Di Sonia Milone per Comedonchisciotte
Luciano Boi è professore di Geometria, Teorizzazione Scientifica e Filosofia della Natura presso il Centre des Mathématiques della École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e docente di Logica e Filosofia della Scienza all’Università di Cagliari.
Ha studiato filosofia, matematica e fisica nelle università di Bologna, Parigi e Berlino.
Ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, fra cui un award della Guggenheim Foundation di New York e una fellowship dell’Institute for Advanced Study di Princeton.
Un curriculum lunghissimo che rispecchia il vasto campo delle sue ricerche di cui riportiamo solo alcuni dati: ha collaborato con il Centro di Fisica Teorica e Cosmologia dell’Observatoire de Paris-Meudon e con l’Istituto Matematico di Tolosa; ha svolto lunghi soggiorni di ricerca e d’insegnamento a Berlino, Montreal, Princeton, Heidelberg, Lisbona, Calcutta, Roma e Città del Messico; ha pubblicato libri con le più autorevoli case editrici come Johns Hopkins University Press, Oxford University Press, Cambridge University Press, Springer, MIT Press, World Scientific, American Institute of Physics Publishers;.
Le sue ricerche riguardano diversi aspetti della matematica e i suoi fondamenti concettuali, le interazioni tra geometria e fisica teorica, l’interfaccia topologia-biologia, la modellazione geometrica e fenomenologica della percezione spaziale, la filosofia e la storia della scienza, nonché le interconnessioni fra scienza e arte.
PROSEGUE LA NOSTRA INTERVISTA (QUI LA I PARTE)
Professor Boi, Lei insegna Geometria e Filosofia della Scienza, eppure usa ancora la lavagna col gesso e ama servirsi dei gesti durante le lezioni affermando che la mano è fondamentale per imparare le discipline scientifiche. Sostiene inoltre che l’immaginazione è una componente essenziale della scienza. Vuole spiegarci meglio?
L’insegnamento non può che avvenire ed essere trasmesso attraverso una relazione continua e diretta tra il docente e il discente. In altre parole, è un’esperienza di vita dove si acquisiscono gli strumenti concettuali per sviluppare un pensiero critico e formarsi alla ricerca. L’apprendimento a distanza non esiste e non ha senso. Lo studio ha bisogno di stimoli continui che a loro volta non possono venire che da un contato tra persone, da una presenza al contempo fisica e mentale, da una relazione che si costruisce continuamente. L’insegnamento e lo studio sono due processi attivi e dinamici che maturano grazie a uno scambio vivo. Ora il linguaggio, il movimento, i gesti, lo scrivere e il disegnare con la mano sono tutti elementi e momenti essenziali dell’esperienza vissuta dell’insegnamento e dell’apprendimento. La scrittura è essenziale per permettere a chi ascolta di seguire il filo del ragionamento, la concatenazione delle idee. Il disegno aiuta ad avere una comprensione più approfondita di queste idee perché permette di associare a ognuna di essa, a volte anche alle più astratte, delle immagini o rappresentazioni mentali che mostrano la struttura e le proprietà dell’oggetto o del fenomeno che si vuole descrivere e spiegare.
La possibilità di costruire immagini mentali è un momento essenziale della comprensione. La mano – e i gesti corporei che l’accompagnano -, come il libro, non è un’estensione qualsiasi del linguaggio tramite il quale si esprime un concetto ma è l’estensione del pensiero stesso; essa lo mette in movimento e lo rende più vivo e aperto a possibili analogie, accostamenti e passaggi fra idee diverse e a nuovi sviluppi.
Il corpo, il gesto, la mano, sono un linguaggio ricco e complesso, che svelano aspetti di una razionalità multiforme e processuale. Non v’è vera razionalità senza riflessione e immaginazione. Come il libro, questo linguaggio è il frutto di un lungo processo di maturazione. Il grande scrittore Louis Borges ha scritto che il libro, che i padroni della potentissima industria delle tecnologie digitali vorrebbero eliminare dalla scuola e dall’università, è una delle possibilità di felicità che abbiamo noi uomini. Sarebbe riduttivo e sbagliato pensare che il libro è un ente chiuso alla comunicazione: infatti, è molto più una relazione, è un asse di innumerevoli relazioni.
La parola è un’estensione del pensiero, ma il contrario non è necessariamente vero: infatti quello che si osserva è che la parola spesso serve a dissimulare l’assenza di pensiero ed è diventata (nel caso della pubblicità, dei media e anche di quello sportivo e pure politico) un banale e volgare veicolo del non-pensiero. Il libro è fra gli strumenti usati dall’uomo quello più stupefacente, ma è profondamente diverso da tutti gli altri strumenti, diciamo tecnici (e a fortiori da quelli tecnologici); il libro (e quindi la lettura e la scrittura) è un’altra cosa, è un’estensione dell’intelligenza, della memoria e dell’immaginazione.
La conoscenza è un processo in cui l’astrazione (il rigore) e l’immaginazione (l’intuizione) agiscono di concerto e in cui l’una ha bisogno dell’altra, dà frutti in presenza dell’altra. L’eliminazione del ruolo e del significato dell’intuizione e dell’immaginazione nella ricerca scientifica porterebbe a un’aridità del pensiero, a una stagnazione della creatività, a uno scientismo riduttivo e rozzo. La ricerca scientifica deve perdere l’aspetto puramente tecnico e applicativo per riprendere contatto con la riflessione individuale e la ricerca di immagini mentali profonde. Questo vale anche per la matematica, dove alla ricerca di un pensiero rigoroso (espresso in un linguaggio astratto, senza tuttavia scadere nel puro formalismo) occorre affiancare l’intuizione e l’immaginazione, anche quella estetica e artistica. Essa perderà certamente in certezza, in rigore, ma acquisterà un’importanza “umana”.
Il matematico, fisico teorico e filosofo Hermann Weyl riteneva che l’intuizione fosse un elemento essenziale della conoscenza matematica. Egli era dell’idea che fosse l’intuizione (o la visione, l’insight), piuttosto che la dimostrazione (proof), a fornire il fondamento essenziale della conoscenza matematica. Nel suo libro “Das Kontinuum” (1918), Weyl afferma che la maggior parte dei matematici pensano tipicamente che nella scienza valga il principio secondo il quale qualunque asserzione che può essere dimostrata non può essere considerata valida finché non se ne è fornita la prova. Diversamente da questo principio, Weyl ritiene che sia il processo di validazione di ogni singolo passaggio del ragionamento attraverso la visione immediata e globale che ne abbiamo, e non la dimostrazione di per sé stessa, che costituisce la fonte essenziale a partire dalla quale la conoscenza perviene alla verità, che chiamiamo “l’esperienza della verità” (experience of truth).
