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La Redazione

 

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Facezie dalla città profonda

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A cura di Davide
Il 3 Aprile 2017
102 Views
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DI ALCESTE
pauperclass.myblog.it

La mattina ci si sveglia, sempre più estenuati e senza scopo. Si dà un’occhiata di fuori, ci si rallegra se, tra la caligine urbana, possiamo intravedere un sole malato, pallidissimo. Dopo le consuete abluzioni, il rito del caffè: non vi è più un giornale davanti alla tazzina, bensì un Ipad azzurrino: si apre qualche sito controinformativo, con scarsa voglia a dir la verità, e lo si compulsa come la casalinga di Voghera o la manager in carriera fanno con l’oroscopo.
L’oroscopo favorevole, lo sanno tutti i giornalai, predispone al buonumore (e all’acquisto di altra carta); la notizia controinformativa che stuzzica le nostre velleità da rivoluzionari in poltrona stimola likes, commenti e flames. Gli altri oroscopi, quelli che predicono sventura o non sono in linea con i fucili a schioppo digitali, li si sommerge di contumelie (di solito si accusa l’autore di alcolismo o di indulgere nell’uso di droghe o di somma ignoranza su alcuni concetti che il commentatore, invece, padroneggia come un domatore di leoni avendo conseguito, vent’anni prima, una laurea specialistica proprio in quella materia lì).
I gestori dei siti di controinformazione dovrebbero allinearsi alla tendenza dei giornali femminili e far sì che ogni notizia lisci il pelo al controinformato. Zerohedge come Branko. In tal modo ognuno potrebbe così alzarsi dal tavolo del caffè mattutino convinto di aver vinto la guerra (o di essere sul punto di vincerla) contro il nemico giurato (le banche, i Rothschild, l’Euro). Tutto questo senza aver versato una sola goccia di sangue, e senza aver elargito nemmeno una botta sulla zucca a qualche cellerino. Un bel sollievo. Ci pensate?

A parecchi sembra di star vincendo la guerra. A me (che sono ignorante) sembra che si stia perdendo alla grande. La guerra dall’alto contro il basso prosegue imperterrita e senza prigionieri. Le truppe d’élite possiedono molti generali e, qualche volta, essi litigano fra loro, riposizionando uomini, contingenti e mire.
Tali brevi sommovimenti vengono interpretati da coloro che stanno in basso come “vittorie”.

L’altro giorno, nel mio quartiere, c’è stata una manifestazione anti-Euro. Organizzata da gruppuscoli autodefinitisi “di destra” o “identitari”. Li si riconosceva subito, da lontano, a causa degli stendardi e dei labari in mostra: neri e bianchi definitivi, con scritte rosso sangue.
Tolti i presunti organizzatori, il codazzo dei dimostranti si riduceva, forse, a dieci unità.
Quasi tutti erano giovani, come si può essere giovane oggi: attorno ai quaranta.
Non conoscevo nessuno.
Dall’altra parte della piazza, intravidi, però, un volto familiare della zona. Un ex missino. Un po’ imbolsito dagli anni, in disparte, scettico. Trent’anni fa ci si guardava in cagnesco, come due animali divisi da numerosi gradi di separazione antropologica. Poi la disfatta ideologica del 1989 ha eliminato di colpo ogni possibilità di rancore. Dopo quella data fatidica ognuno è rimasto abbarbicato (un poco) all’universo politico della propria adolescenza, più per un movimento riflesso che per convinzione estrema. Si poteva liquidare il passato, così, dopo una decisione a tavolino? No. Cancellare il passato equivale a cancellare gli uomini: solo un pazzo o un ignavo si ridurrebbe a questo. Eppure la maggioranza questo scelse. E così entrambi ci rassegnammo, negli anni. L’uno lo specchio dell’altro, su fronti opposti, come Eteocle e Polinice ne I sette a Tebe. Mi accosto, senza salutare, perché i nostri dialoghi, ormai, sono rarefatti sino all’astrattismo; gli dico: “Non vai?“. Alza le spalle, con una smorfia della bocca. “Ma chi sono?“, incalzo. “Folclore“, fa lui, e se ne va verso il bar più vicino. Io lo seguo. Stavolta tocca a me offrire.

