Dalla recinzione delle terre alla recinzione della vita – 6a Parte

Scritti di donne su Natura, beni comuni, saperi femminili, cacce alle Streghe

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Donne e Natura sono accomunate dall’oppressione e dallo sfruttamento che le società patriarcali hanno esercitato ed esercitano tuttora su di esse.

D’altro canto osserviamo che molte popolazioni che hanno organizzato la propria esistenza nel rispetto dei cicli vitali della Terra, hanno dato origine a rapporti comunitari in cui veniva riconosciuto il ruolo delle donne nella elaborazione delle strategie di sopravvivenza e rispettato il loro sapere.

Molte studiose femministe, ciascuna nel proprio campo di competenza, hanno messo in luce questi aspetti e hanno proposto nuovi modelli di conoscenza che possono rappresentare delle alternative al pensiero unico del capitalismo globale.

Dalla recinzione delle terre alla recinzione della vita – 6a parte

A cura di Anna De Nardis, ComeDonChisciotte.org

In ricordo di Joyce Lussu, maestra e amica

Parola di letterata

L’attenzione che i critici hanno rivolto a Christa Wolf si è incentrata soprattutto sulla figura – considerata problematica e contraddittoria – di protagonista e testimone delle vicende politiche della Germania dell’Est, all’epoca della divisione del mondo in blocchi. Ma quando la scrittrice va a cercare, tra le pieghe del mito, l’origine dell’“essenza distruttiva” della civiltà occidentale, e, per esempio, afferma:

I motivi dei guerrieri achei che assediano Troia non mi parvero essere fondamentalmente diversi da quelli dei nostri adoratori di missili. (Wolf, 1997)

essa oltrepassa i limiti in cui è stata spesso relegata e ci offre intuizioni da ripensare, ancora oggi, in quanto abitanti di un mondo globalizzato. Così come è sempre attuale la riflessione critica sulla scienza moderna e sul pensiero greco da cui trae origine.

Il punto di partenza della sua ricerca è il legame della scienza e della tecnologia con la guerra, motivo che, nella seconda metà del secolo scorso, ha stimolato la formazione di un forte movimento antinucleare e ha prodotto importanti analisi sull’origine della scienza occidentale.

Di qui Christa Wolf indaga la violenza bellica in tutte le sue sfaccettature – per esempio come si rivolge contro le forme di sapere comunitarie – come è mostrato in Cassandra, e

va a cercare nel linguaggio scritto possibili radici di cancellazione e perciò di violenza sulla vita. (Campagnano, 1990)

La sua attenzione si rivolge alle radici più lontane, per interpretare la modernità:

La domanda che mi posi accostandomi alla figura di Cassandra – si era al principio degli anni Ottanta, su entrambi i versanti della frontiera intertedesca venivano installati missili a media gittata, una guerra atomica nell’Europa centrale rientrava nei calcoli strategici e in tutta serietà veniva concepita come possibile “soluzione” delle tensioni tra i due blocchi – quella domanda era: quando e per quale tramite questo tratto distruttivo è penetrato nel pensiero, nell’esperienza occidentale. (Wolf, 1997)

Uno dei “tramiti” è la modalità di conoscenza moderna, incentrata sul paradigma scientifico, che porta inscritta nel suo codice prima di tutto la violenza contro i corpi delle donne e verso la sfera emotiva in generale; è quanto viene esplorato nel racconto Autoesperimento (Wolf, 1986, pp. 131-segg.) e nel saggio Malattia e rifiuto d’amore (Wolf, 1990, pp. 171 – segg.).

E la Wolf lo fa, come osserva Elisabetta Donini citando Guasto, con

uno sguardo sul mondo intenzionalmente marcato dall’appartenenza al genere femminile,

tratto che, con la critica dell’aggressione tecnico-scientifica all’ambiente,

è essenziale alla riflessione su donne e modi di conoscenza. (Donini, 1990, p. 8)

In Cassandra e Premesse a Cassandra la scrittrice analizza l’intreccio culturale esistente tra il pensiero occidentale, la scienza moderna e la visione militarista del rapporto tra gli Stati. In queste due opere viene affrontato il problema della conoscenza profetica – inizialmente detenuta dalle donne – e di quelle arti magiche, patrimonio

delle più anziane della tribù, nelle società agricole arcaiche, poi per lungo tempo delle sacerdotesse, alle quali i primi sacerdoti riuscirono a sottrarre il rituale soltanto infilandosi a forza le magiche vesti femminili. (Wolf, 1984, IV lezione)

E si analizza il processo di marginalizzazione delle stesse, che va di pari passo con l’elaborazione di nuove forme di pensiero da parte di una minoranza di maschi aristocratici. Al centro di queste vi sono le categorie di pensiero dei Greci, fondate su un dualismo irriducibile.

