Il Dollaro è l’arma più efficace: Donald Trump all’attacco dell’Europa

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DI MICHAEL BERNEGGER

Deutsche Wirtschafts Nachrichtren

Il programma economico di Trump è vago solo a prima vista. Egli vuole utilizzare il predominio del dollaro per avviare verso gli Stati Uniti il flusso dei capitali. Per le sue conseguenze questo progetto non è nient’altro che un attacco all’Europa.

Donald Trump ha presentato un programma economico inconsistente soltanto in apparenza. In effetti Trump vuole sfruttare senza pietà le difficoltà dell’Europa e delle economie dei paesi emergenti.

In base agli slogan della campagna elettorale e ai suoi primi annunci, il programma di Donald Trump per il Commercio Estero sulle prime sembra confuso e contraddittorio. Però dietro è nascosto un freddo calcolo. Se sarà messo in pratica, i mercati dei paesi emergenti e l’Europa si ritroveranno perdenti.

Numerosi articoli hanno messo in luce gli aspetti economici contenuti nel programma di Donald Trump. Il settore del commercio estero è stato ignorato finora. I due articoli che seguono metteranno l’accento su questo aspetto. Come già la politica interna, la politica economica estera (e la politica estera in generale) di un’amministrazione Trump rappresenteranno una rottura col passato. In questo articolo saranno prese in esame le basi della politica monetaria. Nel prossimo articolo tratteremo la politica commerciale.

Il dollaro USA si è rivalutato fortemente proprio rispetto alle monete dei suoi più importanti partner commerciali, lo yuan cinese, l’euro, il peso messicano, lo yen, la sterlina inglese, eccetera. Questa non è affatto soltanto una reazione a breve termine seguita alla vittoria elettorale di Donald Trump, ma è una tendenza di lungo periodo, su numerosi anni, che ha visto una nuova accelerazione con la vittoria di Donald Trump e dei Repubblicani. Se il Governo Trump ed i Repubblicani del Congresso mettono effettivamente in opera una combinazione di vasti programmi di infrastrutture e di riduzioni massicce di imposte, il dollaro americano sarà favorito anche in altri paesi. Questo rinfrescherà il ricordo della forza del dollaro durante la prima amministrazione Reagan nel 1985. All’epoca la combinazione di una politica di piano espansiva e di una politica monetaria tendenzialmente più restrittiva aveva spinto il dollaro ai suoi massimi valori. I tassi di interesse reali negli Stati Uniti erano fortemente cresciuti grazie a questa sinergia unilaterale delle politiche economiche. Se questo si verificherà nuovamente gli Stati Uniti perderanno enormemente in competitività, l’industria manifatturiera non tornerà dentro le frontiere come ha promesso Trump durante la campagna elettorale anzi si delocalizzerà ancora di più sulla base della rivalutazione del dollaro sul mercato dei cambi. E’ esattamente ciò che è successo al tempo di Reagan.

L’indice reale effettivo del tasso di cambio del dollaro (Grafico FED)

L’indice reale effettivo del tasso di cambio del dollaro (tarato in funzione degli scambi commerciali) è pubblicato dalla Federal Reserve americana [FED nel seguito -N.d.T.] Esiste in due versioni, come indice in funzione delle monete più importanti (“majors”) e come indice definito globalmente (“broad index”) nel quale si tiene effettivamente conto di numerose monete di paesi emergenti. L’indice è al netto dell’inflazione con i prezzi al consumo ovvero è stato depurato dalle oscillazioni della variazione dei prezzi. Un indice crescente del tasso di cambio reale significa una rivalutazione del dollaro e conseguentemente un peggioramento della competitività dei prezzi dell’ industria americana nel commercio con l’estero. All’opposto, una svalutazione è positiva per la competitività. Il lasso di tempo necessario perché le modifiche del tasso di cambio influenzino i flussi commerciali con l’estero, abitualmente è di circa 3 anni . Dopo una variazione, l’effetto si stabilizza in pochi mesi e generalmente è più forte dopo il secondo anno. Soprattutto sul lungo periodo, su più anni, la rivalutazione o la svalutazione producono degli effetti cumulativi molto importanti per la competitività dell’industria.