Debbo odiare gli islamici? Non ci riesco. È la mia debolezza, che mi divide da altre anime affini. Credo fermamente alla dissoluzione demografica e culturale ch’essi apporteranno, sia chiaro. Ma non riesco a percepire come nemico la carne da cannone. Lo ripeto, è una mia debolezza. Odio i generali, ma i fanti buttati allo sbaraglio no. Posso sparargli per difendermi: l’odio, però, è un sentimento troppo nobile per sprecarlo qui. D’altra parte si guardi  come si è originato questo contrasto Islam-Europa: l’11 settembre. E chi ha voluto quella farsa? L’Islam, l’Europa? Chi vuole l’invasione demografica? L’Islam, i popoli europei? Nessuno dei due.
E poi ci sono altri motivi alla base di tale mia cedevolezza: uno antropologico, l’altro sentimentale. Il primo: invidio il loro residuo senso della famiglia, del sangue, del clan. Persino il fanatismo. Perché, in fondo, sono emozioni, convinzioni forti, azione. La poltiglia PolCor, una soluzione melmosa a mezzo fra la bontà indotta e il pensiero debole, invece, mi disgusta profondamente. Siamo invasi e non opponiamo nulla all’invasione perché siamo vuoti, uomini disseccati, omuncoli di paglia.
Il secondo è di ordine letterario: come amante del Medioevo sono sempre rimasto affascinato dalle novelle duecentesche: Federico II, il normanno fondatore della letteratura italiana, e il Saladino, Yssuf ibn Ayyub: “El Saladino fo sì valoroso, largo e cortese signore e d’anemo gentile [tanto che] era onne bontà in lui compiutamente“. Saladino, il “secondo Federico”, Enrico il Giovane o il trovatore Bertrand de Born sono figure miticamente stilizzate di una koinè europea irripetibile, maestosa, sublime. Dante le venerava, come venerava Averroè, Avicenna o il pederasta Brunetto Latini, suo maestro: una venerazione che non gl’impedì di scaraventare tutti all’Inferno (o nelle vicinanze), incluso Maometto.
I nemici dicono molto di noi stessi. I nemici insegnano. Questi pensieri, alogici, formano il breve recinto della mia tolleranza.

Mi danno fastidio, invece, gli africani. Non sopporto il menefreghismo, la mancanza d’ordine, l’arroganza nel reclamare diritti, l’indolenza mai punita. Che “el negher” sia il beniamino dei centri sociali e dell’immaginario snob del PD non stupisce.

Nel mio condominio si fa la Storia. Il pensionato al piano terra, abbandonato da figli, nuore e nipoti, ha mandato al diavolo tutti e si è fatto la badante. Indiana. I risparmi di una vita e i novecento euri al mese li ha investiti in una ragazza delicata, sorridente e bendisposta. “Se quando crepo avanzerà qualcosa se la prenderanno“, ammonisce risoluto, alludendo al parentame ingrato. E così ecco una bella coppia di fatto. Li intravedo, di solito, quando torno dal lavoro, lui diritto e canuto, col suo bastone di bambù, lei obbediente e umile, la schiena esornata da una splendida cascata di capelli corvini: si fanno lunghissime passeggiate, pian piano, a braccetto. Non parlano. Lei fa tutto: spesa, pranzo, cena, pulizia della casa. Una consonanza felice.
Al primo piano, invece, si è consumato il dramma. Un ragazzo, che conosco dalla nascita, ha rischiato di morire. Due volte. In ospedale. Prima un pneumotorace mal fatto; poi, sulla via della guarigione, dopo infiniti tormenti, l’epatite C, contratta sempre all’interno dell’ospedale. Incontro il padre, gli accenno d’eventuali risarcimenti. Sembra scettico: “Bisognerebbe dimostrare che …“, e la voce si spegne. Già, bisogna dimostrare che. E come fai, in Italia, a dimostrare che un ospedale pubblico ha messo a repentaglio due volte la tua vita? Arrecando una menomazione permanente? La rassegnazione è ormai parte della fibra italiana. Non vale più la massima: l’ingiustizia genera odio. La burocrazia parassitaria, d’altronde, serve anche a questo: a scoraggiare. Il muro di indifferenza, neghittosità, sciatteria che ci si trova di fronte pare invalicabile. La connivenza della magistratura, poi, il patriziato più opportunista e sfuggente, lo ha cementato sino all’inespugnabilità. Il padre mi accenna alle cure per l’epatite C, che è una brutta bestia. “Il ciclo completo costa 70.000 euro“. Settantamila. “Però c’è la possibilità di farle all’estero. Compreso il viaggio, tutto incluso, siamo sui cinquemila“. “E dove?“, chiedo. “In India. I dottori dicono di aspettare un altro poco, forse liberalizzano, ma noi abbiamo fretta. Ci stiamo pensando“.

