di congiungere teoria e pratica, creatività poetica ed artistica e impegno sociale e civile.
Con onestà ed eleganza Pasolini ha combattuto fino all’ultimo contro ogni forma di conformismo e di servilismo, quale che fosse la loro origine religiosa e matrice politica, incontrando spesso un muro di incomprensione e anche di derisione. Egli scrisse che la volgarità è il momento di pieno rigoglio del conformismo.
Non dobbiamo essere sudditi di un potere corrotto e incapace, e questo passa innanzitutto da un rifiuto consapevole a non essere più consumatori di notizie futili e d’insulse pubblicità.
Per Pasolini, l’essere asserviti significava accettare di farsi corrompere e di vivere da corrotti, e questo stato era per lui contrario alla libertà e dignità umana; l’asservimento (o l’assoggettamento) priva appunto l’uomo del suo essere, del suo essere umano. La battaglia di Pasolini rimane più che mai valida.
Professor Boi, Lei ha curato, nel 2022, insieme a Umberto Curi, Lamberto Maffei e Luigi Miraglia, “In difesa dell’umano”, un corposo libro edito da Accademia Vivarium Novum e da Bibliopolis che contiene numerosi contributi di figure di spicco del mondo scientifico e umanistico internazionale. Come per l’appello contro il genocidio, anche su questo tema è forte in Lei la chiamata a una levata di voce degli intellettuali. Perchè l’umano oggi va difeso? Come possiamo difenderlo?
Innanzitutto è opportuna una premessa di natura linguistica e concettuale. L’umano esiste in quanto esiste l’uomo, ovvero ne è l’attributo essenziale poiché lo contraddistingue rispetto a tutte le altre specie viventi, anche le più evolute come i primati che sono i nostri antenati.
L’umano non è solo ciò che è peculiare alla specie biologica “uomo” ma anche ciò che più specificatamente la biologia evolutiva e la paleontologia chiamano “homo sapiens”, cioè l’uomo dotato di ragione o di logos (e di capacità cerebrali qualitativamente e strutturalmente diverse rispetto ai suoi antenati) e dunque capace di sviluppare un pensiero razionale che egli può esprimere in molteplici forme, teoriche, pratiche e simboliche, e attraverso diversi linguaggi, ad esempio scientifici, filosofici, artistici e letterari.
Queste forme e questi linguaggi fanno dell’uomo un essere dalla doppia natura, biologica-fisiologica e culturale-simbolica, ed è grazie ad essa che egli è al contempo un essere singolare e universale.
La sua “singolarità” riguarda diversi aspetti della sua costituzione anatomico-morfologica (pensiamo al significato evolutivo che ha comportato l’acquisizione lenta e graduale della posizione eretta da parte dell’“homo erectus” circa due milioni di anni fa) e neuro-cognitiva (si pensi all’aumento straordinario del volume del cervello e del numero di connessioni tra le cellule nervose, e al prodigioso sviluppo delle funzioni mentali e delle capacità linguistiche).
Gli aspetti culturali e sociali dell’evoluzione umana hanno svolto un ruolo fondamentale per permettere un pieno sviluppo della sua sfera psichica, in particolare della memoria e della coscienza (riflessione auto-cosciente sui suoi pensieri e le sue azioni). Si tratta di due fenomeni particolarmente multiformi frutto molto probabilmente di una interazione complessa specifica all’uomo tra le sue funzioni biologiche e la sua formazione culturale, tra il cervello e l’ambiente.
A questo proposito conviene sottolineare un punto rilevante, ossia, da un lato, l’errore in cui molti spesso incorrono di negare l’importanza della determinazione e individuazione biologica (per esempio la morfologia, la struttura sensori-motrice del corpo o il sesso) dell’essere umano e dell’influenza che essa esercita sulle sue attività propriamente intellettive e culturali; dall’altro, la riduzione della complessità culturale e psichica dell’uomo alla sua sola costituzione biologica e neuro-fisiologica e più precisamente la descrizione delle sue funzioni complesse in termini solamente dei suoi geni e di un presunto programma genetico, e per quanto riguarda il pensiero, in termini unicamente del suo substrato chimico-fisico neuronale.