Dopo il passaggio a tassi di cambio flessibili nel gennaio 1973, il dollaro reale ha conosciuto questo genere di lunghi periodi di ribasso e poi di rialzo del dollaro sempre intorno alla media considerata 100 (si veda il grafico ) Su un diagramma di lungo periodo questo rappresenta una stabilità sorprendente. Una prima fase di crescita è intervenuta il tra il 1979 ed il 1985 una seconda tra il 1993 e il 2001. La terza ed ultima fase di aumento è iniziata dal suo punto più basso nel 2011. In una prospettiva storica, la fase non è ancora tanto pronunciata quanto le due precedenti.

Questi cicli evolutivi del dollaro sul lungo periodo non sono casuali. Si basano su una variazione della congiuntura fondamentalmente diversa tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Le differenze tra i due indici- Broad and Major Currencies- sono relativamente piccole. Soprattutto nella seconda metà degli anni 90 e durante questi tre ultimi anni l’indice generale (Broad) è salito un po’ più rapidamente di quello indicato in funzione delle valute più importanti. Questo riflette il fatto che in questo periodo sono stati sotto pressione soprattutto i paesi emergenti.

Con la politica finanziaria e la politica economica generale che Trump prevede si può ben pre programmare una nuova rivalutazione dell’indice reale del dollaro. Ciò potrebbe portare a una rapida rivalutazione del dollaro come a metà degli anni 80 – o anche maggiore.

Che c’è dietro la rivalutazione attuale del dollaro? Semplicemente una combinazione di fattori di attrazione e di repulsione. Gli Stati Uniti si trovano in un ciclo congiunturale avanzato rispetto al resto del mondo. Dal 2010 la loro economia cresce del 2% circa all’anno. E’ meno di ciò che succedeva in passato dopo un’ importante fase di recessione, ma è comunque molto più che in Europa o in Giappone. Inoltre partendo dalle dichiarazioni di Trump nella sua campagna elettorale, sembra verosimile una fase di bilanci di previsione espansivi. In primo luogo, c’è l’attesa di una lieve chiusura della politica monetaria americana. L’andamento dell’economia secondo la valutazione della FED non è eccezionale ma è dignitoso. Gli indicatori del mercato del lavoro forniti dalla FED stessa [molto discutibili -NdT francese] sono molto migliorati rispetto al passato. Gli indicatori dell’inflazione mostrano una normalizzazione e l’allontanamento delle tendenze deflattive degli anni scorsi. La vittoria elettorale di Donald Trump con i suoi progetti di politica budgetaria, dovrebbe dare una spinta supplementare alla congiuntura interna e contemporaneamente creare delle necessità di finanziamento. La prospettiva di aumento dei tassi da parte della FED, quella di una migliore congiuntura, legata a tassi d’interesse più alti e ad una curva di rendimenti più ripida sono i principali i fattori di stimolo.

Indice nominal du dollar pondéré en fonction des échanges commerciaux (DXY) 2011-2016

L’evoluzione più recente sul mercato delle valute non è ancora apparsa nell’indice del tasso di cambio reale. I dati coprono il periodo che va fino a fine settembre 2016, ma non riportano l’aumento intervenuto dopo. I prezzi al consumo, necessari per misurare un effetto deflattivo, sono sempre pubblicati con un ritardo significativo.

L’indice nominale del dollaro tarato in funzione degli scambi commerciali, da allora ha raggiunto delle nuove vette nella tendenza al rialzo dopo il 2011, dopo essersi consolidato durante circa due anni nel 2015 e nel 2016. Entro poche settimane i valori di cambio nominali e quelli reali si avvicineranno molto. L’indice reale del dollaro dovrebbe anche aumentare fortemente. E’ una valutazione allargata del dollaro, basata sulle valute principali come l’euro, lo yen, la sterlina, lo yuan. Dall’altra parte, dietro questo si cela la debolezza delle divise dei paesi emergenti che è comunque molto più selettiva che nel 2014. Prima di tutto le monete di certi paesi, come il bolivar venezuelano, il peso messicano, la lira turca, la lira egiziana, il ringgit malese o il peso filippino, sono sottoposte ad una pressione massima. Sono valute di paesi stretti da crisi politiche, nella maggior parte dei casi crisi interne, e crisi esterna nel caso del peso messicano. Altri paesi, non proprio piccoli, sono anche minacciati come l’India con la rupia, dove il governo Modi ha intrapreso sorprendentemente una campagna contro il possesso di denaro liquido e ha soffocato tanto le banche quanto la popolazione con questo colpo a sorpresa- che ha prodotto una paralisi quasi totale dell’attività economica ed una perdita generale di fiducia nel governo e nella Banca Centrale.