Per il matematico e filosofo della scienza René Thom, esiste un principio di complementarità anche in matematica, che domina l’intera nostra attività intellettuale, che si può enunciare come segue: tutto ciò che pretende essere assolutamente rigoroso è insignificante. Scrive Thom: «Hilbert aveva visto bene, nella sua assiomatica della geometria, che non si potrebbe accedere al rigore puro se non eliminando l’intuizione, privando i simboli di qualsiasi senso. Con rifiuto del formalismo puro, ed esigendo l’intelligibile, il futuro spirito scientifico accetta, a cuor leggero, il rischio dell’errore, che va anzi incoraggiato perché favorisce un atteggiamento critico e la maturazione di uno spirito autonomo, un universo trasparente, translucido, dove i contorni delle cose sono un pò sfocati e mobili, piuttosto che un universo perfetto e di assolute certezze, schiaccianti e indubitabili, come lo è stato quello delle sacre scritture quando si trattava di difendere il sistema aristotelico-tolemaico del cosmo, e come lo è per molti aspetti quello della fisica classica».
Per Thom, «ciò che limita il vero, non è il falso, è l’insignificante. Se devo scegliere tra rigore e significato non esito un istante a scegliere il secondo. Per raggiungere i limiti del possibile, bisogna sognare l’impossibile».
Ogni teoria scientifica, e la matematica non è estranea a questa idea, è suscettibile di ampi sviluppi perché esistono sempre problemi aperti. Ma anche i problemi risolti, per esempio in matematica, sono suscettibili di ampi sviluppi (di riformulazioni e ampliamenti concettuali), poiché ogni problema matematico veramente importante rassomiglia a un tema musicale di cui sono possibili interessanti variazioni.
Il matematico Ennio de Giorgi attribuiva alla matematica un valore sapienziale, che comprende nello stesso tempo un aspetto filosofico e uno artistico.
Egli scrive: «Come matematici dobbiamo trasmettere agli altri l’amore per la nostra disciplina come componente essenziale della saggezza umana e far capire che la matematica è qualcosa di più della semplice abilità di calcolo, della pura manipolazione di numeri. Certamente lo studio dei numeri è stato l’inizio della matematica, ma questa, accanto ai problemi di tipo quantitativo, studia anche problemi di tipo qualitativo».
«Io penso – continua De Giorgi – che all’origine della creatività in tutti i campi ci sia quella che io chiamo la capacità o la disponibilità a sognare, a immaginare mondi diversi. In questa libertà di sogno, il matematico non deve fermarsi agli oggetti di cui si può dare un’immediata rappresentazione sensibile, deve muoversi liberamente tra oggetti “reali” e “ideali”, “concreti” e “astratti”, “visibili” e “invisibili”, “finiti” e “infiniti”.
Il matematico Alain Connes, fondatore della geometria non-commutativa, pensa che la matematica contiene idee fondamentali sul mondo, che parti importanti di esso sono in qualche modo strutturate dalla matematica (si pensi al ruolo delle simmetrie nel dare un ordine al mondo), e inoltre, che i concetti matematici ci dicono qualcosa di essenziale sulla vita stessa (pensiamo qui, per esempio, alle diverse forme geometriche che può assumere la doppia elica della molecola di DNA durante un ciclo vitale della cellula). Egli afferma che le idee matematiche permettono di mettere il pensiero in movimento, alla condizione che si lavori nella durata (il concetto di durée – durata – è stato elaborato dal filosofo Henri Bergson in particolare nel suo libro “Durée et Simultanéité” (Durata e simultaneità), del 1922, per differenziarlo dal tempo della fisica così come Albert Einstein l’aveva poco prima definito nelle sue due teorie della relatività, speciale e generale; e ancora prima da Edmund Husserl nell’opera “Per la fenomenologia della coscienza intima del tempo (1893-1917), Ia ed. in tedesco apparsa nel 1893), invece che nel tempo cronofisico, e in una certa idea del tempo della coscienza. Scrive Connes: «Quando effettuiamo un lungo calcolo algebrico, la durata necessaria è spesso propizia all’elaborazione nel cervello della rappresentazione mentale dei concetti utilizzati. È per questo che il computer, che dà il risultato di un tale calcolo sopprimendo la durata, non è necessariamente un progresso. Si crede guadagnare del tempo, ma il risultato brutto di un calcolo senza la rappresentazione mentale del suo significato non è affatto un progresso».
Il topologo americano William Thurston ha sottolineato la natura autenticamente umana della conoscenza matematica, non riconducibile a puri formalismi o a calcolo: «Molti hanno l’impressione che la matematica sia qualcosa di austero e formale, con regole complicate e in definitiva oscure utili per manipolare numeri, simboli ed equazioni, qualcosa come la preparazione della macchinosa dichiarazione delle imposte. Ma la vera matematica è esattamente il contrario di ciò. Infatti, essa è un’arte della comprensione umana».
Robert Musil, ingegnere e scrittore, ed anche interessato alle questioni della fisica e della matematica, nell’”L’uomo senza qualità” (1930), scrive: «(…) se il senso della realtà esiste e nessuno metterà in dubbio il suo diritto all’esistenza, allora dovrà esistere anche qualcosa che si può chiamare senso della possibilità, definito come la capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere e non ritenere che ciò che è, è più importante di ciò che non è».
La matematica è innanzitutto la capacità di pensare a quello che ancora non è e di non fermarsi a quello che è, per cercare l’impossibile in quello che esiste, per rendere visibile ciò che è invisibile. A questo proposito, Musil scrive (in “Turbamenti del giovane Törless“, 1906) che esistono due modi di accostarsi alla matematica: uno che, per comodità e fissando un termine senza assumerne le connotazioni di giudizio negativo, diremo “cinica” (o “opportunistica”), opposta ad un’altra che, adottando l’aggettivo di Musil, chiameremo “passionale”. La prima è la matematica del regolo calcolatore, dell’ingegnere e del banchiere, ed è la matematica dell’utile, del noto e del certo. La seconda è la matematica dell’ignoto e della possibilità, della fantasia e dell’onestà, del pensiero mobile e dell’esercizio gratuito e innocente. È questo secondo modo di fare matematica, oscillante tra il gioco e la mistica, che assume per sua natura un carattere spiritualmente coraggioso e persino audace».
Nella matematica v’è dunque una componente ludica (perfino sensuale) e una componente mistica, più vicina alla metafisica che alla religione. E infatti, la matematica può essere vista come una sorta di metafisica, nel senso ch’essa va oltre la fisica sia sul piano concettuale sia su quello del linguaggio. D’altronde, etimologicamente il termine stesso indica che la matematica si astrae dalla fisica, e oltre a idealizzarne i suoi oggetti empirici scopre nuovi concetti, strutture e proprietà delle stesse. Lo stesso vale per la filosofia, di cui una delle peculiarità è proprio quello di concepire ed elaborare nuovi concetti.