In termini più scientifici e filosofici, per conoscere la complessità dell’uomo e dell’umano, dove per umano si deve intendere l’insieme delle proprietà e qualità psichiche specificatamente attribuibili all’uomo, è necessario abbandonare sia il punto di vista puramente “culturalista” (ispirato a un relativismo culturale che evacua semplicemente la questione del fondamento ontologico dell’essere), basato sull’idea della negazione della natura biologica dell’uomo, sia la concezione riduzionista della vita e della mente che pretende spiegare lo sviluppo ontogenetico, filogenetico e antropologico dell’uomo sulla base unicamente dei suoi costituenti molecolari e dei suoi geni. I due approcci, apparentemente opposti, sono in realtà specularmente riduzionisti.
Il neurobiologo francese Alain Prochiantz ha scritto giustamente che «L’uomo ha fatto la sua apparizione nella natura ‘per caso’, tramite mutazioni improbabili. Non sarebbe mai dovuto accadere, proprio come la comparsa della vita. Ma non si può tornare indietro. Le modificazioni biologiche che hanno permesso all’uomo di sviluppare la sua intelligenza lo hanno proiettato fuori dalla natura. (…) Non possiamo più dire di essere animali come gli altri. L’uomo è per natura ‘a-natura’. È una “a” privativa. “Essere – e non essere – un animale”: rivendico la mia animalità e allo stesso tempo ciò che mi è specifico in quanto umano. (…) L’attuale tendenza a negare la differenza tra uomini e animali mi spaventa. Non è tanto che stiamo animalizzando l’uomo – abbiamo questa violenza animale dentro di noi – (…), ma che vediamo ogni animale come un uomo. (…) Il “desiderio di essere una scimmia” sembra perseguitare alcuni esseri umani. È vero che condividiamo un antenato comune con la scimmia, ma 7 milioni di anni ci separano da quell’antenato e ognuno di noi si è evoluto per conto proprio. Tutti abbiamo in mente immagini di scimpanzé che lavano le patate prima di mangiarle o che usano ramoscelli per catturare le termiti. Questi sono solo artefatti. C’è un abisso tra l’uomo e la scimmia».
Vorrei aggiungere due altre brevi considerazioni a quanto detto finora. La prima è che l’universo psichico dell’uomo si compone non solo di funzioni cerebrali e capacità razionali, ma anche di qualità sensibili (la sensibilità è parte dell’intelligenza) e di virtù: alle prime appartengono certamente le emozioni, l’intuizione, l’immaginazione e il sogno (quella che chiamiamo creatività umana sarebbe impossibile senza di esse); alle seconde appartengono comportamenti e scelte che rendono l’uomo consapevole delle sue azioni e che conferiscono alla sua vita un senso estetico e morale e lo rendono prima di tutto un essere sociale, cioè un essere che per vivere ha bisogno di tessere relazioni con altri esseri umani, di scambiare pensieri ed esperienze attraverso il logos, stare insieme, parlarsi ed ascoltarsi, condividere idee ed emozioni, tutto ciò ci rende più umani e contribuisce a formare la nostra intelligenza e sensibilità e ad arricchire la nostra vita.
Non c’è vita senza relazioni, l’essere umano è una creatura relazionale, che cresce socializzando e impara a pensare in modo autonomo e critico attraverso il dialogo con gli altri. Ad di fuori di questa “scuola” virtuosa di relazioni fatte di attenzioni, emozioni e pensieri, c’è solo la barbarie, l’insignificanza e spesso la solitudine che alle volte sprofonda in dipendenza o peggio ancora in malattia.