Nel romanzo Cassandra (Wolf, 1984), Christa Wolf ricostruisce il personaggio della veggente, seguendo il corso della guerra decennale, e racconta come essa si allontana dal sentire e dall’agire della casa reale, sempre più vincolata alla logica delle armi, sempre più autoritaria, sempre più cieca. E il distacco avviene nella totalità della sua persona, nel corpo fisico, nella mente, nelle emozioni, mentre la sua capacità di “vedere” oltrepassa gli angusti orizzonti della “cittadella”.

D’altra parte, lo stare di Cassandra tra due modalità del conoscere, è già scritto nel suo destino, in quanto la tradizione mitologica ci parla di una eroina segnata due volte: della potenza ctonia che la tocca da bambina sotto le spoglie di un serpente e dal “nuovo arrivato” Apollo che vuole forzarla ai suoi desideri.

La veggente deve scegliere tra due vite: da una parte rivestire il ruolo di una sacerdotessa istruita da un uomo (Pantoo il greco), asservita sempre più alle ragioni della guerra, dall’altra seguire il percorso umano e religioso delle donne dello Scamandro, che vivono in comunità nelle grotte presso il fiume, praticano il culto di Cibele, sono capaci di cadere in estasi e vedere cose non visibili ad altri.

… questo mondo parallelo, anzi agli antipodi che, diversamente dal mondo di pietra del palazzo e della città, cresceva e lussureggiava al modo delle piante, rigoglioso, noncurante, come se non avesse bisogno del palazzo, come se vivesse volgendogli le spalle, quindi volgendole anche a me. (Wolf, 1984, p. 61)

Lì la giovane è toccata dalla saggezza di Arisbe, che “cura” la sua follia, quando è travolta dal suo stesso spirito profetico:

non è così che li punisci, questi. […] Riemergi, Cassandra, disse. Apri il tuo occhio interiore. Guardati. (Wolf, 1984, p. 77)

e dalla mitezza di Anchise, che scolpisce nel legno statuine di animali, che diventano messaggio della sua vicinanza quando Cassandra è tenuta prigioniera. L’anziana donna vorrebbe vedere ripristinati

i diritti della Dea dei serpenti quale custode del fuoco in ogni casa. (Wolf, 1984, p. 63)

Porre questa funzione sotto la tutela della dea autorigenerante vuol dire affidare il governo della casa a una sapienza femminile, consapevole della legge vitale della trasformazione e capace di unire (meglio: di non scindere) corporeità e spiritualità.

Il cammino di Cassandra verso la consapevolezza comporta sofferenza, disperazione, difficoltà a comprendere pienamente. In queste condizioni sperimenta una conoscenza che scaturisce dalle parti più profonde della sua persona

Ma “vidi”? Come accadde. Sentii. Sperimentai… (Wolf, 1984, p. 74)

e la porta ad affermare il primato del “vivere”, la “terza via” rispetto alla sorte dell’uccidere o del morire, ineluttabile per il potere patriarcale.

Tutto ciò che cercavo di comunicare di quell’esperienza era ed è perifrasi. Per la cosa che parlava dentro di me non abbiamo nomi. […] Che dicevo la “verità”; che non volevate ascoltarmi – questo lo ha divulgato il nemico. Non per malvagità, non sapevano fare meglio. Per i greci c’è solo verità o menzogna, giusto o sbagliato, vittoria o sconfitta, amico o nemico, vita o morte. Pensano in modo diverso. Quello che non è visibile, annusabile, udibile, tastabile1, non esiste. È l’altro che essi schiacciano tra le loro rigide distinzioni, il Terzo, che per loro è sempre escluso2, la materia vivente che sorride, che è in grado di riprodursi continuamente da se stessa, l’Indiviso, spirito nella vita, vita nello spirito. (Wolf, 1984, p. 132)

Christa Wolf trova in questa logica le basi del pensiero moderno, che indaga nei suoi vari aspetti, in altre opere.