Il gesto (e quindi il corpo e la mano) svolgono un ruolo essenziale nelle arti come la musica, la pittura e il teatro. Tuttavia, sono importanti anche nella scienza e in particolare in fisica e nella matematica, dove la nostra mente ci permette di afferrare con un singolo gesto di pensiero infinite relazioni.
Quando si fa ricerca o s’insegnano la topologia e la geometria, è fondamentale saper esprimere parti delle loro teorie come definizioni, assiomi, teoremi e congetture attraverso un linguaggio che fa uso di immagini e diagrammi perché questo aiuta ad avere un’intuizione mentale profonda dei concetti astratti e una loro maggiore comprensione e possibilmente visualizzazione. Scrivere e disegnare alla lavagna il contenuto di ciò che si sta dicendo sono gesti che contribuiscono a chiarire e a dare una forma e un’esistenza concreta, e non solo formale, alle idee. Il gesto ha una valenza significante e liberatoria.
Penso che uno dei compiti che abbiamo oggi davanti è di capire il ruolo che certi linguaggi non verbali, in particolare quelli del corpo, della manualità e della gestualità, svolgono nel rendere possibile la generazione di forme materiali e simboliche che diventano l’origine di modi d’organizzazione sociale, di stili di vita e di pratiche culturali non usuali. D’altro canto, siamo anche interessati a capire le ragioni per le quali certi modelli d’organizzazione sociale e culturale possono favorire la creazione e la diffusione di forme e di linguaggi simbolici ed artistici.
Professor Boi, siamo all’apice dello sviluppo tecnologico, eppure l’uomo sembra precipitare nella barbarie, nella violenza, nel transumanesimo, nel delirio di onnipotenza di una scienza fine a sé stessa per inseguire il “mito del progresso” l’erede di un certo pensiero illuminista. Possiamo dire che l’età dei Lumi deve ancora arrivare? Le geometrie non-euclidee che sono uno dei suoi campi di ricerca peculiari offrono una concezione della ragione e dell’essere umano differente e meno riduzionista?
La sua domanda tocca un nodo fondamentale di molti problemi cruciali che ci troviamo a dover affrontare oggi. Innanzitutto una premessa che ritengo importante: le due cose e attività, la tecnica e la tecnologia, non sono identiche e perciò non vanno messe sullo stesso piano. Va aggiunto che oggi si assiste a una sostituzione della tecnica, intesa come insieme di strumenti che emanano dall’intelligenza dell’uomo e ne costituiscono spesso un’estensione di alcune delle sue capacità teoriche e pratiche (si pensi al telescopio e al microscopio), alla produzione smisurata di nuove tecnologie che non necessariamente emanano dall’intelligenza dell’uomo o da una delle sue scoperte scientifiche, e che in più hanno come effetto di ridurre (e in molti casi di annichilire) diverse funzioni fisiologiche e capacità cognitive dell’uomo. In altre parole, e per riassumere, la tecnologia, da un lato, si è staccata sempre più dalla scienza giungendo a condizionarne i contenuti e le finalità; dall’altro, si è allontanata dalle situazioni reali e dai bisogni dell’uomo spesso creandogli più problemi di quanto non sia capace di risolverne.
La tecnologia ha così prevalso attraverso le sue numerosissime e spesso dannose applicazioni, i suoi scandalosi profitti e il delirio di onnipotenza, e non solo è diventata autonoma rispetto alla scienza e all’uomo, ma punta a mettere a tacere lo spirito critico della scienza, dell’epistemologia e della cultura in generale, e a sostituire sempre più l’uomo, ormai ritenuto obsoleto e troppo imperfetto, con un “essere” artificiale, che però poco o nulla ha a che fare con un essere umano.
Si tratta del più irrazionale sviluppo dell’ideologia del progresso da perseguire come fine in sé, come valore assoluto.
Una tale ideologia irrazionale e inumana conserva ben poco e certamente non le principali idee dell’epoca dei Lumi, di cui pertanto alcuni capofila del transumanesimo se ne dichiarino i veri eredi del XXI secolo, ha completamente evacuato il logos, il pensiero razionale e lo spirito critico che gli illuministi (Voltaire, Diderot, Rousseau) concepivano come qualità imprescindibili dell’uomo, e ha ripreso accentuandolo a dismisura il progetto di una meccanizzazione integrale delle funzioni e attività umane, che storicamente è stata la concezione difesa dal movimento meccanicista più che dagli illuministi, anche se un certo connubio c’è effettivamente stato e si è prolungato fino ad oggi.
Il transumanesimo è stato propugnato a partire da una grande falsità storica e da un’altrettanta enorme aberrazione filosofica. I suoi accoliti hanno completamente stravolto il significato originario del concetto di progresso e anche il senso che gli hanno attribuito prima gli idealisti (Platone e i neoplatonici), poi i razionalisti (si pensi a Leibniz e Kant) e infine la maggior parte dei pensatori illuministi, identificandolo al dominio totale della macchina e più precisamente della tecnologia sull’uomo. D’altronde essi perseguono non tanto l’ideale illuminista di arrivare a un miglioramento di determinate funzioni e capacità dell’uomo attraverso la tecnica, quanto il disegno folle di eliminare l’uomo (a cominciare dalla sua biologia poi la sua intelligenza e immaginazione e infine le sue emozioni e i suoi sentimenti).
Vorrei proporre ancora una riflessione che reputo in qualche modo preliminare e necessaria. Non penso che si possa affermare che esiste una relazione di causa ed effetto tra lo sviluppo della tecnica e delle tecnologie e l’avanzare della barbarie. Perché ciò vorrebbe dire negare il ruolo importante ed anche emancipatorio che la tecnica ha avuto durante alcuni millenni nella fioritura di diverse civilizzazioni nelle regioni del Mediterraneo e nell’Asia mediorientale, e anche il ruolo che in seguito ha avuto per permettere (in ogni caso per favorire) alcune scoperte scientifiche fondamentali. Detto questo, la natura e il ruolo della tecnica sono profondamente mutati negli ultimi tre secoli e un nuovo e ancor più radicale mutamento lo si osserva oggi, così come sono cambiati i paradigmi scientifici a partire dai quali la tecnica, o meglio le tecnologie, si sviluppano.
Una delle conseguenze dello sviluppo “trionfale” negli ultimi decenni delle nuove tecnologie informatiche e digitali, sviluppo che non si limita più alle cosiddette società capitalistiche avanzate, ma interessa in egual modo tutti i paesi di un mondo sempre più globalizzato e omologato, e che da strumento al servizio dell’uomo esse si sono trasformate in modello che ha invaso, in ogni luogo e ad ogni istante, tutti gli spazi della vita individuale e collettiva, e eliminato l’idea stessa di comunità e di società plurale; une delle conseguenze, dicevo, è il declino del linguaggio parlato e scritto ma anche di quello che matura nel silenzio e che si esprime attraverso i gesti, per esempio nei mestieri e nelle arti, due attività dell’uomo profondamente legate nei secoli scorsi.