Il carattere sociale, relazionale e concreto (corporeo e gestuale) è un elemento di primaria importanza anche nei processi di apprendimento scolastico e nella formazione di ragazzi e adolescenti.
È un punto che si trova sottolineato più volte nell’interessante e prezioso studio del neuro-psichiatra tedesco Manfred Spitzer (i risultati delle sue ricerche sono stati presentati e discussi nel libro “Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi“, Corbaccio, 2013). Egli scrive: «La nostra capacità di usare le dita, e soprattutto le opportunità di cui godiamo nell’infanzia per contare con le dita, sono significative per la capacità numerica. Varie ricerche dimostrano che i bambini dell’asilo che hanno potuto giocare di più con le dita in seguito presentano un’attitudine matematica più elevata, l’esercizio delle dita migliora le capacità matematiche. Se davvero desideriamo che un numero molto elevato di bambini che oggi frequentano la scuola materna in futuro si appassionino per la matematica, che cosa dovremmo privilegiare all’asilo: i computer portatili o i giochi con le dita? La risposta della scienza è univoca: giochi con le dita! (…) È stato chiarito da tempo che accompagnare le parole con un gesto aiuta l’apprendimento. (…) In breve, i gesti sono parte di piccoli ricordi concreti (memoria episodica). (…) In altre parole, la capacità di elaborare contenuti acquisiti dipende dal modo in cui sono stati assimilati. (…) Se ne deduce che solo attraverso l’apprendimento con il contatto e la manipolazione il modello di attivazione motoria del cervello diventa parte della struttura concettuale. Ovvero, il modo in cui si impara qualcosa determina il modo in cui il contenuto verrà memorizzato nel cervello. Pertanto, chi osserva il mondo solo spostando e cliccando sul mouse, come suggeriscono alcuni sostenitori della pedagogia digitale, saprà pensarlo “meno bene”, ovvero molto più pigramente. Perché un clic del mouse non è altro che un atto meccanico e ripetitivo e non rappresenta una forma di manipolazione e rielaborazione di un oggetto. (…) I giochi con le dita, il contatto con gli oggetti e la loro manipolazione manuale, così come la lettura sui libri e la scrittura con carta e matita, sono operazioni essenziali per l’acquisizione di importanti capacità linguistiche e cognitive, e hanno una grandissima importanza perché servono anche, come nel teatro e nell’apprendimento musicale, a unire movimenti e azioni, descrizioni e presentazioni, linguaggio e pensiero, ragionamento e immaginazione».
L’indifferenza può essere anche causata dalla nostra pigrizia mentale, dallo spegnersi della conoscenza e del desiderio di conoscere l’altro. «Molte ricerche condotte particolarmente su bambini e adolescenti evidenzialo che i media digitali danneggiano la capacità empatica e le relazioni sociali. Altri studi fatti soprattutto dagli psicologi si concentrano sugli effetti negativi della violenza mediatica sul comportamento umano. Essi mostrano che i soggetti occupati con i videogiochi violenti impiegano molto più tempo a reagire a qualcosa che accade intorno a loro e che richiede il loro soccorso (per esempio nella stanza vicina o nella strada accanto), e in molti casi non si rendono neppure conto della gravità di quanto accade, e semmai se ne accorgono non gli danno importanza. Il che dimostra che chi sperimenta scene di violenza digitale è insensibile alla violenza percepita come reale. I videogiochi violenti, quelli dove ciascuno spara sugli altri e dove si assiste all’annientamento insensato e molto realistico di fantomatici avversari, causano l’annullamento delle capacità umane di provare compassione per il prossimo; in termini più scientifici: un fenomeno di desensibilizzazione» (M. Spitzer, op. cit.).
