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I confini dell’intelligenza artificiale

Le intelligenze non-umane autonome sono già tra noi e possono simulare delle attività che fino a poco tempo fa erano ritenute impossibili da replicare. Nel frattempo il loro sviluppo prosegue furiosamente.
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A cura di Matteo Parigi
Il 22 Luglio 2024
11776 Views

L’intelligenza artificiale è la più grande minaccia alla nostra esistenza
– Elon Musk

L’università degli studi di Perugia ha inaugurato la nascita di una cattedra interamente dedicata all’intelligenza artificiale. Apple ha ufficializzato l”introduzione della sua AI in tutti i suoi dispositivi elettronici, adeguandosi alle politiche dei suoi rivali e partner del digitale. Nel frattempo, Elon Musk sta continuando ad investire nell’inserimento di microchip neurali all’interno dei nostri crani, mentre numerose start-up sparse in tutto il mondo stanno portando avanti “innovazioni” tecno-antropologiche come il backup della memoria, la criogenia cerebrale, la creazione di “intelligenze emotive artificiali“; il tutto compendiato dagli androidi già costruiti con successo da Boston Dynamics e Tesla. Tutti questi fatti confermano quanto l’AI sia ormai parte della nostra vita. Tuttavia, al livello del dibattito pubblico comune, soprattutto in Italia, si parla di Intelligenza Artificiale come se stessimo assistendo all’alba di una futura rivoluzione antropologica. Il che è innegabilmente vero, con la dovuta precisazione che non c’è da aspettare nessun avvento: ci siamo già dentro. Infatti, in nome di una precisa consapevolezza del presente, la vera e propria Intelligenza Artificiale esiste da decenni ed è ormai diffusa largamente in innumerevoli situazioni delle nostre vite. Ma spesso è grazie al bagaglio culturale di cui siamo dotati a priori che riusciamo a vedere il mondo circostante. Non a caso, quando a Confucio chiesero cosa avrebbe fatto se fosse diventato imperatore, egli rispose: «Prima di tutto, rettificherei i nomi delle cose».

Intelligenze artificiali classiche ed avanzate

Un’AI (dall’inglese Artificial Intelligence) è innanzitutto una qualsiasi macchina od un qualsiasi programma in grado di svolgere compiti che per essere eseguiti richiedono forme di intelligenza presenti esclusivamente (o quasi) negli esseri umani. Ora, in questo senso praticamente tutti i software informatici sono AI. Tuttavia, un conto è elaborare fogli di calcolo come fa Excel. Ben altra questione è saper comprendere frasi linguistiche umane ed essere in grado di rispondere in modo sensato e totalmente autonomo. Questi due esempi rappresentano infatti i due rami principali dell’albero genealogico delle AI[1]. Il primo è quello dei modelli algoritmici classici (classical algorithmic models, detti anche GOFAI: Good Old Fashioned Artificial Intelligence) i quali consistono in sistemi di algoritmi che analizzano i dati in input che vengono loro offerti per poi calcolare gli output seguenti. Le GOFAI “si muovono” secondo la logica booleana, cioè analizzando i dati come se questi avessero dei valori di verità binari (vero o falso, 1 o 0) per cui la verità o falsità dei dati analizzati “muove” gli algoritmi verso risultati deterministicamente predisposti. Non ci vuole molto per capire che queste AI classiche sono ancora troppo macchinose: la loro architettura è rigida, poiché l’intelligenza fa solo ciò che le è deterministicamente concesso dagli algoritmi inseriti, cioè non ha sufficiente autonomia né capacità innovativa; inoltre richiede una quantità di informazioni troppo dispendiosa ed una volta prodotto ciò che deve produrre finisce lì.