India, Croazia, Bulgaria: i viaggi della speranza.

L’Homo domesticus, il cretino del futuro, è fra noi, e parla nordico. Tutto avrei immaginato nella vita, ma l’umiliazione ideologica dell’Italia a fronte di burocrati finlandesi e svedesi che ci insegnano le buone maniere no. Persino la coltivazione dell’olivo, questo cespuglio così diffuso a quelle latitudini, soggiace ai loro ghiribizzi PolCor. Siamo razzisti, sporchi, cattivi, spreconi, puttanieri, inquinatori, femminicidi, omofobi: tutto certificato, nero su bianco, da questi bambolotti asessuati. Gl’infami al governo della nazione ingoiano tutto: subito, o dopo una ridicola manfrina. Il che li distingue, nella mia scorretta tipizzazione, in puttane di professione o in finte santarelline.

Spio la pagina facebook di un’amica. Il post di un tale allude alla manifestazione di cui sopra. Titolo: “I fascisti sono tornati“. “Che ne dici?” mi fa lei. “Magari“.

L’odio dei nordici per i paesi con una storia alle spalle. Il nordico, oppure il WASP americano, ma anche il crucco, in fondo, la cui storia letteraria comincia nel Quattrocento. Siria, Cina, Egitto, Iraq, Yemen, Libia, Grecia, Italia. Persino la Corea. L’odio di questo homines novi, senza passato, glabri, psicopatici, monodimensionali, privi di sentimenti se non quelli indotti dalla nuova religione PolCor.
Si capisce, infine, questa ansia di distruzione?
Si comprende, nella sua essenza profonda, una volta per tutte, che i vizî, l’irruenza, i difetti di un popolo sono quel popolo stesso? La persistenza d’esso nei millenni? Quanti secoli ci sono voluti per modellare ciò che queste Barbie ci rinfacciano? I sotterfugi, il patriarcato, i dialetti, il campanilismo, persino alcune negligenze, sono ricchezze che emergono dai recessi delle nostre budella, stalattiti delicate ed iridescenti. Lo stellone italiano, sempre evocato, cosa sarà mai? Le nostre squadre di calcio, rissose e raccogliticce, che, alla fine, a forza di testardaggine, malizie e trucchi, lasciano in mutande il crucco cosa sono se non distillati d’una tradizione a cui non possiamo rinunciare se vogliamo sopravvivere?
Ma il nordico non è d’accordo, il crucco tuona, bisogna uniformare, piallare, distorcere sino alla pappa omogenea: tanto buona, buona per tutti.
L’Italia, priva dei vizî, che sono virtù e cultura, deperisce lentamente. Roma, che ha decine di livelli archeologici, vale Helsinki, tanto graziosa, con le casette ecologiche e le renne infiocchettate.

I comunisti sono voltagabbana: dal pugno chiuso alla militanza eurista. E va bene, l’ho ripetuto mille volte. Ma la destra? Dove diavolo si è cacciata? Tutti morti i Caradonna?