La seconda considerazione che vorrei fare evidenzia quello che è forse un paradosso, o per certi versi quella che può apparire (insieme ad altre) un’aporia costitutiva dell’uomo (della natura umana), che possiamo riassumere come segue:
se è vero che l’umano non può esistere senza l’uomo, non necessariamente l’inverso lo è (non v’è reciprocità tra le due proprietà); e, infatti, l’uomo può esistere senza l’umano e addirittura contro l’umano, e d’altronde è quello che succede sempre più spesso, tant’è che l’orizzonte che si profila e che volutamente molti si prefiggono è di eliminare quanto più possibile ciò che c’è di umano nell’uomo, ossia di sostituire quell’insieme di qualità e virtù che più sopra abbiamo chiamato “umane” (che poco hanno a che fare con il nostro DNA, ma che si acquisiscono grazie a una lenta maturazione e trasmissione naturale e culturale, rese possibili soprattutto dalle relazioni vive e stimolanti che stabiliamo tra noi e l’ambiente) con dispositivi automatizzati e macchine artificiali svuotate di contenuto e di significato e in cui il ruolo dell’uomo, del suo corpo in movimento, della sua percezione attiva e del suo pensiero creativo risultano praticamente assenti.
L’automatizzazione e l’artificializzazione dell’uomo, la meccanizzazione delle sue funzioni corporee e mentali, lo conducono inesorabilmente alla sua obsolescenza e assenza, a una sua patologica solitudine e a una mancanza di relazioni con il mondo degli esseri viventi della natura e degli umani.
L’interfaccia tra l’uomo e la macchina, sempre più diretta ed esclusiva a favore della macchina, e che procede sempre più velocemente impartendo ritmi e tempi che non sono quelli biologici, cognitivi e psichici dell’uomo, ha eliminato ogni mediazione e interazione indispensabile dell’uomo con la natura, il mondo vissuto e gli altri esseri umani. Su questo aspetto si vedano le riflessioni interessanti di Lamberto Maffei (in “Elogio della parola“), di Manfred Spitzer (in La demenza digitale), già citati, e di Stefano Isola svolte recentemente in un’intervista (del 14 febbraio 2024) a questo stesso sito. Mi limito a citare un passo particolarmente significativo delle considerazioni di Isola: «Sarà quindi compito di chi mantiene salde le radici nella molteplicità auto-creatrice della dimensione umana attivare processi di auto-educazione popolare e costruzione di concrete alternative, magari proprio a partire dal fronte più antico di esautoramento ed espropriazione da parte del Leviatano digitale, quello dell’agricoltura contadina e del lavoro artigiano. Altrimenti ci aspetta un mondo dove ragione e parole saranno ormai inutili perché caos e violenza ne avranno preso il posto».
Posta questa lunga premessa, la sua domanda richiede una risposta ancora più mirata.
L’umano va difeso perché è minacciato come forse mai lo è stato nel passato, sia dal punto di vista della sua diversità biologia sia da quello della sua diversità culturale. Il pericolo, infatti, è quello di una mutazione antropologica e neuro-cognitiva inedita (senza comparazione possibile con le altre avvenute nel corso della storia naturale ed evolutiva che hanno riguardato la nostra specie uomo) e irreversibile (senza cioè più la possibilità di cambiare e di scegliere un altro cammino). La mutazione rischia di essere antropologica perché sconvolgerà i fondamenti stessi della natura umana, da quelli biologici con l’accelerazione che sta conoscendo l’ibridazione artificiale del corpo umano con la macchina attraverso l’implementazione di apparati artificiali sempre più sofisticati, e genetica con le diverse manipolazioni del corredo genetico dell’embrione e dei caratteri somatici dell’individuo, anch’esse di natura artificiale, a quelli culturali con l’ideologia della cancellazione di pagine intere della storia delle civiltà dell’uomo attraverso i millenni e i secoli, delle sue creazioni letterarie, filosofiche e scientifiche da un lato, e infine con le tecniche sofisticatissime di manipolazione del pensiero dell’uomo e d’annichilimento delle sue capacità critiche.
