Filippo Rossi de Bergerac

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DI CARLO BERTANI

carlobertani.blogspot.com

Strano a dirsi, ma ogni tanto spunta qualcosa di nuovo: un tenero porcino, una vellutata farfalla, un bocciolo di pesco…e un uomo che pensa, riflette e giunge a scrivere un libro per rifondare la Destra italiana. Per carità: niente di male, hanno pubblicato libri sulle barzellette dei Carabinieri o su quelle di Totti e c’è posto per tutti. C’è posto persino per la velleità di Filippo Rossi, che porta un nome prosaico ma anonimo, e ben si presta per presentare la rébellion d’un garçon plein d’air et de nullité, che al giorno d’oggi vorrebbe entrare nella parte del grande Savinien Cyrano de Bergerac (1619-1655) e calcar le scene (televisive?) dopo esser stato ristrutturato per il teatro e reso celebre da Edmond Rostand (1868-1918). Meraviglie della modernità.

Obiettivamente, sono stato troppo duro con Filippo Rossi ed il suo Dalla parte di Jekill, perché l’intento è buono…almeno…passabile, ossia raccontare (per sommi capi) che cosa è stata la Destra italiana da Cavour a Salvini, da come sono avvenuti trecentoquarantatré contrappassi, ventotto tradimenti, otto ristrutturazioni e, infine, la creazione di una coalizione che potrebbe anche vincere delle elezioni. Quando saranno.

Rossi (non Paolo) ha tirato sì in porta, ma diciamo che ne è nato solo un modesto calcio d’angolo dopo una sterile deviazione in corner. Perché?

Perché Filippo (non di Edimburgo) ha regalmente declamato la parola chiave, sulla quale ha intessuto capitoli di storie sulle disgraziate vicende della perduta nelle nebbie Grande Destra Italiana: Patria.

Oddio, non è il solo…

Giorgia Meloni pensa, addirittura, di affidare l’Italia alla grande Triade: Dio, Patria e Famiglia. Se il primo si degna di uno sguardo, se la seconda veramente esiste (come vedremo in seguito) e la terza, da tempo, ha smesso di far parte dell’insieme: ogni 72 ore, una donna (e spesso madre) viene uccisa.

Matteo Salvini si limita a misteriosi segni con le mani ed agita crocifissi e medagliette: la sua attuale famiglia (se è vero) è la di Verdini figlia, mentre per la Patria omette. Dovrebbe menzionare troppe patrie, quelle venete e lombarde in primis, e poi il vecchio regno piemontese, la repubblica ligure…mamma mia! Meglio star zitto.

Il BerlusKaiser ha smesso i panni neri od ossigenati per gli indumenti dai colori meno cangianti, come fanno tutti i vecchietti, e dopo aver partecipato alla grande kermesse del 19 Ottobre – dove hanno salutato “vigorosamente” coloro che partiranno per santificare il loro grande anniversario, la Marcia su Roma del 27-29 Ottobre – giunto a casa, sistemato nel suo lettuccio caldo, avrà aperto le pagine di Dalla parte di Jekyll e si sarà messo a sognare: oh, bei ricordi…un Montanelli giornalista, un Cossiga Presidente, un Andreotti agli Esteri…gli sarà sfuggita una lacrima, perché anche lui – come quelli che credono nel fulgore dell’amor patrio che tutto supera, travolge e calcina, oppure quelli che sognano una Destra in guanti bianchi a cena al Ritz – non ha capito una mazza. Oppure, persone che si sono rese conto che il problema esiste , ma che il problema stesso ha scarse possibilità di soluzione.

Sgombriamo subito il campo da stravaganti collusioni fonetico-culturali: possiamo subito affermare che il termine “Patria-Europea” è l’ossimoro più evidente in campo linguistico, perché non esiste un sentiero europeo sotto questo aspetto. I circa 50 milioni di morti nelle guerre nazionaliste o para-nazionaliste del ‘900 crediamo che bastino ad evidenziarlo. Non si possono creare “Patrie” dopo una simile, recente voragine: al più, si può parlare di reciproca tolleranza.

Ma, all’interno del nostro Paese, si può parlare di “Patria”?