Oltre al cambio di aspettative circa il tasso di interesse reale negli Stati Uniti c’è anche una crisi latente dell’economia dei paesi emergenti, che stimola la forza del dollaro come secondo fattore di sviluppo. I debiti in dollari di numerosi paesi emergenti sono molto aumentati in un decennio. La concessione di credito in questi paesi rifletteva un periodo in cui i prezzi delle materie prime crescevano rapidamente, stimolati principalmente dal boom degli investimenti in Cina e da una regolamentazione bancaria in Europa e altrove, che drogava l’espansione del credito. Con il rallentamento della crescita in Cina e la caduta dei prezzi delle materie prime dopo il 2013, i problemi sono aumentati. Le entrate di questi paesi contabilizzate in dollari, sono crollate in modo spettacolare a causa del crollo dei prezzi delle materie prime. Numerosi paesi hanno gravi problemi di bilancia dei pagamenti. L’azione combinata dell’aumento dei tassi di interesse e della forza complessiva del dollaro complica ancor di più la situazione in queste economie dei paesi emergenti. I settori non finanziari e bancari sono ugualmente toccati dall’aumento dei tassi di interesse e dalla rivalutazione del dollaro. Il pagamento degli interessi, la maggior parte delle volte al tasso LIBOR plus, diventa più caro e il debito cresce. Il problema è più grave nei paesi nei quali le entrate per esportazione sono fortemente intaccate a causa del ribasso delle materie prime e nei paesi che hanno contratto crediti in dollari per investire sul mercato interno. L’aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti nei due casi ha agito come detonatore e ha dato il via a un frenetico movimento di copertura dei debiti o a una fuga di capitali.

In tutta una serie di paesi di paesi emergenti c’è già una carenza effettiva di dollari (dollar-shortage). Questo riguarda il Venezuela, l’Egitto, la Nigeria, l’Angola, l’Uzbekistan, eccetera. Questi paesi non hanno più delle riserve in dollari per pagare gli scambi commerciali, come era per l’Europa immediatamente dopo la seconda guerra mondiale. In qualcuno di questi paesi questo ha già causato un deficit critico di approvvigionamento delle derrate alimentari perché queste non possono più essere importate. Il peggio deve ancora venire. L’Arabia Saudita ha potuto darsi un po’ di respiro grazie ad una enorme prestito obbligazionario. Questo paese straricco non ha potuto onorare i suoi debiti, in particolare verso i lavoratori immigrati dall’India, dal Pakistan,dal Bangladesh e neppure verso grandi imprese di costruzione americane, spagnole e italiane.

La crisi latente dei paesi emergenti è stata abilmente ammorbidita nel 2016 dalla FED che ha rinunciato a rialzare i tassi di interesse nel 2016 e in tal modo ha permesso e persino incoraggiato una ripresa dei mercati dei paesi emergenti e delle valute legate alle materie prime. Questa ripresa è stata – o è ancora- molto lenta in vari paesi per esempio per il Real brasiliano, il Rand sudafricano o il rublo russo. È importante per queste monete aver beneficiato di una flessibilità che ha permesso loro di svalutare molto e in fretta nel 2014. Le riserve valutarie in tal modo sono state protette. A questo ha anche contribuito un certo rialzo dei prezzi delle materie prime, soprattutto del petrolio.