Lamberto Maffei ha scritto (in “Elogio della parola“, Il Mulino 2018) che «La fuga dalla parola, il progressivo allontanamento dalla conversazione, ha radici relativamente lontane, forse, a mio parere, nello sviluppo trionfale della tecnologia, con la comparsa di strumenti di comunicazione sempre nuova, il cui fiorente mercato ha spostato l’attenzione sull’oggetto di per sé più che sul bisogno di utilizzarlo nel contesto della realtà degli esseri viventi e delle loro relazioni sociali. Gli oggetti, gli strumenti e il loro possesso sono diventati concettualmente più importanti degli uomini e per di più consentono ad alcuni di esercitare potere su molti».
Chi usa gli smartphone dalla mattina alla sera non vede più intorno a lui, non percepisce più il mondo, insomma diventa cieco, e la sua cecità diventa una forma di solitudine e di dipendenza. Con gli smartphone e i social media ci si inebetisce, si diventa stupidi, si erige una barriera fra l’“io” e il mondo, fra l’“io e gli altri”. In questo modo ci si isola in un mondo chiuso, come in una prigione, solipsista ed egoista: la vita pian piano si svuota, l’interesse e la passione per le cose si spengono e molte funzioni vitali, particolarmente quelle cerebrali e psichiche, ne risultano annichilite. Tanti “io” così, indifferenti gli uni agli altri (come tanti atomi individuali che non interagiscono e non scambiano più nessun tipo di contatto e di energia), ignari dell’ambiente in cui vivono, dal quale non ricevono più stimoli, insensibili alle diverse dimensioni spaziali e temporali della vita, avulsi da una ricerca del senso delle cose, non possono che rassomigliare a degli zombie in preda a uno smarrimento totale, sia sociale che psichico.
Riguardo alla seconda parte della sua domanda, vorrei fare le seguenti considerazioni. Agli inizi dell’Ottocento furono scoperte due nuove geometrie, dette non euclidee, cioè delle geometrie che hanno proprietà differenti da quelle che caratterizzano la geometria euclidea, che il matematico greco Euclide (allievo nell’Accademia di Platone) elaborò intorno al 300 a.C. e sistematizzò in un’opera fondamentale che chiamò “Elementi” (che significa fondamenti). A ciò occorre aggiungere che circa un secolo prima fu scoperta, ad opera di diversi matematici (tra cui Desargues, Pascal e Poncelet), una nuova geometria chiamata proiettiva, che si ispirava alle idee e alle tecniche di alcuni artisti e architetti del Rinascimento, in particolare Leon Battista Alberti e Piero della Francesca.
La scoperta delle geometrie non euclidee è stata la più importante rivoluzione nella matematica dell’Ottocento, che ha avuto profonde conseguenze su diverse branche della scienza, in particolare sulla fisica, e sulla filosofia. Essa può essere paragonata alla scoperta del sistema eliocentrico fatta da Copernico e resa pubblica nella sua opera “De revolutionibus orbium cœlestium“, del 1543. Si tratta di una scoperta che ha completamente trasformato la nostra visione del cosmo, poiché da un universo immobile e statico si è passati a un universo mobile e dinamico. La scoperta delle geometrie non euclidee, che si deve a tre matematici tanto originali quanto audaci (il tedesco Carl Friedrich Gauss, detto Princeps mathematicorum – che concepì ma non pubblicò la possibilità di una geometria non euclidea una volta che si abbandona il V° postulato di Euclide sull’unicità di una parallela a una retta data tracciata sul piano che non incontrerà mai quest’ultima anche se prolungate all’infinito -, il russo Nikolai Lobacevskij e l’ungherese Johannes Bolyai), ha messo in discussione l’unicità e il carattere assoluto della geometria euclidea. Essa ha comportato tre capitali trasformazioni prima del concetto di spazio e successivamente dei concetti di tempo e di universo. Citiamole brevemente.
La prima ha dimostrato che non esiste un’unica e assoluta geometria, ma che più geometrie sono matematicamente possibili e che non vi sono ragioni a priori (come pensava Kant) affinché il nostro pensiero debba preferirne una invece di un’altra. Queste nuove geometrie, nate da una messa in discussione della presunta validità assoluta della geometria d’Euclide e dall’idea che la scelta di ipotesi diverse da quelle contemplate in particolare nel quinto postulato d’Euclide, conducono a nuove geometrie altrettanto valide. Esiste la geometria sferica che è un caso particolare della geometria ellittica e di cui la sfera ne rappresenta il modello concreto, dove le rette essendo i grandi cerchi ortogonali alla frontiera della superficie sferica non sono parallele tra di loro, la somma degli angoli interni sulla sfera è maggiore di due angoli retti (di 180° gradi) e la sua forma è curva (di curvatura positiva rispetto a quella euclidea) contrariamente al piano e allo spazio euclideo che sono piatti. Ed esiste la geometria iperbolica, che ha proprietà profondamente diverse da quella euclidea ma anche da quella sferica, infatti per un punto nel piano iperbolico possono passare un’infinità di rette ortogonali a una retta data (questo lo si vede bene osservando il modello di semicerchio, ideato da Poincaré, che sostituisce il piano euclideo), la somma degli angoli interni a un triangolo costruito in questo modello è sempre minore di 180° gradi, e la sua curvatura è negativa rispetto a quella euclidea.
La seconda trasformazione, operata dal matematico Bernhard Riemann (un grande visionario della matematica e anche un Naturphilosoph profondamente originale) in un lavoro del 1854 (intitolato “Sulle ipotesi che stanno a fondamento della geometria“) mostra che su uno stesso spazio (di due, tre o più dimensioni), per esempio sulla sfera considerata come una superficie avente una geometria intrinseca (nel senso definito da C. F. Gauss pochi anni prima in una celebre memoria scritta in latino, cioè indipendente dallo spazio euclideo usuale), si possono determinare più geometrie; in altre parole, esso ammette più strutture geometriche (metriche e topologiche) diverse tra loro.