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Invece, l’architettura delle vere e proprie AI con le quali abbiamo a che fare oggigiorno è, al contrario, dinamica e permette alle AI non solo di richiedere una minor quantità di dati iniziali, ma addirittura di imparare dai propri errori, migliorare ed affrontare nuove situazioni, senza che il programma venga ri-aggiornato da tecnici umani. Questa facoltà inedita per un’intelligenza non umana – ed è in questo momento una delle più importanti “conquiste” delle macchine intelligenti – viene chiamata per l’appunto machine learning, ma, vista l’ampiezza del tema, ne parleremo in seguito. Per adesso è sufficiente descrivere brevemente l’architettura e le novità delle AI di ultima generazione. Piuttosto che parlare di classiche-moderne o vecchie-nuove AI, e nella misura in cui quelle classiche sono ancora parte integrante del nostro mondo tecnologico, è più opportuno definire le AI più recenti come dei sistemi connessionistici (connessionistic systems), oppure, ancora meglio, sistemi informatici fondati sulle Reti Neurali Artificiali (Artificial Neural Networks, ANN). Tralasciando per motivi di spazio l’intera descrizione dettagliata di queste reti, basti dire che la struttura paradigmatica che ha ispirato la loro creazione altro non è che quella del sistema nervoso umano: infatti i nodi (nodes/units) e le connessioni (connections) di cui sono costituite le ANN ricalcano artificialmente le connessioni tra percettroni e di conseguenza tra neuroni (da cui il nome “reti neurali”). A partire da questa architettura di base le AI sono oggi in grado di realizzare due attività e due “facoltà sensibili” finora ritenute impossibili da replicare nelle macchine:

  •  Imitazione
  •  Apprendimento
  •  Riconoscimento e produzione di immagini
  •  Comprensione e produzione linguistica

Quattro modi di somigliare agli umani

Senza soffermarsi troppo sull’intero funzionamento tecnico, basti dire che il primo caso non è altro che il famoso Imitation Game, noto anche come test di Turing, per cui una macchina che fosse in grado di imitare un essere umano tanto da rendere questo e la macchina indistinguibili, significherebbe, secondo gli interpreti, il raggiungimento di una uguaglianza di dignità esistenziale per le AI tale da porre importanti problemi etici, politici e sociali. A riguardo, il test di Turing sarebbe stato superato, secondo alcuni esperti, nel 2014 dal progetto russo-ucraino Eugene Goostman, sebbene in realtà il verdetto di intelligenza umanoide si sia rivelato decisamente discutibile.

Nel secondo caso, come anticipato sopra, le nuove AI a reti ANN procedono secondo percorsi tecno-epistemici che permettono loro di rimodulare autonomamente le loro risposte a seconda dei feedback che ricevono dall’ambiente. Il machine learning, come è stato chiamato, equivale ad un particolare processo informatico di apprendimento, vale a dire una particolare forma di auto-miglioramento, facoltà comunque figlia – il ché vuol dire tutto – di complesse costruzioni algoritmiche fatte da esperti umani.

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L’App Google Lens è il prototipo delle AI, addestrate a riconoscere e categorizzare ogni oggetto rilevato nelle foto scattate da un qualsiasi smartphone. È stato sperimentato molto in ambito medico come rilevatore di malattie della pelle ed altri segnali sintomatici di varie patologie. Il dottore artificiale è già imminente.

Le ultime due funzioni sopra elencate, riconoscimento di immagini e linguistica, corrispondono a due vere e proprie attività sensoriali tipiche degli esseri viventi e nell’ultimo caso dell’uomo. Riconoscere le immagini che provengono dall’esterno significa in un certo senso possedere la vista, ovviamente un tipo particolare di vista. Infatti, non si tratta, nel caso delle AI più recenti, semplicemente di etichettare (labeling) certe immagini, od oggetti appositamente inserite al loro interno. Le più avanzate Convolutional Neural Networks (CNN), attraverso i vari processi di tipo feed-forward e back-propagation, riescono a riconoscere da sole le differenze, i dettagli, le sfumature che differenziano gli oggetti visti nelle immagini su cui vengono addestrate inizialmente, per poi saper effettuare il riconoscimento su nuovi input mai sperimentati. Un esempio immediato sono i vari software di riconoscimento facciale, i quali sanno riconoscere volti umani (ed i loro più piccoli dettagli) anche di persone mai viste durante l’addestramento.