Una terza causa che spinge il dollaro verso l’alto è la crisi latente del sistema bancario e finanziario fuori dagli Stati Uniti, dove vi è un aumento della fuga dei capitali. Anche questo è un fattore di rialzo [del dollaro -N.D.T.] Il fenomeno riguarda alcuni paesi emergenti, l’Europa, soprattutto l’eurozona, ma anche la Cina. La dove si verifica, il desiderio di diversificare la scelta dei Depositi è ragionevole e giustificato. Il sistema bancario americano è capitalizzato molto meglio, relativamente, ed è incomparabilmente meno esposto al rischio di prestiti irrecuperabili o a rischi di compensazioni materiali rispetto alle banche che stanno nelle zone economiche citate. [affermazioni molto discutibili- si veda la crisi dei subprime nel 1208 NdT].

La insufficiente capitalizzazione latente del sistema bancario si ripercuote ancora in modo particolare sul mercato dei cambi. La parità dei tassi di interesse, un rapporto considerato valido dopo il passaggio ai tassi di cambio flessibili, è stata falsata dopo il 2010 dall’ introduzione dei premi di rischio. La parità dei tassi di interesse indica che i costi della copertura dei rischi di cambio a lungo andare sono tanto alti quanto la differenza fra i tassi di interesse nazionali e quelli stranieri sul mercato monetario a parità di durata. Il mercato dei cambi nel frattempo oggigiorno mostra delle diversità. La differenza implicita dei tassi di interesse è molto più alta della differenza dei tassi sul mercato monetario, a parità di scadenze. I costi di copertura del cambio sono dunque ben più alti che la semplice differenza sul mercato monetario. Questo non riguarda affatto soltanto le monete dei paesi emergenti, o lo scambio di valute non liquide, ma riguarda valute assolutamente importanti come il cambio euro/dollaro o il cambio dollaro/yen. Questa anomalia si è manifestata più chiaramente nel 2016. L’economista della Banca dei Regolamenti Internazionali attribuisce la violazione della parità dei tassi di interesse ad un sistema bancario insufficientemente capitalizzato, con la conseguenza di costi di copertura troppo elevati. Dei tassi di interesse americani crescenti e il rialzo del dollaro portano così a una situazione nella quale la copertura degli impegni in dollari diventa sempre più costosa e fa anche, di un dollaro statunitense forte, il termometro dell’avversione mondiale al rischio, così come lo era la volatilità del mercato borsistico fino al 2009.

Questo scenario mette in scena i principi di ciò che progetta evidentemente la nuova amministrazione. L’idea di base di questo programma è stata recentemente illustrata da un’intervista di Steve Bannon, lo stratega principale di Trump di fresca nomina. Trump lo ha scelto come uno dei suoi consiglieri più importanti insieme al capo di gabinetto Rience. Nell’intervista Bannon ha cominciato spiegando di non essere né un razzista, né un nazionalista etnico, ma un “nazionalista economico”. Come elemento centrale vorrebbe un immenso programma di infrastrutture, del valore di 1000 miliardi di dollari. Vuole delle strade e dei ponti, delle scuole, anche dei cantieri navali, e vuole… fare finanziare tutto ciò dall’estero. L’Idea di base è di offrire un rendimento del capitale ragionevole in un mondo pieno di tassi di interesse negativi e di attirare capitali stranieri in grande quantità. In un momento in cui altre zone economiche sono in difficoltà- ed è questa la ragione per cui offrono interessi negativi- la nuova amministrazione vuole approfittarne per offrire delle possibilità di investimento attraenti negli Stati Uniti per i capitali che chiedono invano dei tassi di interesse remunerativi nei loro paesi di origine.

Se il presidente recentemente eletto, che è al centro del sistema monetario mondiale (della moneta di riferimento), redige il suo programma con un’ agenda puramente rivolta all’interno (“l’americanizzazione piuttosto che la globalizzazione”), ciò diventerà presto o tardi difficile e a lungo termine anche scomodo per il sistema monetario. Il dollaro statunitense resta la valuta di riferimento o di riserva dell’economia mondiale. Numerose valute degli altri paesi sono fissate o legate al dollaro con un margine di fluttuazione e dunque ne riprendono anche i tassi di interesse. Il mercato dei capitali negli Stati Uniti è il più profondo e il più liquido al mondo perché la sua formazione dei prezzi – tassi di interesse e corso delle azioni- influenza anche le grandi valute flessibili come l’euro. La maggior parte del commercio mondiale è fatturata in dollari. I prestiti in dollari dominano le aperture di credito internazionali. La stragrande maggioranza dei prestiti internazionali sono valutati in dollari USA e precisamente in Libor Plus.