Nel racconto Autoesperimento la scrittrice scardina il presupposto fondamentale della scienza occidentale: la necessità della separazione tra l’“oggetto” dell’esperimento e il soggetto che indaga, quale garanzia di “oggettività” e ripetibilità dell’esperimento stesso. La protagonista del racconto, una ricercatrice che intendeva dimostrare

quanto [valesse] come donna acconsentendo a diventare un uomo. (Wolf, 1986, p. 139),

studia se stessa dopo aver assunto il sesso maschile per mezzo di un farmaco inventato dal suo professore, dichiarando poi:

Io volevo scoprire il suo segreto. (Wolf, 1986, p. 136)

(di scienziato maschio).

Ma, nell’esplodere della contraddizione tra la personalità profonda della donna e i comportamenti imposti dal maschio che è diventata, crollano le certezze metodologiche che sottendono la ricerca, insieme con

il… culto superstizioso del risultato misurabile. (Wolf, 1986, p. 132)

Metodologia imposta, che comprime la realtà e ne esclude aspetti vitali:

Anni della mia vita mi è costato imparare a sottomettermi a quel pensiero le cui maggiori virtù sono la non-partecipazione e l’impassibilità. Oggi devo fare uno sforzo per trovare di nuovo l’accesso a tutte le regioni sepolte che si trovano dentro di me. (Wolf, 1986, p. 145)

E, mentre si fa più forte la sua consapevolezza di donna, si rende conto che la scienza (lo scienziato)

ha imprigionato [il mondo] nella sua rete di numeri, curve e calcoli […]. Come un peccatore colto in fallo, con il quale non bisogna più avere a che fare. E che perciò viene tenuto a distanza – nel modo più raffinato, mediante un’infinita enumerazione di fatti che spacciamo per resoconti scientifici. (Wolf, 1986, p. 145)

Infatti, nello scontro tra la sua adesione ambiziosa al credo della Scienza e la sua natura più profonda, non riesce a trovare, nelle schede predisposte per registrare gli effetti del farmaco, il modo per comunicare il senso della sua esperienza, perché la riduzione a oggetto di ciò che il ricercatore osserva, la semplificazione della realtà in categorie predeterminate, finiscono per occultare le trasformazioni compiute dal vivente, finiscono per cancellare la continua interazione tra materia, anima, spirito.

Alla scissione operata dal metodo scientifico, Christa Wolf dedica il saggio Malattia e rifiuto d’amore, in cui descrive, attraverso le storie di alcune donne, le conseguenze sulla loro vita della separazione che viene operata sulla totalità dell’essere. Per l’autrice

le scienze naturali, secondo cliché tuttora operanti, sono molto “maschili”. Vale a dire: indipendenti dal fattore di disturbo emozioni; basate sulla sperimentazione e sulla prova, possibilmente confermate da risultati numerici (statistica) e/o formule: possibilmente libere dalle impurità dei processi effettivamente accaduti e infinitamente proteiformi; che evitano quindi il caso; che tendono a escludere contraddizioni; separate dai valori che solitamente hanno validità nel mondo umano non scientifico. (Wolf, 1990, pp. 172-173)

E, per quanto riguarda specificamente la ginecologia,

mi sembra sia non solo uno specchio delle tendenze reificatrici e scientificiste all’interno della medicina: nella sua vicenda storica si rispecchia, inoltre, una lunga e profondamente radicata tradizione di disprezzo per le donne, d’inimicizia per loro, nell’ambito della storia dell’Occidente. (Wolf, 1990, p. 176)

L’autrice riprende alcune “teorie” elaborate nel XIX secolo, quando soltanto un sistema nervoso immaturo e non sviluppato come quello della donna è [giudicato] incline a reazioni isteriche, per commentare:

È stato questo il tempo in cui venne costruita la donna borghese debole, ignara, minorenne […]; in cui la medicina si evolvette a organo di controllo sociale sulle donne, in cui ebbero inizio severe prescrizioni sul decorso di malattie, sul giusto comportamento durante la gravidanza e il parto, sulla cura dei neonati; in cui la clinica nel suo modo di essere odierno aiutò la medicina specializzata e rivolta gli organi ad affermarsi […]. È anche il tempo in cui un ben determinato modo di pensare, detto “scientifico”, venne considerato come l’unico aderente alla realtà e in cui, come conseguenza inevitabile, il pensiero scientifico ed estetico hanno assunto ciascuno forme diverse, dando vita a due verità. (Wolf, 1990, pp. 179-180)