Le idee di Riemann sono state riprese in seguito da molti matematici e più vicino a noi, da René Thom, Michael Gromov e William Thurston, che hanno generalizzato le idee geometriche di Riemann con la scoperta di diversi teoremi fondamentali, teoremi che oltre al loro profondo contenuto matematico hanno permesso di mettere in luce nuovi legami fra la geometria, la topologia, la teoria dei gruppi e l’analisi delle equazioni differenziali a derivate parziali. Uno di questi, dovuto a Thurston e enunciato agli inizi degli anni 1980, dice che su ogni spazio tridimensionale di tipo orientato, connesso e compatto, si possono costruire otto geometrie diverse, cinque delle quali sono non euclidee e le altre sono (in termini precisi) delle geometrie (o spazi) quoziente. Uno sviluppo tra i più rilevanti delle idee di Riemann lo si deve al matematico francese Alain Connes, il quale ha dimostrato che alla scala quantistica di Planck le diverse metriche che si possono matematicamente definire in uno spazio-tempo di tipo quantistico potrebbero variare a causa delle fluttuazioni generate dalle diverse forze che vi agiscono e dalle loro interazioni. In altre parole, ci si avvicina sempre più all’idea fondamentale che la stessa geometria e topologia dello spazio-tempo siano in realtà un oggetto dinamico, non predeterminato e non fissato a priori quindi, cioè un insieme di strutture, che interagiscono e si modificano con la fisica, insomma una “realtà” in continuo movimento da dove emergono nuove strutture e proprietà e non un fatto statico e dove nulla cambia. Era questa in fondo l’idea di Riemann, Poincaré et Weyl, idea che ha contribuito a trasformare profondamente e ad arricchire il paesaggio multiforme e straordinario della matematica. Vista da questo punto di vista, la matematica è anzitutto un’ars inveniendi (nel senso di Leibniz) uno sforzo squisitamente umano per capire il mondo e dare senso alle cose che accadono intorno a noi e lontano da noi.
La terza trasformazione riguarda l’introduzione nella seconda metà del XIX secolo del concetto di gruppo di trasformazioni (cioè di simmetrie) nello studio delle diverse geometrie e degli spazi a un numero anche infinito di dimensioni. Quello di gruppo è un profondo concetto unificatore di diverse branche della matematica, in particolare dell’algebra con la geometria, la topologia e l’analisi delle equazioni differenziali. È fondato su due concetti assolutamente complementari che formano un tutt’uno, quelli di cambiamento (o trasformazione) e di invarianza (cioè conservazione). In matematica si può trasformare (o deformare se ragioniamo in ambito topologico) qualsiasi figura, oggetto solido, spazio o funzione senza che questa operazione abbia come conseguenza la distruzione dell’oggetto stesso. Qui sta il nocciolo filosofico del concetto di gruppo: nel cambiamento qualcosa di essenziale rimane invariante, cioè si conserva, e nello stesso tempo questa invarianza significa che il mondo degli oggetti e delle strutture matematiche è soggetto a continue (o discontinue) trasformazioni e cambiamenti.
Il primo storicamente ad aver introdotto il concetto di gruppo fu il matematico Évariste Galois (morto in duello nel 1932) nel suo tentativo di risolvere le equazioni di quinto grado. Queste funzioni algebriche presentano delle straordinarie proprietà di simmetria (gruppi di permutazioni delle sue radici), e la loro risoluzione è appunto legata alla comprensione di queste profonde simmetrie.
Nella geometria, fu il matematico tedesco Felix Klein ad introdurre nel 1870 il concetto di gruppo nel suo famoso “Program d’Erlangen“. La sua idea fondamentale consiste nel prendere un gruppo di trasformazioni come oggetto (e concetto) principale e nel mostrare che a partire dalla definizione delle sue proprietà essenziali si arriva alla definizione di un tipo di geometria; in altre parole, è il gruppo di trasformazioni che permette di ritrovare e definire il tipo di geometria cercata, e non il contrario: per cui una geometria o uno spazio in cui questa si realizza è il risultato del processo di conoscenza e non il dato di partenza. Questo apre prospettive assolutamente nuove per lo sviluppo della geometria ma anche di diverse altre branche della matematica.
Molti sviluppi fondamentali nella teoria dei gruppi sono stati dati successivamente dai matematici Lie, Killing, Poincaré, Weyl e E. Cartan. La fisica oggi sarebbe impensabile senza il concetto di gruppo, che ne sta al cuore. E nel frattempo, a partire dagli inizi del secolo scorso con le tre grandi scoperte concettuali della fisica (relatività ristretta e generale e meccanica quantistica), il mondo dei gruppi e delle simmetrie si è considerevolmente esteso e arricchito incorporando in particolare due nuove classi di simmetrie per distinguerle dalle simmetrie spazio-temporali “classiche”, le simmetrie interne (cioè che riguardano direttamente certe grandezze fisiche, si pensi alla meccanica quantistica) e le simmetrie infrante (o rotte), che riguardano una grande varietà di fenomeni sia della fisica delle particelle, sia della fisica macroscopica (per esempio della materia condensata o la dinamica dei fluidi) e sia la cosmologia.
Come si evince da quanto detto, le generalizzazioni del concetto di spazio che la scoperta delle geometrie non euclidee hanno reso possibili, dopo averlo liberato dalla rigida cornice euclidea basata in parte sulla percezione visiva e tattile e tuttavia elaborato grazie all’applicazione di un alquanto rigoroso metodo logico-deduttivo, lo hanno esteso al di là delle dimensioni tradizionali, ad un numero qualsiasi, anche infinito di esse. La geometria entrò così nell’Ottocento in un periodo – che dura tuttora – di straordinaria creatività, scoprendo strutture nuove rispetto a quelle note alla geometria euclidea, che sono soltanto casi particolari, ma che in determinati ambiti conservano il loro interesse a la loro validità specifica.
Vorrei precisare un ultimo punto. La conoscenza del carattere specifico del nostro spazio si è affermato grazie alla scoperta delle geometrie non euclidee negli anni 1830-1860, e della relatività generale negli anni 1915-1916. Esse hanno contribuito in modo decisivo a mostrare che esistono altri spazi e che le strutture e le forme che li caratterizzano si differenziano da quelle tipiche dello spazio usuale euclideo. Essendo il nostro cervello e i nostri sistemi sensoriali perlopiù adatti al tipo di spazio in cui viviamo, è generalmente difficile (benché non sempre impossibile) rappresentarci questi altri spazi, anche se siamo capaci di formularne una costruzione matematica coerente e delle volte persino di visualizzarli. Alcune teorie matematiche e fisiche fondamentali sviluppate durante il secolo scorso ci hanno portato a riconoscere che lo spazio del mondo microscopico (dell’infinitamente piccolo), quello delle particelle subatomiche, come pure lo spazio alla scala dell’intero universo (dell’infinitamente grande) differiscono profondamente dallo spazio in cui viviamo, ambiente naturale delle nostre percezioni e dei nostri movimenti.
La relazione fra particolare e generale o fra tradizione (che per diventare tale dovette prima passare dall’introduzione di un insieme di nuove idee e da profonde scoperte) e cambiamento è molto importante in matematica ma anche in fisica, e credo che lo sia ugualmente, ad esempio, nella filosofia o nella musica. La cosiddetta cancel culture (anche solo il nome appare equivoco e dovrebbe renderci scettici), cioè la cancellazione di tutto ciò che si è scoperto, elaborato e creato nel passato, e quindi la rottura totale con le tradizioni di pensiero che ci hanno preceduto e a partire dalle quali abbiamo potuto sviluppare altre teorie e visioni, non ha alcun senso in matematica e in filosofia, e anche nella scienza in generale e nelle arti, e perciò va assolutamente rifiutata e combattuta, innanzitutto nella scuola di ogni ordine e grado ma anche i tutti i luoghi di cultura e di formazione.