Infine, le AI di tipo NLP (Natural Language Processing) sono diventate improvvisamente di interesse comune quando si è diffuso ChatGPT. Le NLP sono le intelligenze linguistiche che, impiegando particolari reti di tipo Recurrent Neural Networks (RNN) comprendono le formule linguistiche umane ed elaborano risposte sensate ormai con una distinta precisione. Un osservatore attento può rendersi conto che dieci anni fa il traduttore di Google era praticamente inutilizzabile mentre adesso ha raggiunto una “umanità troppo umana” per dirla alla Nietzsche. Infatti, il mondo delle AI è caratterizzato da una vertiginosa velocità di cambiamento, tanto che la differenza tra le AI attuali e quelle di cinque anni fa è la stessa che c’è tra i computer odierni ed i primi esperimenti nel Novecento[2]. Per questo motivo il noto (e controverso) Raymond Kurzweil continua ad avvisare che «la singolarità è vicina!» (ci manca solo un «rendete dritta la via del Signore!» N.d.A.), ossia il momento in cui l’intelligenza artificiale sorpasserà quella umana.

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La homepage di ChatGPT (Chat Generative Pre-trained Transformer), l’intelligenza generativa più diffusa sul mercato. Creazione di OpenAI, start-up di Elon Musk e Sam Altman. Come scritto nell’immagine, chi utilizza questi mezzi a quanto pare ha bisogno di rivolgersi al nuovo “oracolo” ,il quale saprebbe meglio dell’interessato cosa farsene dell’arte dei propri figli.

Limiti e questioni aperte

Ma a parte i proclami di chi vuol speculare su futuri impossibili da verificare, le domande che sorgono alla luce di quanto visto finora sono le seguenti: si può quindi parlare davvero di macchine in tutto e per tutto simili agli esseri umani? Le AI, ora che sono in grado di migliorarsi da sole, ed essendo capaci di adattarsi all’ambiente, nonché di comunicare in modo sensatamente autonomo, di avere una “vista” in grado di discernere automaticamente gli oggetti visti ecc. non dimostrano di comportarsi come dei viventi? Cosa distingue quindi la vita dalla materia? Possono le macchine generare forme di coscienza? Gli androidi sostituiranno davvero gli esseri umani in ogni cosa? Siamo costretti, come afferma Harari a diventare Cyborgs? Non è possibile (sicuramente non in questa sede) intraprendere trattati argomentativi su questioni del genere, sebbene su alcune di queste domande la risposta è abbastanza evidente.

Innanzitutto, è necessario fare un’altra distinzione: la maggior parte delle AI sono c.d. narrow cioè progettate per svolgere uno o pochi compiti. Quelle invece create per svolgere tutte le attività intellettuali sono le general AI (AGI). Quindi, va da sé che gli scenari più distopici sullo Human Replacement riguardano solamente le AGI, anche se già adesso è reale il conflitto socio-economico tra tutte le AI, anche quelle narrow, e determinati lavori svolti da esseri umani. Per quanto riguarda le “percezioni sensoriali”, anche qui vi sarebbe molto da dire, ma intanto è sufficiente osservare che una cosa è aver imparato a categorizzare certi segni, azionare meccanismi input-output o generare frasi mediante un meccanismo di simulazione della sintassi generativa, un’altra è riconoscere la voce di propria madre o lo stato d’animo che emerge da una lettera scritta a mano. In altre parole, il pensiero deduttivo simbolico di ordine superiore è ancora prerogativa dell’uomo, per cui una macchina per quanto elaborata, non è ancora in grado di dedurre segni di diverso ordine rispetto a quelli che deve riconoscere. Per fare un esempio, nessuna AI può arrivare a sentire “la sensazione di essere figlio” nel sentire la voce della propria madre, oppure nessuna AI può agire per “senso di responsabilità” nel momento di decidere per un minorenne, al contrario di un padre, il quale deve prevedere il bene di lungo periodo del figlio in contesti molto particolari (lo stesso vale per i lavori di cura, educazione e soccorso).