Tuttavia, come scrive su Premesse a Cassandra

L’estetica […] come la filosofia e la scienza, o per lo meno in ugual misura, risulta inventata all’apparenza con l’intenzione di avvicinarsi alla realtà, nei fatti per tener lontano la realtà del corpo, per proteggersi da essa. (Wolf, 1984, IV lezione)

Abbiamo costruito questo lavoro, annodando i vari fili che le autrici hanno offerto, intorno alla metafora della “recinzione”, che esprime sia una realtà storica, sia un paradigma scientifico. Raccontando la “storia” dell’assedio di Troia, la vicenda immaginaria dell’“autoesperimento”, le storie reali di alcune donne, Christa Wolf ha arricchito ulteriormente il punto di vista delle donne su questo concetto. Sono altresì significative le parole che la sua traduttrice e curatrice, Anita Raja, usa nella postfazione a Cassandra:

In una sorta di incalzante indagine dentro e fuori della città, si disegna la nuova società che si va affermando. Essa è caratterizzata dalla cecità indotta attraverso il recingere, il delimitare e il censurare. È la società dei padri, che contrappone baluardo a baluardo, argine a argine, muro a muro. Lo stesso sapere che essa va fondando si basa sull’esclusione di altre forme di conoscenza. (Wolf, 1984, p. 182)

Parole di saggiste

Ho iniziato a selezionare i testi fin qui presentati alcuni anni fa: i fatti che le autrici hanno sottolineato dimostrano quanto fosse pericolosa l’adozione, da parte del capitalismo, delle strategie patriarcali, e, già allora, suscitavano forti allarmi.3

Come delle Cassandre, quelle studiose ci parlano anche del nostro futuro.

Per questo motivo, non mi sembra fuori luogo, a conclusione di tutto il lavoro, citare le riflessioni che due donne, seguendo la pratica dei piccoli gruppi femministi, hanno scritto in occasione del primo “confino” imposto a seguito dello sviluppo della sindemia in Italia.

Esse danno un valore di attualità alle analisi, viste precedentemente, delle politiche attuate dal capitalismo fin dal suo nascere, e ne arricchiscono il senso.

Le due donne, che si definiscono femministe materialiste, presentano due sguardi differenti ma per nulla distanti.

La prima, Nicoletta Poidimani, osserva:

Secoli di sperimentazione sulla pelle delle bambine/adolescenti/donne hanno costituito un vero e proprio laboratorio delle forme di sfruttamento, controllo, repressione e reclusione tipiche della modernità capitalista – dalla schiavitù al colonialismo e alle prigioni, dai manicomi ai lager per immigrati. Dispositivi che hanno spianato la strada alla costruzione della paura e alle conseguenti politiche di confinamento coercitivo che hanno caratterizzato il grande esperimento sociale dissimulato sotto il nome di “emergenza covid”. […]

Il femminismo […] può fornire importanti suggestioni a partire dalla messa in discussione sia del dominio del “Soggetto” unico del pensiero e della scienza occidentali – che è maschio, bianco, di classe media, eterosessuale, abile, adulto, produttivo – sia del processo socioculturale e politico con cui questo “Soggetto”, definendosi per negazione, genera l’Altro da sé come abietto.

Il dominio di questo Soggetto unico, portatore di un pensiero violentemente riduzionista, ha prodotto, in nome del profitto, genocidi, discriminazioni e quel “malsviluppo” […] che ha caratterizzato il capitalismo dal suo sorgere. [Questo “sviluppo”] ha reso oggetto – o, meglio, feticcio – il mondo naturale riducendo le risorse naturali a valori di scambio. E, per fare ciò, come primo livello di violenza ha disconosciuto e denigrato i saperi locali e ancestrali. […]

Nella cultura “scientifica” da secoli dominante, […] non solo umano e naturale sono stati separati e posti in conflitto, ma addirittura la malattia stessa si è fatta “entità concettualmente distinta dal malato” e la relazione medico-paziente è diventata “luogo di espropriazione di soggettività, un non luogo dove si danno ruoli e funzioni, non soggetti e produzione di senso”.

Le strategie di dominio non restano però del tutto occultate:

I dannati della terra – che hanno vissuto l’esperienza del colonialismo, hanno resistito ai tentativi di genocidio etnico e culturale e quotidianamente combattono contro l’economia di dipendenza e lo sfruttamento – hanno immediatamente indicato nel capitalismo predatorio, con cui da secoli si scontrano, il principale responsabile della crisi sanitaria in atto.