La cultura della cancellazione è l’ultimo strumento che si sono dati i poteri mondiali forti (finanziari, digitali e dei media) per completare la distruzione antropologica in corso e per arrivare a una tabula rasa completa delle diverse culture e forme di vita. Chi non ha nessuna conoscenza del passato, non sa da dove viene, quali sono le sue radici, chi non ha memoria di quello che ci ha preceduto e ha permesso nuovi progressi ma anche regressi ed involuzioni, chi vive in un presente perpetuo e ripetitivo scandito unicamente dai clic fatti sulla tastiera dello smartphone e dai tanti messaggini vuoti che gli arrivano, non può sviluppare un pensiero critico, quegli anticorpi mentali che gli sono necessari per non accettare tutto quello che gli viene propugnato dai media e dalla pubblicità, costui o costoro, che sono poi le grandi masse globalizzate e omologate, potranno facilmente esser manipolate e asservite.
Dobbiamo ribellarci contro questo stato di cose, che non è affatto ineluttabile, e rifiutare ogni nuova forma di alienazione, di dipendenza e di schiavitù fisica e mentale. Questa è la condizione sine qua non di una nuova emancipazione individuale e rinascita culturale collettiva.
Professore, nel suo libro “Pensare l’impossibile” (Springer, Milano 2012) lei mette a confronto arte e scienza affermando che artisti come Jorge Eielson e Lucio Fontana sono riusciti nell’intento di “pensare l’impossibile”. Di fronte a un potere che pare inarrestabile nella sua avanzata e che si manifesta oramai in tutta la sua spietata ferocia, dobbiamo tutti iniziare a “pensare l’impossibile”? In che modo possiamo immaginare un futuro differente rispetto a quello che vogliono imporci? Quali forme di resistenza dobbiamo riuscire a immaginare per costruire una nuova prospettiva realmente adeguata e un progetto alternativo fattibile?
Per finire queste riflessioni (e per auspicare un nuovo inizio), penso che né un potere divino affidato alla “verità” della fede né uno spirito meccanico di tipo neo-prometeico possano aiutarci a trovare il cammino di una rinascita culturale, di una nuova visione del mondo, di un legame sociale (una «catena sociale» di cui parlava Leopardi) che ci faccia ritornare a stare insieme, a riscoprire il significato e il piacere profondo delle relazioni umane. L’umano è ridiventato un’utopia, possibile e necessaria che va percorsa fino in fondo con intelligenza e coraggio, malgrado gli enormi ostacoli che essa incontra e l’immensa ondata del transumanesimo e post-umanesimo che rischia di travolgerci.
Per arrestare l’ondata dell’insignificanza che sempre più velocemente e implacabilmente sta soggiogando le nostre vite, le relazioni umane e i luoghi vitali, occorre infondere nuova linfa ed energia nella nostra sensibilità sempre più arida e spenta, rivitalizzare l’azione e il pensiero insieme, ritrovare congiuntamente la forza e la gioia della parola (della conversazione) e il senso profondo del silenzio (dell’ascolto), in modo tale che comprendere e agire, così che pensare e sentire, ragionare e immaginare, siano un solo e medesimo gesto. L’utopia di cui sopra richiede che uniamo gli sforzi in un’azione corale – nello stesso modo in cui i musicisti di un’orchestra uniscono all’unisono i loro per creare una nuova sinfonia, o come i contadini in un campo univano i loro sforzi per raccogliere i frutti del lavoro e dividerlo equamente – per dare corpo a un nuovo progetto culturale e sociale, per lasciare semplicemente spazio alla nostra voce e a quelle che, rimaste sino ad ora inascoltate, hanno qualcosa di sincero e forse di essenziale da esprimere, per liberare il possibile dalle acque stagnanti e dal presente perpetuo in cui sono stati rinchiusi dal falsi schemi del post-moderno e del post-umano, per insomma ritornare a pensare e a sognare.
Riprendendo liberamente le parole di Leopardi, sono convinto che la possibilità di cambiare il nostro destino dipende anche e forse soprattutto da noi. Bergson ci esortava a pensare da uomo di azione e ad agire da uomo di pensiero. È quello che oggi tragicamente manca. Dopo il lungamente riflettuto e profondo, e ciononostante discutibile adagio filosofico di Cartesio, “Je pense, ergo je suis” (alla base della razionalità moderna e di una teoria per certi versi totalizzante della ragione dell’uomo), Giacomo Leopardi ha sottolineato nello “Zibaldone di pensieri” il fatto che l’immaginazione è la prima fonte della conoscenza e della felicità umana, e poi Albert Camus ha avuto l’audacia di evidenziare (in “L’ uomo in rivolta“, Bompiani, 1951) un’altra dimensione ed esigenza fondamentale dell’uomo, riassunta da lui nell’espressione “Je me révolte, donc nous sommes”.
È difficile immaginare e proporre qualcosa di nuovo se non si nutre una qualche speranza nella possibilità di cambiare il nostro destino. La speranza è nello stesso tempo un ideale dello spirito e una forma concreta di vita, da coltivare e attuare. Non bisogna lasciarsi rubare il diritto di sognare l’impossibile né bisogna abdicare al dovere di liberare il possibile lasciando aperte altre prospettive e garantendo un avvenire per la Terra, gli organismi viventi e gli esseri umani che la abitano. La ribellione, intesa e condotta in modo intelligente, pacifico e paziente, vissuto al contempo come gesto nobile, umile e generoso, deve rispondere all’esigenza di una emancipazione critica delle coscienze, ed è oggigiorno non solo un diritto ma un dovere culturale e sociale che abbiamo nei confronti di noi stessi e degli altri.
La speranza è un sentiero che si fa camminando. Per gli esseri liberi e consapevoli non esiste un cammino già fissato e imposto dagli altri, il cammino si percorre pensando e agendo insieme, con uno sguardo al passato, lascito culturale prezioso e da cui non si cessa di imparare (anche dubitando di quello che già sappiamo), e lasciando orme e opere che prefigurano un nuovo orizzonte e indicano una nuova prospettiva.
E se questo mondo non fosse il migliore dei mondi possibili (e tutto lascia pensare che infatti non lo sia)? Se gli enormi interessi economici-finanziari in gioco fossero un ostacolo allo sviluppo di società autenticamente democratiche e giuste, alla possibilità di condurre ricerche libere da ogni vincolo o condizionamento estranei alla ricerca stessa (oggi la ricerca delle applicazioni tecnologiche anche distruttive che danno potere e profitto sta scardinando la concezione stessa della ricerca scientifica libera e disinteressata; basti vedere l’esempio di Leonardo e le decisioni dei suoi massimi dirigenti), per esempio di tipo aziendalistico, politico o militare, e perciò alla possibilità stessa di esprimere il libero pensiero?