Nell’opera collettiva che lei cita nella domanda, “In difesa dell’umano. Problemi e prospettive”, uscito a ottobre del 2022 presso le edizioni dell’Accademia Vivarium Novum/Bibliopolis (Frascati-Napoli), che ho curato con Umberto Curi, Lamberto Maffei e Luigi Miraglia, si sottolinea il fatto che la mutazione antropologica dell’uomo è legata a una serie di eventi concatenati che caratterizzano l’epoca in cui stiamo vivendo. Il legame logico-causale è qui di seguito espresso dalle frecce (che vanno viste come dei vettori, con un verso e una direzione, ma alle quali si possono associare anche una grandezza come forza, entropia, dissipazione, ecc.).
Il dominio d’una visione tecnicistica del mondo e la colonizzazione tecnologica del pianeta la digitalizzazione di massa vista come nuova missione d’evangelizzazione la deriva della civiltà come comunità viva d’esseri pensanti liberi la dissoluzione della specificità e universalità dell’umano il declino del logos in tutte le istanze della vita individuale e collettiva la scomparsa del dubbio e dello stupore come strumenti per capire il mondo che ci circonda l’impoverimento dei processi di formazione e di socializzazione (nelle scuole, nel lavoro, nei luoghi di cultura, nelle città e nei paesi) la scomparsa dell’intellettuale come formatore dello spirito critico e seminatore di conoscenza e di cultura e la sua sostituzione con l’intellettuale preso dalla frenesia d’apparire a ogni costo, oramai schiavo di mode più o meno bizzarre e ambigue dell’attualità.
Nel saggio “Elogio della ribellione” (Il Mulino, 2018), il neurofisiologo Lamberto Maffei scrive: «Pur nell’ammirazione e desiderio di conoscenza delle nuove scoperte scientifiche io guardo con timorosa precauzione al fenomeno della pandemia tecnologica e ho una biologica naturale paura di trovarmi a vivere in una società di tecnici-robotizzati che hanno trovato l’algoritmo del nuovo bene collettivo basato su un’analisi accurata dei big data. Se il pensiero, il senso morale e per così dire l’anima, fossero rimpiazzati da meravigliosi, efficienti algoritmi capaci di migliorare il benessere dei cittadini, l’aggettivo umano potrebbe essere cancellato dal vocabolario e la biologia dovrebbe constatare una diminuzione di biodiversità».
La fase storica attuale è caratterizzata dalla sempre più evidente inconsistenza ed evanescenza del mondo reale, dall’eliminazione dell’umano e dalla sua sostituzione con un essere virtuale (da una macchina che, secondo il sogno prometeico dei cibernetici e fautori dell’intelligenza artificiale – Robert Wiener, von Neumann e Alain Turing -, dovrebbe svolgere tutte le funzionalità del corpo e della mente senza limiti ed errori), da un’insignificanza e insensatezza diffuse (cfr. Cornelius Castoriadis, Post-scriptum sur l’insignifiance, entretien avec D. Mermet, 2007). Citiamone un breve passo: «C’è un legame tra la nullità della politica ultraliberale, questo divenire della politica inetta, e l’insignificanza negli altri campi, nelle arti, nella filosofia e nella letteratura. È questo lo spirito del tempo: senza alcuna cospirazione di una potenza qualsiasi che potremmo designare, tutto cospira, nel senso che respira, nella stessa direzione e per gli stessi risultati, e questo tutto è l’insignificanza».
Questi caratteri sono al contempo causa ed effetto di un impoverimento del pensiero e quindi dell’uomo, del prevalere dell’idea (o dell’ideologia) del progresso imposta a tutti gli aspetti della realtà, dello smarrimento di una sensibilità attenta alla complessità dei fenomeni naturali (della natura) e umani (della vita psichica dell’uomo) e dalla concomitante perdita dei valori semplici ed essenziali della vita, dalla monetizzazione del tempo, dalla cosificazione dell’uomo e dalla figura della desolazione. Su questi temi hanno svolto una riflessione letteraria profonda José Saramago nel romanzo-racconto “Cecità” (1996) e Ernesto Sabato nel saggio “La Resistencia” (Buenos Aires, 2000).