In particolare, le comunità indigene e i movimenti latinoamericani sono dei fari nella miseria umana del presente. […]

Queste comunità, che erano già tali prima di questa “epidemia”, oggi la stanno autogestendo rafforzando i legami, affinando le pratiche solidali e di sostegno alimentare, attingendo a conoscenze e saperi ancestrali – quindi non egemonici – su alimentazione e medicina. (Kaveh, et al., 2020, pp. 94 – segg.)

Elisabetta Teghil, dal canto suo, analizza le specificità che assume il capitalismo nella fase storica che stiamo attraversando:

Un’arroganza senza confini, un dilagare da fiume in piena. Il neoliberismo […] è la strutturazione politica e la scelta economica della borghesia transnazionale che ha vinto la lotta all’interno della sua stessa classe asservendo le borghesie nazionali, espellendo e proletarizzando la piccola e media borghesia. […]

La distruzione dello stato sociale, lo smantellamento della sanità pubblica, del sistema pensionistico, la disoccupazione e la precarizzazione di massa e stabile, la riproposizione dei ruoli e delle gerarchie, l’annullamento delle economie marginali, la guerra ai poveri, il controllo sociale sono i tratti distintivi dell’ideologia neoliberista nel mondo occidentale.

Contemporaneamente, nei confronti dei paesi da predare, la stessa ideologia ha riaffermato il principio e la pratica della colonizzazione, il dominio imperiale del XIX secolo, accompagnata dalla distruzione delle economie di autosussistenza, della piccola proprietà contadina e caratterizzata dall’emigrazione interna verso le grandi città ed esterna verso i paesi occidentali. […]

Ed è così che lo svilupparsi di un virus, il covid-19, è diventato un’occasione quanto mai ghiotta per il capitale neoliberista per rompere quei pochi argini rimasti al dilagare della sua ristrutturazione sociale.

Poco importa se il covid-19 sia stata una produzione casuale o voluta, quanto sia grave e quanto enfatizzato, in ogni caso è il prodotto maturo di questa fase del capitale, della sua predazione, della sua economia, della sua sperimentazione tecnica e sociale, delle sue modalità di asservimento, della sua pratica di guerra in tutti i campi e gli ambiti, e permette al potere un’accelerazione fortissima nella definizione di un modello che stava costruendo da anni. […]

Il neoliberismo istituisce dei codici comportamentali attraverso il politicamente corretto che si traducono in colpevolizzazione, infantilizzazione, ricatto sociale e morale, delega, dipendenza e affidamento agli esperti e alle esperte, concepisce con scienza e tecnologia un vero e proprio patto di sangue. E questo sia sul fronte interno che su quello esterno con le guerre umanitarie […]

La società tutta è stata patriarcalizzata. […]

La retorica della salute e della difesa e della solidarietà collettiva converge con la lotta a qualsiasi possibile alterità al progetto neoliberista […]

viene convinta la popolazione tutta che l’affidamento a un potere saggio, onniveggente, che si preoccupa del bene comune è in effetti una libera scelta e le azioni e reazioni di polizia non appartengono a uno Stato autoritario bensì sono azioni necessarie per tutelare la cittadinanza tutta da quella parte scellerata e irresponsabile che non si rende conto di qual è il suo bene. L’obbedienza viene volutamente e strategicamente sovrapposta alla responsabilità. […]

È avvenuto il passaggio dalla repressione di singoli individui alla criminalizzazione dell’intero corpo sociale. Ora tutta la società “sana” è chiamata ad accusare la “comunità eversiva”, la serpe in seno. [Ci ricorda qualcosa?] Dal reato specifico al reato presunto [il patto col diavolo…], dal reato materiale al reato residuale ed esteso. […] Si è realizzato un clima di sospetto generalizzato, di guerra di tutti contro tutti che rappresenta la sublimazione ideologica e la deformazione istituzionale dello scontro di classe.

Situazione che già è apparsa evidente nel periodo della caccia alle Streghe. Ma – suggerisce Elisabetta Teghil

paradossalmente le donne hanno un vantaggio, si riconoscono ancora nell’oppressione patriarcale. […]

Possiamo e dobbiamo mettere le nostre capacità di comprensione, resistenza e azione al servizio della nostra liberazione e di quella degli oppressi tutti e muoverci su due piani, uno tattico e uno strategico, per controbattere il sistema di potere su un livello organizzativo pratico e uno utopico. Perché l’uno e l’altro si rimandano vicendevolmente e non esiste pratica politica senza un immaginario… (Kaveh, et al., 2020, pp. 106 – segg.)