Abbiamo circa 150 anni di storia unitaria: fu l’Esercito Piemontese ad unificare il tutto, con l’aiuto francese in funzione anti-austriaca fino a quello tedesco in funzione anti-francese per il Veneto e la presa di Roma. E qualche “aiutino” britannico (per gli interessi di Sua Maestà, antifrancesi), che – dopo aver impiccato l’ammiraglio Caracciolo a Napoli nel 1799 – concesse a due fregate inglesi di sostare a Marsala ed attendere i due vascelli di Garibaldi (per non esporli prima dello sbarco al fuoco dei vascelli partenopei).

Negli anni successivi, reggimenti piemontesi iniziarono la guerra contro il brigantaggio – dovuto principalmente al tradimento delle promesse “unitarie” – ed uccisero circa 75.000 persone ma c’è un particolare che agghiaccia: cosa capivano, l’uno dell’altro, ribelli e soldati?

Eseguimmo una prova, a cena: un gruppo di piemontesi con due amici napoletani in un ristorante a Napoli.

I napoletani zitti, mentre noi discorrevamo in piemontese “stretto”, ma certamente più “largo” di quello post-unitario. Alla fine, i due amici napoletani chiesero così, in giro, a qualcuno chi ritenevano che fossimo: le risposte furono equamente suddivise fra francesi e tedeschi. Nessuno pensò nemmeno per un istante che fossimo italiani: saranno turisti…eppure era la Napoli della fine del Novecento, che aveva già vissuto l’emigrazione…niente: stranieri.

Oh certo, la “lingua di Dante” già esisteva…Manzoni aveva già sciacquato i suoi panni in Arno…ma questa era soltanto roba, nell’Ottocento, per gli ufficiali piemontesi ed i baroni meridionali che facevano parte – guarda a caso – della medesima alleanza.

Tuttora, non riesco a comprendere i pescatori pugliesi se parlano nel loro dialetto: eppure, in mare dovrebbe essere più facile…no, non è così: le connessioni linguistiche storiche, soprattutto fra italiani, spagnoli e portoghesi hanno un’altra radice: il Latino.

Quindi, la nostra “Unificazione” che doveva condurre ad una “Patria”, fu condotta da eserciti che parlavano lingue diverse – dove solo gli ufficiali potevano capirsi (a volte, a fatica) – mentre per la truppa c’era soltanto la legge del piombo e della sciabola.

Giunse, però, il gran momento: durante la Prima Guerra Mondiale – che i cantori del regime salutarono come “la grande offerta alla Patria in armi” – e, finalmente, i sarti napoletani ed i villici siciliani, calabresi, ecc ebbero il grande onore di crepare, con la bocca piena di fango, su terre che non sapevano manco riconoscere su una carta geografica. In mezzo a popolazioni che non capivano, vessati da ufficiali che non comprendevano se non per i comandi essenziali: fuoco! all’assalto! Savoia! E vi meravigliate se esiste una “questione meridionale”?

E venne il Fascismo. I fascisti erano tutt’altro che stupidi e compresero che per ottenere una “Patria” bisognava affidarsi ad un universale comune, ma anche loro poterono farci ben poco, perché l’unico “universale comune” che riuscirono a scovare fu l’Impero Romano.

Sempre per usi propagandisti, ossia per creare quella liaison fra i lontani Latini ed il Novecento, crearono una nuova architettura, che ha avuto il suo fulcro nella creazione dell’EUR, a Roma. Come tutte le scelte in capo architettonico, a qualcuno piacque, ad altri no, ma non per fedeltà/infedeltà verso il regime: quello che si può senz’altro affermare è che pochi compresero quel tentativo di celebrare gli antichi fasti dell’impero romano. Guardavano col naso all’insù le geometriche architetture…qualcuno diceva “Bello…” altri “Bah…”

Quel poco di Patria raffazzonata, molto esaltata sì, ma senza reali e solide radici per giungere ad essere interiorizzata, però, si squagliò al sole dopo due anni di occupazione straniera, tedesca ed anglo-americana. Gli italiani urlarono “basta!”, c’avete fregati un’altra volta, torniamo al nostro paese (il nostro piccolo Heimat? Vedremo in seguito) e non rompeteci più con fandonie del genere.