Occorre oggi resistere a tutti i soprusi, le menzogne e i tentativi di asservire gli individui a un potere cinico, corrotto e irresponsabile, ed estraneo ai reali bisogni degli esseri umani, ove per “resistenza“ si deve intendere un atto consapevole e nobile di coraggio, autonomia ed emancipazione. E occorre battersi, con le idee e le azioni, contro le ingiustizie e diseguaglianze sociali, contro i prepotenti e distruttori di mondi, ecosistemi, culture, lingue, pratiche antropologiche, contro i grandi poteri finanziari e digitali mondiali il cui progetto è quello di ridurre gli esseri umani a una merce e di trasformarli in “macchine intelligenti” attraverso una mutazione inedita e irreversibile dei nostri circuiti neuronali e processi cognitivi, riducendo così sempre più il nostro mondo dove si origina e matura il pensiero critico e l’autonomia mentale, le nostre prerogative di poter riflettere e agire senza essere sottomessi a condizionamenti pubblicitari e a manipolazioni mediatiche, e riducendo altresì la possibilità di partecipare alle decisioni che ci concernono direttamente in quanto individui e membri di una comunità, nonché gli spazi vitali come quelli della lettura e della scrittura, delle relazioni sociali, della partecipazione alle scelte, del gioco), per non parlare, infine, dello stravolgimento sempre più veloce dei nostri ritmi temporali, sia fisiologici che cognitivi ed emotivi. Questo stravolgimento provoca, tra le altre cose, un’alterazione della percezione della realtà e dei processi di apprendimento.
Occorre resistere nei confronti di chi vorrebbe farci accettare la normalità della guerra, farci credere che essa è inevitabile, ingannarci affermando il presunto carattere difensivo e perciò giusto di questa guerra (delle guerre). E bisogna resistere nei confronti di chi vorrebbe trasformarci in macchine, in protesi tecnologiche, in automi completamente virtuali, presentandoci una tale prospettiva come inevitabile perché inscritta nelle leggi di natura che guidano il progresso del genere umano, e ingannandoci sul fatto che la digitalizzazione e l’intelligenza sia il nuovo e unico orizzonte di un futuro radioso in cui necessariamente si collocano le nostre possibilità e azioni. Infine, occorre resistere contro una globalizzazione selvaggia e devastante che in realtà corrisponde a un flagello antropologico dalle dimensioni sconvolgenti di cui gli effetti più evidenti sono la perdita di ogni tipo di auto-determinazione delle singole entità nazionali, regionali e locali, la scomparsa del patrimonio culturale e sociale di molte realtà che lo custodivano, l’estinzione di saperi, mestieri, lingue e stili di vita.
Ci sono molti modi di resistere, ma due sembrano essere i più pregnanti e incisivi: anzitutto rifiutarsi di obbedire a decisioni che non riteniamo giuste, e poi non fare quello che si considera contrario alle prerogative essenziali dell’essere umani. Ciò deve essere seguito da atti concreti. Per esempio, quanto all’educazione da dare ai bambini, io penso che invece di regalare macchine e telefonini ed altri oggetti elettronici, i genitori dovrebbero mostrare ai bambini una pianta e dire loro: Sai cos’è questo? È una pianta che trasforma l’energia del sole e i minerali della terra. O indicare loro il cielo stellato facendoli innamorare di quello spettacolo ch’è l’Universo per indurli a riflettere sui corpi celesti e sulle proprietà della luce. Un proverbio del passato recitava così: “Non dare un pesce a un bambino, insegnali piuttosto a pescare”. Oggi dovremmo dire: “Non dare un computer a un bambino, insegnali piuttosto a giocare e a pensare”. In un computer si trova un gran numero di dati, ma non si trova la cosa essenziale, le domande: il problema è infatti avere la capacità d’interrogarsi, di coltivare la curiosità, di saper formulare domande feconde che suscitano nuove conoscenze e uno sforzo gaio per l’apprendimento.
Là dove un bambino gioca, là dove parla, pensa o sogna, là si trova nascosto un mistero, il mistero stesso della vita. Solo il bambino è capace di inventarsi la vita mentre la narra, di immaginarla mentre la pensa, di viverla mentre la mette in movimento attribuendogli significati diversi. Piuttosto che lasciarsi l’infanzia dietro di sé, come qualcosa di ormai passato e da rimuovere, bisogna proporre il cammino inverso, cioè fare dell’infanzia un orizzonte a cui guardare, un fine verso cui tendere.
Una società che trascura e avversa i bambini ed esclude gli anziani è una società senza più storia, eredità culturale e futuro. È una società inumana e infelice.
Sono profondamente convinto che una società in cui la maggioranza delle persone decide di rimpiazzare un essere umano con un animale domestico, che preferisce a un bambino a cane o che si prende più cura dell’animale che del bimbo, è una società profondamente malata popolata da persone mentalmente mutate o che vivono in uno stato alterato della coscienza, è una società che ha rinunciato alla vita e a essere umana. L’attuale sconvolgente involuzione evolutiva e cognitiva, il degradante regresso verso una animalizzazione della vita, spesso accoppiata a un ritorno a comportamenti bestiali, è un indice evidente di una mancanza di umanizzazione e di un declino culturale e spirituale delle dei nostri modelli di vita.
Questo declino è stato in parte favorito dal diffondersi negli ultimi due decenni di mode sociologiche e pseudo-culturali irrazionali, antinaturalistiche e contrarie all’energia e dignità della vita: faccio qui riferimento ai vari movimenti gender, trans-gender, trans-umanisti e animalisti, il cui tratto comune è un coacervo di ignoranza, arroganza e opinioni insulse sulla natura e la natura umana, sulla biologia e la psicologia complessa dell’uomo, sul sesso e sull’amore; ciò che realmente lega questi movimenti è un’avversione completa contro tutto ciò che è naturale, umano e espressione del logos.
Per ritornare al tema della guerra, si evoca la necessità assoluta, in barba a ogni diritto e risoluzione internazionale, di eliminare il terrorismo per giustificare la legittimità della guerra condotta da Israele contro il popolo palestinese, così come in altri casi, negli ultimi decenni, si sono evocati gli stessi motivi (che noi oggi sappiamo essere completamente falsi) per condurre guerre giuste e colpi di stato legittimi in nome della democrazia e della libertà, precisamente quelle del modello occidentale-neoliberista-capitalistico.