Parole resistenti

Le analisi fin qui esposte ci offrono vari spunti per interpretare gli avvenimenti odierni.

Uno stimolo interessante ci viene anche da un’intervista a Vinciane Despret, psicologa e filosofa della scienza.

[La retorica della guerra al virus] genera l’effetto nefasto di considerarsi in guerra e quindi di marcher au pas, di inquadrare la propria andatura secondo i modi della marcia militare, nel senso dei soldati ma anche dei civili – in quanto potenziali vittime di uno stato in guerra. Ciò ha causato l’emergere, conseguente, di coloro che si definiscono dissidenti rispetto a questa retorica, quelle e quelli che disertano e che sono considerati disturbanti a causa di un potenziale sabotaggio dello sforzo collettivo. Infantilizzazione, obbedienza e una certa docilità sono state le conseguenze di questa retorica emergenziale. In quanto filosofa della scienza […] sento di dire che la persistenza di questa retorica ha radici nella metafora dell’eradicazione dell’imprevedibile, del debordante, nei confronti del vivente, che è invece per sua natura oltre il prevedibile, proliferativo e in mutazione. La risposta di una società di controllo a qualcosa di incontrollabile come il Vivente deriva dal desiderio di padronanza sull’esuberanza della vita. (Maffioli, 2020)

Il tema non è nuovo: come riportato nelle pagine precedenti, Joyce Lussu sottolineava che le istituzioni fondanti lo stato moderno sono costruite su un modello militaristico.

Molte di queste hanno come fine il disciplinamento della corporeità, ossia l’imposizione, da parte di una “autorità” esterna, di prescrizioni e limiti al comportamento delle persone.

Silvia Federici approfondisce questo aspetto e lo sviluppa secondo la prospettiva della politica femminista:

Fin dall’inizio del movimento delle donne, le teoriche e le attiviste femministe hanno individuato nel concetto del “corpo” una chiave per capire le origini della dominazione maschile e la costruzione di un’identità femminile. […] Le femministe hanno soprattutto denunciato le strategie e la violenza con cui sistemi di sfruttamento maschilisti hanno cercato di disciplinare il corpo femminile e appropriarsene, dimostrando così che i corpi delle donne sono stati il bersaglio principale e il luogo privilegiato per la sperimentazione di tecniche e dispositivi disciplinari. (Federici, 2015, pp. 22, 23)

Quei sistemi sono stati sostenuti dalla visione riduzionista con cui si è concepito il corpo e dall’attribuzione ad esso di un valore negativo.

Le femministe hanno ribaltato questo presupposto ideologico: la valorizzazione del corpo, accompagnata da

una visione più olistica di ciò che significa un essere umano […] ha assunto diversi aspetti, andando dalla richiesta di forme di sapere non dualistiche al tentativo […] di sviluppare un nuovo tipo di linguaggio e “[ripensare] le radici corporee dell’intelligenza umana.” Come ha sottolineato Rosi Braidotti, il corpo reclamato non deve mai essere inteso come un fattore biologico.

Inoltre, la visione femminista

rifiuta di identificare il corpo con la sfera del privato e parla quindi di “politiche del corpo”.

Tuttavia, nell’attuale sistema economico, rimangono endemici sia l’assoggettamento dei corpi che l’uso sociale della violenza:

In realtà, in un sistema in cui la vita è subordinata alla produzione del profitto, l’accumulazione della forza-lavoro può essere ottenuta solo con il massimo della violenza, cosicché la violenza stessa diventa la forza più produttiva.

In tale prospettiva

tortura e morte possono essere messe al servizio della “vita” o, meglio, al servizio della produzione della forza-lavoro, dato che l’obiettivo della società capitalistica è trasformare la vita in capacità lavorativa e “lavoro morto”.

Da questo punto di vista si può riscontrare che l’accumulazione originaria è un processo che si è dato in ogni fase dello sviluppo capitalistico.

Non a caso il modello storico originario ha sedimentato strategie che, in modi diversi, sono state riattivate in tutte le maggiori crisi del capitalismo, servendo ad abbassare il costo del lavoro e ad allargare l’area del lavoro non salariato. […] È quello che succede anche oggi, nella misura in cui una nuova espansione globale del mercato del lavoro sta tentando di cancellare le conquiste della lotta anticoloniale e delle lotte di tutte quelle soggettività ribelli – studenti, femministe, tute blu – che negli anni ’60 e ’70 hanno minato la divisione sia sessuale che internazionale del lavoro.