L’inno italiano non si può dire che, musicalmente, sia un gran che: una marcetta, più noiosa della Marsigliese, che non raggiunge mai i toni aulici dell’inno tedesco od inglese.

Il nuovo regno d’Italia impose subito la Marcia Reale come inno ufficiale, ed il Fascismo s’accontentò di canzonette come Giovinezza per render gai gli animi, anche quando c’era poco da stare allegri. Mussolini, nella Repubblica Sociale finì per tollerare l’antico inno di Mameli, ma non lo appoggiò mai.

Così, finita la guerra, tutti s’affidarono “all’elmo di Scipio”: vorrei sapere quanti conoscevano o si riconobbero in un fumoso console latino di duemila anni prima, che era andato a soggiogare una lontana provincia d’origine fenicia, tale Cartagine. Difatti, diciamolo a chiare lettere: possiamo anche tollerare quell’inno perché non abbiamo alternative, però che piaccia e – soprattutto – che racconti qualcosa, non venite a raccontarcelo.

Alla Lega è piaciuto di più il coro del Nabucco – che per versi e musica non ho difficoltà ad avvertirlo come più gradevole – ma è una storia d’antichi esuli ebrei nella terra di Babilonia!

Come hanno affrontato la loro quasi contemporanea unificazione i tedeschi?

Non ci fu nessuna guerra, bensì un processo definito Zollverein, ossia “unificazione doganale”, facilitato dalle precedenti invasioni napoleoniche, che avevano fatto “saltare” molti confini fra piccoli ducati o contee ecclesiastiche. La Prussia era la più forte militarmente: difatti, subito dopo l’unificazione rese il favore fatto da Napoleone (qui, è interessante il carteggio ed il rapporto con Goethe!) sconfiggendola brutalmente nella guerra del 1870.

E sotto l’aspetto linguistico?

La Germania ha anch’essa dei dialetti (non così diversi come quelli italiani), ma fu molto facilitata dalla diffusione dei testi luterani – che furono anche un fattore linguistico unificante – poi da una serie di riforme sui codici e sul lessico (caratteri gotici, ecc), per giungere a Giuseppe II d’Austria, che “accomunò” le due lingue (austriaco e tedesco), infine da altri regnanti germanici che seguirono i medesimi impulsi. E i concetti di riferimento?

La “Patrie”, in Germania, sono due: il Vaterland la “terra dei padri” (e qui non ci sono problemi a capirlo) e l’Heimat, termine che non ha traduzione in italiano e nelle principali lingue europee. Significa pressappoco il luogo dell’anima, il mio “posto”…insomma, qualcosa che coniuga la “Patria personale” con quella grande, comune a tutti. E l’inno?

Il noto Deutschland über alles, nella sua traduzione, si presta ad una mistificazione: quel “über alles” può essere tradotto in vari modi, ossia molto frettolosamente in “sopra tutti” oppure, semanticamente corretto, in “sopra ogni cosa” o “prima di tutto”. Ed è così che l’intese chi lo scrisse all’inizio dell’800, che poi lo accoppiò con la musica di Haydn. Un inno molto pacifico, dove si esaltano i valori nazionali…donne tedesche, vino tedesco…nessun impeto guerresco, perché c’era da unificare, non da guerreggiare.

Come si può notare, si trattò di due percorsi analoghi, vissuti nel medesimo periodo storico, con due potenze regionali a guidarlo – Prussia e Piemonte – ma realizzate in modo completamente diverso: mentre in Germania ci fu molta attenzione sul versante linguistico ed anche sulla questione dei termini – l’uso dei due sostantivi, Vaterland ed Heimat, sostanzialmente, acquietò possibili incomprensioni e “fughe” mirco-nazionaliste – e nemmeno il regime nazista si sognò di toccare l’inno tedesco.

I nazisti diffusero molti inni  “accessori” come quelli militareschi ed usarono il famoso Horst-Wessel-Lied, l’inno dei lavoratori tedeschi (nazisti), che dopo la 2GM fu proibito in tutta la Germania, con ben due appositi articoli del codice penale. E, soprattutto, fatto rigidamente rispettare.