Di tutto ciò si occupa chi studia il c.d. problema difficile della coscienza, per cui, secondo il filosofo della mente D. Chalmers, il vero enigma ancora irrisolto (e forse irrisolvibile) della coscienza è il problema dell’esperienza fenomenica: vedo una rosa rossa; la percepisco e sono cosciente di vederla; ma cosa si prova a vederla? Anzi, cosa si prova nell’essere in questo stato, in questo preciso ed unico momento, in quanto me stesso, nel vedere la rosa? Cosa sono la “rossezza”, la “rosità”? Cosa significano per me? Insomma, già solo per il livello di queste domande siamo ben lungi dal poter, non tanto paragonare, quanto identificare o porre in uguaglianza la vita umana (ma anche animale) e le macchine per quanto dotate di AI. Nessun machine learning o test di Turing può (forse) replicare la coscienza, dotata, oltreché di fenomenologia, anche di giudizi morali, sentimenti, archetipi, idee innate, etica facoltà del cuore e dell’intelletto in quanto soggetti di una vita concretamente vissuta al di là di ogni razionalizzazione di essa come insegna il filosofo morale Bernard Williams.

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Una illustrazione del De Humani Corporis Fabrica di Andrea Vesalio, importante opera del Cinquecento considerata il primo trattato di medicina moderna. Dalla descrizione realistica e tecnica del corpo umano di Vesalio hanno tratto ispirazione filosofi della modernità classica quali Cartesio, Hobbes, Newton, Le Mettrie, accomunati da una visione macchinina delle cose.

Già Cartesio nel suo famoso Discorso sul metodo osservava che ogni essere non-umano (il filosofo francese equiparava anche gli animali a delle macchine) manca di due particolari capacità riscontrabili invece anche nell’«uomo di più basso intelletto»: la creatività generativa del linguaggio e delle azioni:

«Anche se talune macchine riescono a svolgere molti compiti con uguale o addirittura maggior perfezione rispetto a noi uomini, evidentemente non riescono a compierne altri. Dacché si scopre quanto esse mai hanno funzionato per conoscenza, bensì per mera disposizione dei loro ingranaggi. Infatti, mentre la Ragione è uno strumento universale che si adatta ad ogni occasione, questi ingranaggi, al contrario, necessitano una determinata disposizione per ogni azione particolare. Da ciò segue che è moralmente impossibile l’esistenza di una macchina dotata di una certa varietà di ingranaggi sufficiente a permetterle di agire in tutte le circostanze della vita, nella stessa maniera in cui la nostra ragione lo permette a noi.»[3]

Le osservazioni cartesiane sono interessanti e tuttora prese in seria considerazione proprio nel campo delle AI. In verità, il recente avanzamento sopra descritto potrebbe, se non proprio confutare le sue affermazioni, per lo meno metterle in discussione nella misura in cui, come già detto appunto, eventuali AI generaliste potrebbero essere capaci proprio di saper agire razionalmente in ogni occasione particolare in cui esse si trovino. Tuttavia, sempre Cartesio nel suo errore, come giudicato dal neuroscienziato Antonio Damasio, di aver separato nettamente ragione ed emozioni, non si sarebbe accorto di quanto proprio le emozioni e l’universo sentimentale siano fondamentali per la mente razionale stessa. Paradossalmente, Cartesio, se venisse smentito il suo Discorso, avrebbe avuto torto ma allo stesso tempo ragione sulla divergenza tra uomini e macchine. Avrebbe sbagliato solo l’elemento di differenziazione (la mente emotiva, non l’intelletto puramente razionale ci differenzierebbe dalle macchine). Un importante neurologo del secolo scorso, il dott. Geoffrey Jefferson, giunse ad una conclusione simile:

«Fino a quando una macchina non sarà in grado di scrivere una poesia o comporre un concerto a partire dai suoi pensieri e dalle emozioni che ha provato, e non per la combinazione di simboli, potremo concordare sul fatto che la macchina non replica la mente umana – ossia, non tanto non può ricopiarla, bensì non può sapere consapevolmente di farlo. Nessun meccanismo potrebbe provare (e non semplicemente segnalare artificialmente; un facile espediente) piacere per sapere di aver avuto successo, o dolore quando le sue valvole si fondono, sentirsi lusingato dall’adulazione, miserabile per i propri fallimenti, sedotto dal sesso, sentirsi arrabbiato o depresso quando non può ottenere ciò che vuole.»[4]