Non c’è da meravigliarsi quindi se ci troviamo di fronte una violenza su larga scala […] proprio come nel periodo della “transizione”, con la differenza che oggi i conquistadores sono i dirigenti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale che ancora predicano il valore di un centesimo a quelle stesse popolazioni che per secoli hanno defraudato e pauperizzato. […]

Al centro del capitalismo non c’è solo il rapporto simbiotico, sia pur apparentemente contraddittorio, tra lavoro salariato contrattuale e schiavismo, ma anche il rapporto tra accumulazione e distruzione della forza lavoro, per cui le donne hanno pagato il prezzo più alto, con il loro corpo, il loro lavoro, le loro vite. (Federici, 2015, pp. 23-27)

Ed è quello a cui stiamo assistendo al presente.

A questa politica di subordinazione dei corpi al profitto non sono estranei alcuni apparati dello Stato. Scrive, a riguardo Donatella Di Cesare:

La polizia traccia limiti, sceglie, discrimina, ammette al centro o respinge ai margini [i reietti, i corpi importuni e superflui] […] È innegabile l’uso segregativo che la polizia fa del potere, un modo per rinsaldare più o meno brutalmente la supremazia di alcuni […] e per acuire le differenze rendendole perspicue.

Questo non vuol dire che la polizia sia illegale. Piuttosto è legalmente autorizzata a svolgere funzioni extralegali. […] appellandosi alla sicurezza, accresce la propria presa sulla vita dei singoli.

Proprio per ciò le violenze della polizia non sono anomalie, ma rivelano il fondo oscuro di questa istituzione. (Di Cesare, 2020)

Per giustificare

le contraddizioni inerenti ai suoi rapporti sociali – la promessa di libertà contro una realtà di coercizione diffusa, la promessa di prosperità contro una realtà di penuria diffusa (Federici, 2015, p. 27) 

il capitalismo deve mistificare, modificare il senso delle parole – per esempio quello di “sicurezza” o “salute” – oppure imporre una scala di valori gerarchica, dove la realtà corporea è degradata a puro sistema biologico da governare mediante input esterni:

Trattare il proprio corpo come una realtà estranea da valutare, sviluppare e tenere a bada per ottenerne i risultati voluti, diventerà una caratteristica tipica dell’individuo plasmato secondo i dettami della disciplina del lavoro capitalistica. (Federici, 2015, p. 199)

È una strategia che continua ancora oggi: per introdurre una nuova disciplina è stata imposta la “reclusione” di miliardi di persone, in nome della “sicurezza” e della “vita”.

E come, all’inizio dell’era moderna,

le tattiche messe in atto contro le donne in Europa e contro le popolazioni colonizzate non avrebbero avuto successo se non fossero state sostenute da una campagna di terrore. (Federici, 2015, p. 148),

oggi è la “sindemia” che viene utilizzata per creare un clima di paura, allo scopo di atomizzare ulteriormente le persone, degradare l’identità sociale di larghi strati di popolazione, patriarcalizzare l’intera società, come scrive Elisabetta Teghil.

Per realizzare il suo progetto di controllo sulla persona, il potere utilizza ancora la classica divisione di spirito e materia, che ha disgregato l’unità del corpo e che, insieme ad altri tipi di scissioni – alienazione dell’io soggettivo dal mondo oggettivo e isolamento soggettivo dell’individuo, alienato dalla comunità – (Ruether, 1992, p. 139) produce la concezione di un corpo anatomico, non un soggetto di vita. (Galimberti, 1987, p. 42).

Attraverso tali dicotomie, il “distanziamento” tra le persone e l’occultamento di parti del corpo vengono presentati, dalle varie espressioni del potere, come un fatto puramente “fisico”, che non influisce sulla integrità della persona e quindi reversibile, perciò accettabile. Viene occultato il fatto che la segregazione dei corpi modifica la rappresentazione di sé che si forma il soggetto, agisce sul suo immaginario, sullo sviluppo delle sue capacità emozionali e intellettuali.

Questa negazione del rispetto dell’unità psicofisica della persona, della sua storia, della sua relazione con l’ambiente esterno, non può non riflettersi sul suo rapporto col macrocosmo sociale.