In Italia, invece, incomprensioni linguistiche, conquista militare, comportamento coloniale, uso di un inno sconclusionato e guerresco ed ampie repressioni successive finirono per proporre una forma di Patria grifagna, infida e nemica, che continua ad essere percepita, oggi, come inquisitrice, ingiustamente impositrice di gabelle, dilapidatrice di patrimoni pubblici ed incapace di portare all’Italia ciò che gli italiani hanno sempre desiderato: un posto da cittadini, con diritti e doveri uguali per tutti.

Qui termina il gran sogno di Filippo Rossi: se fossimo a scuola potrebbe meritare anche un buon voto, perché sviluppa con buona lena molti aspetti delle vicende della Destra italiana, partendo però da un presupposto errato: qualsiasi Destra che si rispetti – dai conservatori inglesi ai cattolici spagnoli – presuppone l’esistenza di una entità superiore ai singoli individui, e che sia percepita come tale! Quando non c’è, tutto crolla.

E torniamo al nostro Hercule Savinien (!) Cyrano de Bergerac, che in una nuova epoca intrisa di dubbi sul futuro delle Nazioni e sui loro destini – politici, economici, ambientali, ecc…come lo fu, in qualche modo, il tempestoso Seicento che doveva prender coscienza del “allargamento” del mondo abitualmente conosciuto da millenni – s’arrocca in una versione del tradizionale mondo “cortese” che la memoria ante-Americhe ancora gli rammenta. Ma lo declina da uomo del Seicento: un mondo tempestoso, corrugato da nuovi filosofi, sbalorditivi concetti, proto-ideologie…e viene considerato il primo precursore della letteratura fantascientifica.

Qui è la sintesi, o il parallelo, con la situazione della Destra italiana: Giorgia Meloni – oggi “sovranista” – non sa, o non ricorda, o fa finta di non ricordare quanto il partito che frequentò – Alleanza Nazionale – era proiettato in Europa, fidente e gagliardo, senza nessun dubbio su moneta comune e quant’altro, fino ad essere inclusa nel raggruppamento parlamentare “Alleanza per l’Europa delle Nazioni” che era, evidentemente, una tagliola in embrione, perché non puoi mantenere diviso (delle “Nazioni”) ciò che vuoi unire (l’Unione Europea).

Silvio Berlusconi, con la famosa “discesa in campo”, cercò prosaicamente – da buon imprenditore qual è – d’accaparrarsi quella “fetta di mercato” che la DC aveva lasciata libera e senza più referenti. Un cattolico conservatore, in sintesi, senza troppi orpelli. E che differenza c’è fra un cattolico italiano ed uno tedesco?

Per Umberto Bossi, invece, il sentiero era contiguo ma molto differente: non aderiva ad un concetto di “Patria” italiana, perché il suo obiettivo era un’Europa “delle Regioni”, qualcosa che gli consentisse di far convivere il Diavolo con l’Acqua Santa, ossia il suo Lombardo-Veneto indipendente purché “sistemato” in una personale visione europea.

Oggi, è molto difficile comprendere il nuovo lessico leghista: relegato in un angolo il “Grande Nord”, l’Italia intera deve diventare “Nord” per difendersi dal “Sud” del mondo? E i voti che deve prendere dai piccoli imprenditori padani? Mah…

Come si può notare, gli assiomi di base della Destra italiana sono fortemente divergenti: “Patrie” (europee) per il segmento Fini-Meloni, unione dei cattolici europei (DC-CDU, ecc) per Berlusconi, un pot-pourri di regioni affastellate per Bossi. Poi, c’è sempre il “non so” di Salvini: domanda non pervenuta.

Qualcuno si chiederà perché la Sinistra, in questa narrazione, sia totalmente assente: per due motivi.

1) Tradizionalmente, il concetto di Patria è sempre stato associato alle formazioni politiche conservatrici, che ne hanno fatto il loro stendardo storico;

2) La Sinistra italiana, per sua genesi, fu sempre attratta/associata all’internazionalismo cosmopolita – due figure: Mazzini e Garibaldi – poi la lunga avventura degli internazionalismi socialisti/comunisti del Novecento, culminati, poi, con la piena adesione (come avvenne per la maggior parte della Destra) all’Unione Europea.