A Roma, settore Casalotti, si muovono ruspe, gru e picconi. Si è spianato qualche ettaro. Destinazione: palazzine e ipermercato. In un settore congestionato dal traffico è un toccasana, evidentemente. L’attuale via di Boccea, su cui insiste l’ignominia, è l’antica consolare romana Cornelia, che collegava il Colle Vaticano con Caere e, forse, Tarquinia. Una via fondamentale, probabilmente etrusca, che i Romani riadattarono alle proprie esigenze, una volta liberatisi dell’ingombrante vicino.
È inevitabile che la zona sia ricca di ritrovamenti: ville rustiche, necropoli, sepolture protocristiane, insediamenti altomedioevali. Inevitabile che, pur in questo caso, sia saltato fuori qualcosa. La Soprintendenza ha, perciò, bloccato i lavori. Analisi, fotografie, scavi d’assaggio, mappature: e ricopertura finale. Il proprietario dell’area non l’ha presa bene. Quei divieti rallentano i lavori. Il Nostro non difetta, tuttavia, d’un grossolano umorismo macabro; ha ordinato, quindi, l’erezione di un palchetto dove tutti gli abitanti possono ammirare quei resti. Nei pressi ha fatto apporre due cartelloni, enormi e rutilanti. Il primo: “ZONA VISITATORI. PER AMMIRARE IL SITO ARCHEOLOGICO. AREA FOTO. ACCESSO LIBERO “; il secondo: “QUI SI PUÒ AMMIRARE LA PIÙ GRANDE SCOPERTA ARCHEOLOGICA DOPO LA TOMBA DI TUTANKHAMON IN EGITTO. PER INFORMAZIONI RIVOLGERSI AL FUNZIONARIO ARCHEOLOGICO. OVVIAMENTE LA SCOPERTA IMPEDISCE LA REALIZZAZIONE DEI PARCHEGGI PUBBLICI CHE NON SONO COSÌ IMPORTANTI “.
Come a dire: “Stiamo ancora dietro a questi quattro sassi“. I visitatori approvano. I più ridanciani mimano un calcio alla struttura. Un operaio romeno, che parla italiano meglio dei buzzurri italiani, si sganascia addirittura. Poi mi racconta che anche dalle loro parti hanno qualche sasso. Un ponte romano al confine con la Serbia. “Per fortuna è mezzo crollato … ah ah … rimangono le colonne … oh oh oh … ma che ci fai con questo … non è che hai scoperto il Colosseo e fai pagare il biglietto … ah ah ah … bastavano due picconate di nascosto ah ah ah …“. La gente sulla pedana arriva incuriosita, e poi, a leggere il cartello, si mette a ridere: anziani, di mezza età, maschi, femmine. I ragazzini ridono pure loro non capendo quello che succede. I più giovani non ridono. Passano. Distratti, con volti sfuggenti e menefreghisti. Si ferma una ragazza che studia storia, una bassetta sui vent’anni. “M’interessa“, dice “perché studio storia antica“. E osserva, fissamente, con occhietti che sembrano senza palpebre. Immobile. Venti, trenta secondi. Poi, come fosse mossa da un congegno interno, fa un dietrofront inopinato di 180 gradi e scatta verso altre mete. Colto alla sprovvista, cerco di trattenerla, le sbraito dietro: “Che ne pensi?“. E lei: “No, è che m’interessa. M’interessa perché studio storia antica“. “Capisco“, faccio io. Ma lei ha già voltato le spalle.

C’è una sola cosa che mi atterrisce nella società d’oggi. La perfetta, compiuta,  indifferenza di coloro che sono nati sotto il nuovo ordine. Gestiscono con scioltezza lauree e dottorati, bibliografie e piani di lavoro. Educati, mai fuori posto. Più belli di noi, più atletici, più svegli. L’impressione che rendono è, tuttavia, di professionale freddezza e informatissima superficialità; l’oggetto dei propri studi è funzionale sino alla psicopatia. Curiosità e passione, generosità e vivezza sembrano siano state asportate chirurgicamente. “M’interessa. Studio storia antica“. Tradotto: “M’interessa solo perché studio storia antica. Se non la studiassi non potrebbe fregarmene di meno. E comunque m’interessa solo perché, in tal momento, studio tale specifica materia: esaurito lo studio esaurito l’interesse. Dopo la tesi specialistica “Le vie consolari dell’Agro romano”, debitamente premiata con il pezzo di carta che mi aprirà le porte burocratiche di un lavoricchio insulso, questi antichi reperti potranno anche sprofondare nel nulla. Ho altro da fare nel tempo libero“.