Per un corpo inteso come “totalità”, la vita è rapporto col mondo:

Senza riferimento al mondo il corpo ricade nella condizione di cosa, essendo la cosa ciò che non si conosce, ciò che riposa nella più assoluta ignoranza. […]

Solo la presenza o l’assenza del mondo decidono le sorti del corpo, il suo esistere come potenza operativa nel mondo o come cosa del mondo. (Galimberti, 1987, p. 70)

Afferma Tishani Doshi, danzatrice e scrittrice,

La parola vive dentro il corpo. Non è solo un fatto linguistico, è la loro unione che ci dà una base nel reale, ci dà il potere di nominare, di creare risonanze, quindi la parola come espressione non è solo una descrizione del reale ma anche un intervento nel reale e il corpo è il ponte che permette che tutto ciò avvenga. (Pigliaru, 2020)

Quale parola, quale intervento può esprimere un corpo mortificato, recluso, privato della sua integrità?

Credo che, a buon ragione, si possa affermare che oggi siamo di fronte a un bivio: accettare la “recinzione” della vita, o compiere una profonda revisione delle concezioni correnti. Mettere al centro il corpo, significa ribaltare il criterio di attribuzione del valore dato a una vita, che oggi viene misurato su una scala quantitativa – numero di anni vissuti, riconoscimento di cose fatte – e ricondurlo all’idea di complessità, intesa come pienezza dello sviluppo e dell’espressione di sé, in relazione con le altre manifestazioni del Vivente.

Ritornare a comprendere la morte nel ciclo della vita, nella consapevolezza della necessità del mutamento e della trasformazione, propria di quelle culture legate intimamente alla natura:

Nei primi due millenni di storia documentata, la cultura religiosa continuò a riprodurre la concezione sacrale della società propria del villaggio neolitico, dove l’individuo e la comunità, la natura e la società, il maschio e la femmina, le divinità della terra e gli dèi del cielo erano visti in una prospettiva totale di rinnovamento del mondo. […]

Morte e rinascita racchiudevano e la società e la natura: gli inni di gioia [della festa d’inizio d’anno] celebravano la liberazione dei prigionieri, la giustizia per il povero, la difesa contro le invasioni e insieme la pioggia nuova, il nuovo grano, i piccoli del gregge e degli uomini. (Ruether, 1992, pp. 143-144)

Una diversa visione della vita e dell’agire può venire solo dal rifiuto cosciente dell’impero monolitico che cancella ogni altra identità a esclusivo vantaggio della “razza” dominante. (Ruether, 1992, p. 152)

Questo significa innanzitutto liberarsi dei dogmi patriarcali sulla universalità e sulla oggettività dei saperi prodotti dalla scienza e dalla tecnologia occidentali: considerare il sapere come un processo “vivente” in continuo cambiamento per adattarsi a una realtà in evoluzione, che, per essere più “reale”, ha bisogno anche dell’esperienza e della sapienza dei corpi.

Significa cercare saperi nuovi che si confrontino con tutte le tradizioni, sottoporre continuamente a critica i paradigmi correnti, in base al criterio della loro capacità di rispettare gli equilibri naturali.

La diversità dei sistemi di conoscenza e la loro continua evoluzione si basano sulla condivisione delle conoscenze. La conoscenza può essere condivisa solo quando è un bene comune. […] Occorre un cambiamento rispetto al decisionismo non democratico, esclusivista, tecnocratico, in tutti i campi dell’attività umana. La sovranità sulle conoscenze è il diritto del popolo di creare conoscenze e di partecipare ai processi che riguardano la sua vita. (Shiva, et al., 2009)

In questo modo possiamo ricollegarci alle lotte delle donne che ci hanno precedute e a quelle delle donne e dei popoli che si battono per la salvaguardia dei loro territori e della loro vita.

 

AVE ATQUE VALE

(6/6 – FINE)

A cura di Anna De Nardis, ComeDonChisciotte.org

Anna De Nardis, saggista, già insegnante di fisica, ha unito la ricerca di modalità di indagine della natura allo studio del simbolismo religioso. È una delle maggiori conoscitrici di Momolina Marconi e della sua vasta produzione.

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Anna De Nardis, Dalla recinzione delle terre alla recinzione della vita

NOTE

1 Oggi diremmo “quantificabile” (nota mia).

2 Il grassetto è mio. L’autrice fa riferimento al Terzo principio della logica aristotelica.

3  Particolarmente inquietante, lo scritto di Vandana Shiva, (Shiva & Shiva, 2019)

BIBLIOGRAFIA COMPLETA

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Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org

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