Ciò che distingue le due ideologie è che, mentre per le Destre la Patria è un concetto primario ed incomprimibile né “traslabile” in altre fumose concezioni (si noti la vicenda catalana), per la Sinistra è un concetto accessorio, non presente nel suo DNA costituente.

Ma i voti, i consensi, si prendono con concetti forti, che raggiungono gli animi e li scuotono, li seducono, fanno sentire gli elettori “partecipativi” ai processi in corso: era nato un nuovo partito, il M5S, che proponeva un concetto semplice da ricordare e da interiorizzare. L’onestà assoluta di chi è chiamato al governo della cosa pubblica, come avviene quasi dappertutto in Europa, dove il minimo scandalo conduce alla porta. Come reagire?

Per chiedere consensi o anche sacrifici, o cambiamenti sostanziali, bisogna trovare un altro concetto “forte” da contrapporre alla “onestà”: già, come fare? La Patria non funziona, o molto poco: due guerre mondiali l’hanno “consumata” parecchio, decenni di malgoverno l’hanno trasformata in un campo di battaglia a colpi di tangenti.

Ecco, allora, che si trova un escamotage, molto avvincente ma pericoloso: difendere la piccola Patria personale – potremmo scambiarla con l’Heimat tedesco, ma il nostro Vaterland è corroso e deriso – non importa, si va avanti a forza di tweet e di Facebook, fidando sull’ignoranza collettiva della Storia. E sottovalutando molti rischi sul fronte sociale.

Si giunge ad affermare che i tortellini col pollo al posto del maiale sono un insulto alla cultura culinaria nazionale: vade retro, Satana! Mia madre, ferrarese “doc”, li faceva col ripieno di cappone: a me non piacevano, ma il resto della famiglia s’abbuffava.

I crocifissi, nelle scuole, vennero re-introdotti poco prima del 1990, giacché prima – per un anelito di laicità della scuola negli anni ‘70 – erano spariti: me n’accorsi perché vidi un bidello, col martello in mano, risistemarli dietro la cattedra. Nessuno s’era accorto della loro sparizione, e nessuno s’accorse della loro ricomparsa.

Poi si devono armare tutti, contro il nemico incombente: all’armi! all’armi! Cosa non vera – provate ad andare in armeria e vedrete cosa vi daranno, ossia niente o troppo, esattamente come prima – però il messaggio che passa è che “potremo armarci” e difenderci dall’invasione della nostra Patria (che come universale presente nella vita comune non esiste più da tempo). E chi ci minaccia?

Gli immigrati, i negher, i musulmani, che stuprano le nostre donne e diffondono le droghe per i nostri giovani: se leggete anche solo un po’ la cronaca, vedrete che sì s’ammazza, ma soprattutto all’interno delle famiglie italiane, che il controllo delle droghe è sempre nelle mani dei cartelli italiani, che oggi sono insediati a Medellin per la coca ed in Albania per l’hascisc. Più un po’ di robaccia chimica che viene d’oltralpe o da chissà dove: non certo dall’Africa.

Ma il concetto è passato, e gli spin-doctor hanno saputo addobbarlo bene: il problema, oggi, è farlo durare, perché un Governo c’è, governa – come può, come sa fare, non è il Pico della Mirandola dei governi, ma nemmeno con i bilanci alla Paolo Cirino Pomicino! – e si deve programmare una lunga traversata nel deserto, fino all’Oasi del 2022, quando ci si fermerà, si apriranno i bloc notes, e ci si conterà di nuovo.

E tornerà la sempre difficile riesumazione di una Patria che non esiste, che non è mai esistita, per giudicare e scegliere fra questo o quello. Con l’Europa? Senza l’Europa? E chi lo sa!

Prendetela come meglio gradite, ma non ditemi che le cose non stanno proprio così: è un problema serio, che spesso non riusciamo a percepire.

Buona patria (o pappa, zuppa, sbobba…) a tutti.

 

Carlo Bertani 

Fonte: http://carlobertani.blogspot.com

Link: http://carlobertani.blogspot.com/2019/10/filippo-rossi-de-bergerac.html

22/10/2019

 

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