Ciò che Bannon vuole sfruttare implicitamente è questo predominio del dollaro come moneta mondiale. Gli Stati Uniti storicamente hanno un tasso di risparmio debolissimo ed anche nel confronto internazionale. Le famiglie, le imprese e lo Stato risparmiano pochissimo e consumano troppo.

Ciononostante il nuovo governo vuole una politica di espansione molto importante. Vuole sviluppare un grande programma di infrastrutture e per giunta, almeno secondo le dichiarazioni fatte in campagna elettorale, ridurre le imposte su una base ancora più larga, sia per i contribuenti i privati, sia per le imprese. Questa sembra una direzione di marcia ad alto rischio e non la si può soltanto paragonare a quella del 1982, quando il presidente Reagan ha applicato la sua politica di investimenti contraddistinta dalle spese per la difesa e dalle riduzioni di imposta. A quell’epoca i tassi di interesse sono scesi notevolmente mentre ora invece devono salire. Allora l’indebitamento privato e quello dello Stato erano relativamente bassi in percentuale del PIL, mentre invece oggi sono entrambi molto alti. L’amministrazione Trump pertanto non può che cominciare da tassi di inflazione molto deboli, mentre invece Reagan era partito da un’inflazione a due cifre.

Taux d’épargne net des États-Unis. (Source: US Bureau of Economic Analysis, Fredgraph)

Non è che se un tale programma viene finanziato dall’estero e intanto il livello di Risparmio interno aumenta nel tempo questo calcolo risicato possa andare a buon fine. Per che riesca c’è tutta una serie di condizioni irrinunciabili. Altrimenti i tassi di interesse esploderanno rapidamente negli Stati Uniti e soffocheranno il consumo privato e gli investimenti.

Una condizione essenziale è che negli Stati Uniti l’inflazione non aumenti troppo rapidamente ma resti strettamente controllata nel quadro del precedente programma della FED americana. Da questo lato vi sono buone prospettive dato che la valuta è sostanzialmente consolidata, ma questo richiede una modifica tattica della politica monetaria della FED, in particolare la politica dei tassi di interesse. Ffinora grazie alla congiuntura macroeconomica la FED ha avuto un largo margine di manovra per mantenere i tassi di interesse vicini allo zero per anni. La ripresa, che è appena moderata, la disoccupazione nascosta, il dollaro forte e soprattutto l’abbattimento dei prezzi delle materie prime dopo il 2014, le hanno dato un grande margine di manovra. Ha potuto rinunciare al rialzo dei tassi nel 2016 per allentare la tensione sui paesi dei paesi emergenti. Nel futuro, questo margine di manovra della politica monetaria sarà fortemente ridotto nel caso che il programma elettorale dell’Amministrazione Trump venga messo in opera nelle sue grandi linee. Un pacchetto fiscale sostanziale, che stimolerà la congiuntura interna, costi salariali tendenzialmente crescenti per il miglioramento del mercato del lavoro, rinforzeranno l’aumento dei prezzi. Non ci sarà modo di sottrarsi ad aumenti progressivi dei tassi di interesse della FED.

Il primo rialzo dovrebbe già avvenire in occasione della riunione di dicembre del FOMC [Federal Open Market Committee].   Questo ha molte giustificazioni, ma le previsioni di inflazione, espresse dai mercati a termine, nel frattempo sono molto aumentate.

Non solo la FED, ma anche il governo ed il Congresso avrebbero la possibilità di ridurre le aspettative di inflazione. Il più grande fattore di inflazione negli Stati Uniti è costituito dai costi della Sanità. Ogni anno le varie voci che compongono la spesa per la salute aumentano di circa il 6% o più. Un controllo più attento oppure un ribasso dei prezzi delle medicine e delle tariffe medico-ospedaliere dovrebbero logicamente intervenire, ma tenendo conto del programma dei Repubblicani questo non avverrà, anzi sarà il contrario.

Un secondo punto riguarda la politica del mercato del lavoro. Trump ha annunciato la sua intenzione di rimandare al paese d’origine gli immigrati illegali. Se lo farà vi sarà ben presto un’offerta insufficiente sul mercato del lavoro nelle regioni in espansione, la California, New York, altri stati federali della costa est, il Texas. Gli aumenti salariali avranno una forte accelerazione.