È importante notare che tutte le guerre e i colpi di stati più recenti sono state precedute (i) da una lunga fase di preparazione comunicativa e pubblicitaria (una vera macchina da guerra di manipolazione e assuefazione psicologica) per convincere l’opinione pubblica dell’esistenza di un “nemico” e della necessità imperativa di eliminarlo per salvare i valori universali di cui solo l’Occidente sarebbe depositario; e tutti i mezzi sono stati usati, da quelli propagandistici a quelli finanziari e militari, per giungere all’obbiettivo fissato secondo la massima “il fine giustifica i mezzi”, che in molti casi è equivalsa ad affermare una logica e ideologia del terrore, della sopraffazione e della distruzione.
Volontà di potere, rapina delle risorse e fonti di ricchezza con conseguente depauperazione delle condizioni di vita delle persone, e negazione della diversità e complessità culturale sono stati spesso alleati delle guerre se non i veri obiettivi perseguiti.
Io penso che per uscire da questa spirale infernale un modo (non certo l’unico e neanche il più efficiente) è quello di insegnare la piacevolezza dello studio che solo permette di esprimere le nostre idee dopo avercele formate, il valore e il significato della scienza e della filosofia atti a illuminarci la mente, e bisogna anche insegnare di nuovo un certo rigore e l’esercizio dell’immaginazione mostrando l’importanza della pazienza e della perseveranza.
Parafrasando Nietzsche (in “Umano, troppo umano“, vol. 1), si può dire che occorre un nuovo slancio, un’impulsione che ci guida, una volontà che ci dà forza, una curiosità che ci spinge a cercare e a capire, un nuovo desiderio e gusto di un mondo diverso.
Sant’Agostino ebbe a scrivere (“Le Confessioni”, 398) che “La speranza ha due bellissimi figli, lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose. Il coraggio per cambiarle”.
Pensiamo al profondissimo e magnifico brano di Pascal in cui egli scrive: «L’uomo non è che una canna (roseau), la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiaccerebbe, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui, l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale».
Il grande scrittore egiziano Naguib Mahfouz ha scritto: «La nostra voce e le nostre idee sono più potenti del boato dei canoni e del rombo di tuono. (…) La democrazia è atta a cogliere i frutti della conoscenza, mentre che qualunque dittatura non avrà nessun interesse a diffondere la scienza e la luce della ragione».
Vorrei concludere queste riflessioni con due ordini di considerazioni: il primo intende rimarcare alcuni effetti della digitalizzazione, il secondo mira a innestare su queste osservazioni critiche alcune proposte di incontro e di azione.
Tra gli effetti devastanti della digitalizzazione e artificializzazione dell’uomo, voglio sottolineare i seguenti: – un imbarbarimento senza limiti dei comportamenti, dell’estetica e del gusto, – una maleducazione e insolenza sempre più diffuse le cui manifestazioni più evidenti e deplorevoli sono l’indifferenza, la non percezione del contesto o del luogo in cui si è, la mancanza di attenzione verso l’altro da sé (come se l’altro non esistesse), il rumore onnipresente e diventato oramai una forma di aggressione continua dei nostri spazi di libertà e della nostra sensibilità, – la scomparsa di ogni differenza tra pubblico e privato, sia in termini di spazi che di momenti, e la costante prevaricazione della dimensione privata (intima, personale) da parte di quella pubblica; a questo ha enormemente contribuito la spettacolarizzazione della vita mondana delle persone (e della cultura) e la sua esibizione sulla scena pubblica attraverso la televisione e i giornali, i media e i social, che sono diventati dei veri promotori di stupidità e volgarità massificate, – una rapida e inesorabile deriva verso il limbo dell’insignificanza, che si manifesta in diversi modi, e soprattutto attraverso la perdita della (e la rinuncia alla) lingua scritta e parlata, la sua banalizzazione e omologazione, il distacco della lingua e di diversi linguaggi dal pensiero, per cui sempre di più si parla senza pensare: la lingua non solo non elabora e non trasmette più contenuti ma è diventata un ostacolo alla loro generazione.
Riguardo ai linguaggi, essi di dividono in quelli ultra-specialistici – per esempio quelli scientifici ma non solo (riservati agli addetti ai lavori e incomprensibili alla stragrande maggioranza delle persone), epurati da qualsiasi analisi epistemologica critica sui concetti e i metodi usati, e in quelli che si sono evaporati in una sorta di vaghezza e vacuità estreme.
Per riassumere, possiamo dire che i due tratti più caratteristici di questo imperare dell’insignificanza sono, da un lato, la perdita della lingua come strumento essenziale per descrivere, narrare, interpretare e capire la realtà strutturata e complessa e i suoi molteplici mondi, e dall’altro la perdita del legame tra linguaggio e pensiero, tra parola e significato.
Passiamo ora ad alcune proposte di incontro e di azione: – costruire delle nuove realtà associative locali, – investire le biblioteche, i circoli culturali le piazze di una nuova funzione (e missione) culturale rivolta a favorire l’incontro e la discussione, – rifondare delle comunità monastiche (religiose e laiche) con compiti spirituali, scientifici e filosofici utilizzando tutti quei luoghi (monasteri, conventi, abbazie, ecc.) che si prestano ad accogliere una tale opera di rinascita culturale, – rafforzare e moltiplicare gli spazi di formazione artistica e creatività culturale, in particolare i conservatori, le scuole di belle arti, le accademie, ecc., – attuare una rigenerazione profonda e completa della scuola, con un ritorno all’esercizio della memoria, della lettura e della scrittura in tutte le materie, l’attribuzione all’insegnante di un ruolo educativo e formativo fondamentale (naturalmente occorre preparare gli insegnanti a questo fine), lo sviluppo a tutti i livelli dei percorsi di studio trasversali che contemplino e mettano in relazione gli studi umanistici con quelli scientifici, ed entrambi anche con quelli artistici; tali percorsi devono essere improntati allo studio approfondito (e rigoroso), alla comprensione e all’immaginazione, senza che tuttavia il rigore sia fine a sé stesso e scada nel formalismo sterile, e l’immaginazione non diventi una semplice chimera priva di criteri e di esigenze.
Di Sonia Milone per Comedonchisciotte
NOTE
“Fermiamo il genocidio, l’appello degli intellettuali” pubblicato su Comedonchisciotte il 30/10/2023, promosso da Luciano Boi insieme a Fabio Bentivoglio, Guido Cappelli, Vincenzo Costa, Ezio Laconi, Lamberto Maffei, Michele Maggino, Lorenzo Maria Pacini, Paolo Quintili, Patrizia Scanu, Daniele Trabucco, Giuseppe Vitiello e sottoscritto da numerosi e autorevoli intellettuali.
Conferenza “In difesa dell’umano. Problemi e prospettive”
Conferenza “Scienza e umanesimo. In difesa dell’umano”, 22 Aprile 2023
RAI cultura, “In difesa dell’umano. Problemi e prospettive”, intervista a Fabio Bentivoglio, febbraio 2023
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