La verità vi farà liberi” è una mezza verità. Per rendersi liberi occorre l’azione e quella si consegue attraverso mirabili falsificazioni. Cos’è un ideale se non il volto nascosto di quella locuzione: una semplificazione, o una bella menzogna, o una mezza falsità? Cosa spingeva la gente a farsi sbranare nelle pubbliche piazze? Il bisogno? No, si può morire nel bisogno. Quanti popoli si sono spenti nella miseria? Occorre un valore indiscutibile, a cui credere senza infingimenti, un ideale a cui sacrificare parte della verità e tutto il nostro spregevole cinismo. Il cinismo e il disprezzo sono buoni per la poltrona. O la tastiera.
La strategia è sempre quella: assecondare capziosamente il capriccio di una minoranza ed elevarlo a diritto. Un diritto civile, ovvio. Per chi è contrario scatta la riprovazione PolCor e la damnatio memoriae. Più è stupido, idiota, gratuito il capriccio e meglio è. La minoranza (più è minoranza meglio è) deve ergersi quale fonte di valori; i valori della maggioranza, infatti, non sono valori, bensì sopraffazioni. Se son valori tradizionali sconfinano nella criminalità. C’è sempre una gallina svedese o un Big Jim danese o un crucco gonfio d’alterigia a sovraintendere a tali operazioni. Perché loro sono progressisti. E noi no. Il sospetto che siano dei poveri coglioni non sfiora nessuno dei nostri succubi. E così chi ha inventato le Pandette deve sorbirsi, quotidianamente, le tirate libertarie di qualche gaglioffo alcolizzato.

Parola d’ordine del ribelle: il ribelle definisce, sempre e comunque, solidifica, individua; ogni atto e momento della propria vita lo fa ricadere entro gli assi cartesiani di spazio e passato. Egli sa indefettibilmente il posto che compete a ogni cosa. Perché egli non è stato il primo, e non ha l’arroganza di ritenersi ultimo. Si considera un tramite, il testimone di ciò che è stato. Se trasgredisce lo fa con mille cautele; se allenta la tensione dell’individuazione lo fa per trarre piacere dal temporaneo contrasto.

Parola d’ordine del PolCor: il PolCor nasce dal nulla e termina in sé stesso. Non sa mai dove si trova perché ogni luogo gli va bene. Si ritiene cittadino del mondo, ma non ha la minima idea di cosa ciò significhi. Per lui alto e basso, bello e brutto, buono e cattivo sono eguali, se non invertiti. Egli dissolve continuamente. Più dissolve più è disorientato, eppure quella pappa in cui ha centrifugato ogni valore esercita su di lui la forza maligna di una droga. Dissoluto e dissolutore, il suo elemento è l’indefinita broda tiepida di una amoralità fanatica.