Una seconda condizione essenziale sarà anche che i deficit di bilancio e le finanze pubbliche non vadano fuori controllo. Questo è molto più difficile, forse è persino irreale, soprattutto col programma di Donald Trump. Trump vuole combinare un importante programma di infrastrutture con l’aumento delle spese della Difesa e la riduzione massiccia   delle tasse sul reddito e sui capitali per i privati e delle tasse sulle imprese. Tutto questo è fondato per quanto si può giudicare da lontano, su delle ipotesi di crescita che dovrebbe salire al 4% in modo che le entrate fiscali aumentino e finanzino il programma. La matematica fiscale non vale la carta su cui è scritta. La base fiscale sarà considerevolmente ridotta in modo duraturo da un ribasso significativo delle imposte sul reddito e delle tasse alle imprese. L’aumento dei tassi di interesse, anche se rimanesse modesto, aumentera’ il costo degli interessi sul debito esistente. Una conseguenza a lungo termine sarà un rialzo o magari un’esplosione dei deficit di bilancio. Un aumento delle imposte per le famiglie ad alto e ad altissimo reddito, per finanziare il programma, sarebbe molto più adatto a questo programma di infrastrutture. Anche un’altra soluzione, diversa da quella proposta da Trump, per la tassazione delle imprese potrebbe essere più adeguata.

Ma c’è ben altro di cui temere. Ed è che il programma di infrastrutture sia finanziato principalmente da un partenariato pubblico-privato (PPP). Questo sistema in un primo tempo aiuta a mascherare i costi sostenuti dai poteri pubblici ma poi si rivelano spesso ben più onerosi a lungo termine. Comunque ci sono poi molte forme di PPP.

Con i PPP , il finanziamentO delle infrastrutture, delle scuole, delle opere municipali, regionali, delle strade, degli aeroporti, e dei porti, sono affidati a investitori privati ai quali si concede allo stesso tempo il diritto di sfruttamento. Questi ultimi si impegnano a provvedere degli investimenti e altre prestazioni, conformemente all’appalto. Gli investitori privati possono in cambio ricevere gli utili in quanto concessionari temporali delle infrastrutture, per dei periodi predefiniti, la la maggior parte delle volte lunghi: per esempio le tasse d’iscrizione alla scuola i diritti aeroportuali e portuali, i pedaggi autostradali, le tariffe dell’acqua e dell’elettricità eccetera. Alla fine del periodo stabilito l’infrastruttura torna generalmente allo Stato. Il quale si ritrova spesso con un deficit o anche un impegno di dare un utile al concessionario.

Il vantaggio dei PPP sta nel fatto che gli investimenti possono essere stimolati velocemente mobilitando il capitale privato e i costi di investimento non devono essere contabilizzati come spese in un primo tempo. Il bilancio e i debiti dello Stato non sono appesantiti in modo visibile. Il funzionamento assicurato da concessionari fortemente specializzati può effettivamente essere più efficace. Al contrario, sui periodi seguenti, le entrate per lo Stato diminuiscono. Le garanzie sui deficit e sul guadagno spesso sono complesse e possono rappresentare degli importanti carichi per le finanze pubbliche. A differenza del settore privato queste non devono nel frattempo essere contabilizzate continuamente come una voce passiva. La durata predefinita della concessione è spesso troppo lunga e dà luogo ad un trasferimento di guadagni troppo elevato. Inoltre verso la fine del loro contratto di concessione i privati spesso potrebbero non più onorare i loro obblighi di manutenzione e di di rinnovamento. Possono anche fare fallimento, eccetera.

Il rischio dei PPP è in generale notevole. I veri costi di investimento spariscono dai bilanci pubblici. In fin dei conti le prestazioni pubbliche possono essere sopravvalutate e fornite col dei tassi di investimento molto esagerati. Il bilancio dei PPP a livello mondiale è molto deludente. Soprattutto nei paesi con governo debole questi PPP sono un Eldorado per la corruzione e il clientelismo.