Per spezzare un’altra lancia a favore di Cartesio – ed in risposta alla facoltà di machine learning – è possibile sostenere che non potrà mai esistere probabilmente una vera e propria intelligenza artificiale generale, per il semplice motivo che la mera somma di abilità e funzioni non va a comporre una intelligenza davvero e definitivamente completa: l’unità di tutte le conoscenze, memorie, idee è originariamente irriducibile alla somma di esse; v’è negli esseri umani un’unità della propria coscienza – che una volta veniva chiamata anima –  la quale è, per sua natura, originaria (non costruita anteriormente da altri pezzi) ed è essa stessa la condizione di possibilità della conoscenza per usare la formula di Kant. L’uomo non ha solo conoscenze, ma ha il senso dell’unità di esse. Ne sapeva qualcosa già Platone quando confutava chi sosteneva che l’anima fosse il risultato composto di una armonia tra parti[5]. Alle AI, per quanto generaliste o avanzate, manca questa unità e pertanto esse hanno la somma, ma non l’integrazione tra conoscenze. Simulare una mente è ben diverso dall’avere una mente ed è il motivo per cui il filosofo statunitense John Searle distingue tra weak AI, le quali appunto non sarebbero altro che simulazioni, e strong AI, esseri informatici dotati di una vera e propria mente (come ed in quale misura sono domande da milioni di dollari come si suol dire). Tuttavia, lo stesso Searle ha dimostrato con l’esperimento della stanza cinese (chinese room) che anche una eventuale strong AI potrebbe solo eseguire con perfetta efficienza e precisione determinati compiti senza “avere l’idea” di cosa sta facendo, concludendo che senza comprensione non v’è pensiero.

Rimangono, e molto probabilmente rimarranno, forti argomenti in risposta a chi vuol sostenere, piuttosto che l’uguaglianza possibile tra AI ed intelletti umani, una visione della vita e dell’uomo riduzionista e gravemente materialistica. Un importante problema poco denunciato emerge dalla presenza di questi grandi sviluppatori di AI, colossi del digitale e guru mossi da una distorta visione della mente umana e soprattutto della vita, che rischia di ridurre le vite ad illusioni virtuali, nonché la natura umana ad un essere senz’anima e gli uomini, nelle loro capacità, ad ingranaggi riproducibili, ovvero sostituibili non solo nel lavoro ma, seguendo la filosofia di Hannah Arendt sui totalitarismi[6], nella società umana stessa. Perché esseri considerati socialmente inutili o presto “superati da intelligenze superiori” vengono prima o poi messi da parte e, come la storia purtroppo insegna, spazzati via come nettezza etnica o sociale. Le tragedie sociali, infatti, si sono sempre rivolte, non tanto – osservò con maestria Arendt – nei confronti di nemici dichiarati o gruppi ostili, ma contro fasce di popolazione ed individui ritenuti inutili, senza vera influenza ed importanza, quindi facilmente rimpiazzabili, sostituibili. Per questo motivo, i confini dell’intelligenza artificiale sono i confini che la civiltà umana vorrà segnare per sé stessa.


Di Matteo Parigi per comedonchisciotte.org


NOTE

[1] Va precisato che, se si dovesse parlare di Intelligenza artificiale in un senso molto più generico, allora saremmo costretti ad affermare che le AI in questo senso esistono da che esiste l’uomo: già il filosofo greco Archita di Taranto, vissuto tra V e IV secolo a.C., costruiva colombe di legno in grado di volare da sole. Tuttavia, si trattava naturalmente di ingegneria meccanica, mentre il campo delle AI ha subito una gigantesca (ed ovvia) rivoluzione con la nascita dell’informatica ed è a questo ambito che fanno riferimento gli argomenti qui descritti.

[2] La legge di Moore, formulata nel 1965 da Gordon Moore confondatore della Intel, afferma che il numero di componenti all’interno di un chip informatico raddoppia ogni due anni. Ciò significa che l’aumento della potenza informatica è di ordine esponenziale.

[3] Discorso sul metodo 1637.

[4] Cit. in M. Mitchell, Artificial Intelligence. A guide for thinking humans.

[5] V. Fedone.

[6] V. Le origini del totalitarismo e la banalità del male.

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