Come opera il PolCor su vasta scala? Perché si ritiene nel giusto? Cos’ha nel mirino? Quale lo straordinario risultato del suo folle dispiegamento?
Leggiamo un raccontino di Stephen King, La fine del gran casino (The end of the whole mess), dalla raccolta Incubi e deliri (Nightmares & dreamscapes, 1993).
Riassumo la trama, a memoria.
Un genio, Robert Fornoy, scopre un composto chimico che riduce, sin quasi all’annullamento, l’aggressività. Il composto abbonda in una cittadina del Texas, La Plata, sciolto nella sua riserva idrica. Non a caso gli abitanti della cittadina sono dei bonaccioni: pochissimi reati, nessuno stupro, nessun fatto di sangue. Lo sceriffo dorme sonni tranquilli.
Robert, con l’ausilio del fratello, immagazzina enormi quantità di tale acqua miracolosa e, temendo per le sorti del globo, alle soglie della terza guerra mondiale, la nebulizza sbattendola in un vulcano.
La nube di bontà avvolge il mondo.
L’effetto è grandioso. La violenza cala progressivamente in tutto il globo. L’Eden è alle porte. Finalmente, dopo millenni di speranze e proclami, l’utopia finale: il Paradiso in Terra.
Il rovescio della medaglia, tuttavia, non si fa attendere. Fornoy scopre, con orrore, che la placidità dei cittadini di La Plata è dovuta all’insorgere di ritardi mentali, Alzheimer e senilità precoce: tutti dovuti a quell’acqua benedetta. I fratelli Fornoy, insomma, non hanno recato la pace, ma solo l’idiozia di massa.
Il mondo si riduce in breve tempo a una ridda di coglioni sbavanti.
Basta sostituire “acqua” con “PolCor” ed “Europa” con “La Plata”? In parte. Anzitutto perché gli idioti de La Plata sono un incidente casuale. E poi perché nel racconto tutto il mondo diviene idiota; il PolCor, questo composto aberrante di altruismo e malafede, serve, invece, solo a idiotizzare l’Occidente. L’Occidente è il baluardo antropologico da abbattere. E chi ci guadagna? I nostri dominatori. E chi sono? Non l’Islam, né gli Indiani, né gli africani o i calmucchi o i cinesi. Americani? Russi? Finlandesi? Macché.

Adesso te la pigli pure cogli scandinavi? Ma che ti hanno fatto?” mi fa il Sellin Fuggiasco, un vecchio rottame della sinistra che ogni tanto interpello. Non li sopporto, i babbi natali PolCor, e gli spiego il perché. Lui razionalizza, al solito, e la butta sul welfare e sulla socialdemocrazia. Io lascio perdere. “Ma poi ti sei fissato con questo politicamente corretto. Ma dove vuoi tornare? Al Medioevo?“. Il “magari” si ferma in gola. “A una bella guerra, forse“. Riattacca.

Inutile spiegare la moneta, le trame della CIA, Kalergi, le rotte degli scafisti ONG, Rothschild Soros e compagnia danzante. La maggioranza non ti segue. Se i post di Orso e Blondet hanno mille, cinquemila o diecimila visualizzazioni, l’ultimo video di Miley Cyrus ne ha milioni. La gabbia è psicologica. La battaglia è sulla propaganda.
Occorrono non analisti, ma superbi mentitori: romanzieri, cineasti, giullari, pittori.
La “veritàààà” non buca il video.
Occorre mentire.
Persino un falso storico servirebbe alla bisogna. La donazione di Costantino, i protocolli di Sion. Oppure una bella guerra. Ma quella chi te la regala? Se ci sarà una guerra sarà per motivi sbagliati, contro avversari sbagliati e per un fine sbagliato.

La mia patria è dove sto bene“, diceva quel tale.
La patria, volenti o nolenti, è dove siete cominciati a esistere, rispondo. Ognuno è libero di andarsene, poi, dove meglio crede. Andarsene a Helsinki, beninteso, non imporre Helsinki a casa mia.

All’amica: “Al mio funerale (ci sarà presto) non mettete L’internazionale o robe del genere, per carità“, dico. Lei, presa a freddo, prima non realizza; poi mi liquida: “Ma chi ti ammazza? Chi? Tu sei matto, ormai, sei fuori di testa“. “Voglio mettere ordine nelle mie disposizioni finali. Seppellito, non cremato. Niente organi in donazione. In campagna, non a Roma. Nella bara le poesie di Cavalcanti. L’edizione la indicherò a breve. Mettete a ciclo continuo quella scena di Solaris … quella dove Kris e Hari volteggiano nella stazione orbitante … la musica è di Bach, se non sbaglio. Hai capito bene, citrulla?“. Lei annuisce e si lascia andare con un sospiro sul divano. E pure questa è fatta.

Alceste

Fonte: http://pauperclass.myblog.it

Link: http://pauperclass.myblog.it/2017/03/31/facezie-dalla-citta-profonda-alceste/

31.03.2017

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