Il grande matematico Alexander Grothendieck ha scritto che «Le nostre menti sono sature di un sapere eteroclita, groviglio di paure e pigrizia, di appetiti improvvisi e di divieti indotti, di informazioni che non si sa da dove e da chi vengano, prive di ragione, senso e metodo e di spiegazioni preconfezionate e meccaniche». Per Grothendieck, un vero progetto educativo deve innanzitutto emanare da una riflessione sulla nostra attitudine rispetto alle cose e sulla nostra relazione con la realtà (su nostro “essere-al-mondo”). In particolare, bisogna capire che all’origine di ogni vero desiderio di conoscere c’è l’innocenza e la curiosità, e che queste sono molto più forti e virtuose della tanto decantata (erroneamente) potenza cerebrale e della corsa all’accumulazione di dati, fatti e tecniche (propugnata dall’ideologia dei big data). Solo l’innocenza e la curiosità si rivelano capaci di essere all’ascolto delle cose; non hanno paura di sbagliare e pongono domande apparentemente semplici; solo esse possono aspirare a superare le difficoltà che le vengono dai segreti racchiusi nella natura e nell’Universo. Solo la curiosità e lo stupore permettono una percezione viva dei fenomeni che accadono sia indipendentemente da noi e sia provocati (direttamente o indirettamente) da noi, un accesso alla conoscenza delle cose di questo mondo. Solo l’innocenza unisce l’umiltà e l’audacia che ci fanno penetrare nel cuore delle cose e che lasciano le cose penetrare in noi in modo così da impregnarcene. La scoperta è il privilegio di questo atteggiamento mentale che ci porta ad avere gli occhi pieni di stupore, desiderosi di conoscere, occhi nuovi capaci di vedere oltre le mere apparenze delle cose.
Dobbiamo riscoprire il potere di rinnovamento che c’è in noi, la nostra innocente curiosità, l’inaspettato (e imprevedibile) stupore davanti alle cose del mondo, i tesori nascosti nei fenomeni della natura e nelle pieghe sensibili delle persone».
Si avverte la necessità di una riflessione sul tema del senso e del ruolo delle qualità umane nel mondo d’oggi, e l’urgenza di un impegno rivolto a ripensare criticamente concetti fondamentali come quelli di educazione, cultura, conoscenza, libertà, giustizia, democrazia. Si sente inoltre il bisogno di unire questo ripensamento concettuale a una profonda ridefinizione dei paradigmi scientifici e filosofici della contemporaneità (sia nelle scienze della natura e del vivente, sia in quelle umani e sociali), nonché a un nuovo progetto culturale di società e umanità ispirato a una nuova visione e prassi filosofica che comporti un’armonizzazione e un giusto equilibrio dei limiti e delle possibilità, e altresì dei diritti e dei doveri, presupposto necessario per la salvaguardia di quelle qualità senza le quali non può esistere l’uomo.
di Sonia Milone per Comedonchisciotte
II Parte dell’intervista pubblicata mercoledi 15 maggio
NOTE
“Fermiamo il genocidio, l’appello degli intellettuali” pubblicato su Comedonchisciotte il 30/10/2023, promosso da Luciano Boi insieme a Fabio Bentivoglio, Guido Cappelli, Vincenzo Costa, Ezio Laconi, Lamberto Maffei, Michele Maggino, Lorenzo Maria Pacini, Paolo Quintili, Patrizia Scanu, Daniele Trabucco, Giuseppe Vitiello e sottoscritto da numerosi e autorevoli intellettuali.
Conferenza “In difesa dell’umano. Problemi e prospettive”
Conferenza “Scienza e umanesimo. In difesa dell’umano”, 22 Aprile 2023
RAI cultura, “In difesa dell’umano. Problemi e prospettive”, intervista a Fabio Bentivoglio, febbraio 2023