Il controllo del blocco dei prezzi della Sanità, la fiscalità e i PPP sono alcuni dei principali scogli per il governo. Questi punti hanno delle pesanti ripercussioni a medio e a lungo termine sui tassi di interesse se si vuole mettere in opera un programma di infrastrutture come previsto. Se Trump decide conformemente al suo programma elettorale, questo significa che vi saranno tassi di interesse notevolmente più elevati ed un dollaro forte. Gli Stati Uniti non possono finanziare l’insieme del programma senza correre dei grossi rischi. In caso di deficit fuori controllo i tassi di interesse reali a medio e a lungo termine aumenterebbero fortemente. Qualunque sia l’alternativa scelta dall’amministrazione, questo programma non prevede niente di bello e buono per i paesi emergenti. Molti di loro hanno delle aperture di credito importanti a corta scadenza, almeno per gli interessi. Se i tassi di interesse americano crescono e cresce il valore del dollaro questo avrà un effetto negativo sul prezzo delle materie prime e questi paesi saranno messi sotto pressione. Numerosi paesi emergenti soprattutto quelli che esportano materie prime saranno duramente colpiti da questa situazione. Può darsi non immediatamente ma questo si ripercuoterà più tardi sulla crisi dei paesi emergenti. I paesi che non hanno visto una ripresa dei loro mercati e delle loro valute nel 2016, sembrano particolarmente minacciati. Storicamente i due cicli precedenti del dollaro forte hanno contribuito a delle gravi crisi dei paesi emergenti. Non si vede perché dovrebbe andare in modo diverso la prossima terza volta. tanto più che la loro situazione di indebitamento è in parte più grave che in passato.

Lo sviluppo monetario sarà una sfida anche per l’Europa. Le grandi banche europee hanno dei crediti molto importanti nei paesi emergenti. Se si verificheranno delle grandi perdite di credito la loro sottocapitalizzazione, che è comunque già troppo estesa, comprometterà la loro capacità di attirare dei nuovi prestiti nella loro zona monetaria.

A questo si aggiunga un nuovo panorama per la politica monetaria della Banca centrale europea, e indirettamente per la politica finanziaria in Europa. Finora la Banca centrale europea ha compresso i tassi di interesse con dei tassi negativi e col suo programma di acquisto delle obbligazioni appiattendo in quel modo la curva dei tassi di interesse. La Banca centrale europea così ha ottenuto che le prospettive congiunturali a breve termine fossero leggermente migliori nell’Eurozona. Ma a caro prezzo. Il il sistema bancario dell’ Eurozona è sottocapitalizzato per la riduzione dei rendimenti che dura da anni e i sistemi pensionistici a lungo termine sono indeboliti. La continuazione di questa politica non significherebbe nient’altro che il finanziamento della politica di bilancio espansiva americana da parte dei risparmiatori e dei possessori di capitali europei, dunque anche dei futuri pensionati. Infatti gli investitori istituzionali europei che soffrono di una scarsa offerta di investimenti – gli assicuratori, le casse di pensione, i fondi d’investimento- si diversificherebbero sempre più con investimenti in dollari, nel caso di differenziale crescente dei tassi di interesse in rapporto al dollaro. Perciò finanzierebbero e pagherebbero indirettamente il programma di infrastrutture statunitense, ma anche le eccessive spese della difesa e le riduzioni di imposta per i ricchi e le grandi aziende. Per la Banca Centrale Europea questa è l’ultima occasione di correggere la sua politica monetaria salvando la faccia.

Un aumento lento e non eccessivo del dollaro ridurrebbe la competitività dell’industria americana.

Un rialzo molto forte nuocerebbe pesantemente e irreversibilmente all’industria. Questa è l’incoerenza del programma economico di Trump. Ciò che Donald Trump cambierà di conseguenza nella sua politica economica, sarà oggetto del prossimo articolo.

 

Michael Bernegger

Fonte: http://lesakerfrancophone.fr

Link: http://lesakerfrancophone.fr/le-dollar-larme-la-plus-efficace-donald-trump-lance-lassaut-contre-leurope

28.12.2016

Traduzione dal francese per www.comedonchisciotte.org a cura di GIAKKI49

Pubblicato da Deutsche WirtschaftsNachrichten

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