Dalla recinzione delle terre alla recinzione della vita – 5a Parte

Scritti di donne su Natura, beni comuni, saperi femminili, cacce alle Streghe

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Donne e Natura sono accomunate dall’oppressione e dallo sfruttamento che le società patriarcali hanno esercitato ed esercitano tuttora su di esse.

D’altro canto osserviamo che molte popolazioni che hanno organizzato la propria esistenza nel rispetto dei cicli vitali della Terra, hanno dato origine a rapporti comunitari in cui veniva riconosciuto il ruolo delle donne nella elaborazione delle strategie di sopravvivenza e rispettato il loro sapere.

Molte studiose femministe, ciascuna nel proprio campo di competenza, hanno messo in luce questi aspetti e hanno proposto nuovi modelli di conoscenza che possono rappresentare delle alternative al pensiero unico del capitalismo globale.

Dalla recinzione delle terre alla recinzione della vita – 5a parte

A cura di Anna De Nardis, ComeDonChisciotte.org

In ricordo di Joyce Lussu, maestra e amica

Parole di scienziate

Anche in epoca contemporanea l’appropriazione delle ricchezze naturali passa attraverso la rapina dei beni comuni e la svalutazione del sapere accumulato dalle donne, con forme che spesso ricordano la caccia alle streghe del XVI e XVII secolo. Si può anzi dire che la ricerca del profitto e la brama di potere abbiano peggiorato le strategie conosciute nei tempi passati. Questo si può dedurre dalle denunce e dalle analisi di Vandana Shiva, nelle cui opere si trovano le stesse categorie di “recinzione”, colonizzazione, meccanicismo, “morte della Natura”, che abbiamo incontrato nello studio delle origini dell’economia e della scienza moderne e che ora sono utili per descrivere quello che la studiosa indica con il termine “biopirateria”. Per Vandana Shiva, che ha fondato la sua riflessione teorica sulle opere di Harding (Harding, 1986), Fox Keller (Fox Keller, 1985) e Merchant (Merchant, 1988), oltre che su vari aspetti della propria tradizione culturale, la forma più brutale di “recinzione” è costituita dall’ingegneria genetica, applicata al controllo delle sementi per mezzo dei brevetti; la distruzione dei beni comuni è quella operata ai danni della biodiversità rilevata e custodita dai contadini nel corso dei millenni, mentre l’imposizione delle monoculture tramite l’agricoltura industriale porta alla cancellazione delle conoscenze creative delle donne, le principali promotrici della sperimentazione e della selezione delle piante da riprodurre per l’alimentazione e per la cura. La pratica delle monoculture, inoltre, porta alla “morte della Natura”, in quanto alle forme viventi viene impedito di riprodursi liberamente.

Infine, una nuova forma di “caccia alle Streghe” si verifica nella denigrazione dei saperi delle popolazioni non industrializzate, tacciati spesso come “superstizione”, mentre le donne “acculturate”, ma non subordinate alla logica estrattivista delle multinazionali, vengono accusate di “atteggiamento antiscientifico”, nonostante i titoli accademici acquisiti e le ricerche svolte. Tuttavia Shiva va oltre il dibattito teorico e realizza progetti finalizzati a ristabilire e rafforzare legami tra le persone e con la Terra, in cui vengano riconosciuti la sapienza e il contributo attivo delle donne, proprio perché dalle donne ha ricevuto una parte fondamentale della sua formazione.

Nel libro-intervista La terra ha i suoi diritti (Shiva, 2016) parla del movimento antideforestazione Chipko (‘abbracciare gli alberi’)

nel quale ero fortemente impegnata all’inizio del mio percorso di attivista.

A 21 anni ero la più giovane matricola di quell’organizzazione, cui già apparteneva a mia madre. È stata un’esperienza davvero determinante per il resto della mia vita. Gli avvenimenti […] si sono verificati nel 1973 a Mandal, un villaggio appollaiato sulla frontiera tra India e Tibet. Un giorno erano arrivati degli operai per abbattere trecento frassini, per conto di un’azienda di attrezzature sportive. Ancor prima che i taglialegna dessero inizio al loro lavoro, la foresta è stata pervasa dal suono dei tamburi e gli abitanti del villaggio sono corsi ad abbracciare ogni albero, dandosi la mano a tre a tre. Dichiararono di essere pronti a morire piuttosto che abbandonare la loro foresta, vera e propria dispensa di cibo delle comunità locali. […]

La gente del luogo era pronta a tutto, tanto che gli operai finirono per battere in ritirata senza segare un solo albero. La direzione dell’impresa ha allora subito trovato un’altra foresta, a un’ottantina di chilometri di distanza… Ma la notizia della resistenza di Mandal aveva viaggiato più in fretta dei taglialegna. Per dissuadere l’azienda ci sono voluti sei mesi di lotta. […] Centinaia di piccoli villaggi avevano già subito le conseguenze della deforestazione: perdita delle risorse forestali, inondazioni, smottamenti di terra che avevano inghiottito case quando non interi villaggi. […] A parte queste catastrofi, nella quotidianità le donne non potevano più raccogliere i frutti del bosco con cui nutrivano la comunità, né la legna secca per la cucina, né portare i loro animali a mangiare le bacche. Le madri e le figlie, le prime a sentirsi colpite da quell’attacco alle risorse, furono anche le prime a opporsi alle imprese che disboscavano. […]

Quelle donne erano mie sorelle di lotta. Le battaglie vissute al loro fianco sono state per me un’esperienza decisiva. (Shiva, 2016, pp. 60-61)

Quelle donne analfabete, che vivevano in foresta, erano oggetto del disprezzo che la maggior parte degli indiani riserva alle basse caste. Per contro, i ricercatori che io frequentavo in quanto fisica erano visti come dei grandi esperti, venivano rispettati e ricoperti di onori. Condividere la quotidianità delle donne dei villaggi durante i miei periodi passati in foresta mi ha aperto gli occhi su un punto: esse, senza nemmeno averne coscienza, padroneggiavano una quantità incredibile di conoscenze! Quando facevo loro delle domande riguardo all’impatto della deforestazione sui loro ecosistemi, mi rendevo conto che esse li osservavano costantemente da vicino, in modo quasi istintivo. Le variazioni – anche minime – della vegetazione o del livello dei fiumi da un anno all’altro e le cause di quei cambiamenti per loro non avevano segreti. Ancora oggi, le donne che vivono nelle aree rurali, le raccoglitrici, le pastore, che raccattano legna secca e vanno a prendere l’acqua potabile per il villaggio, hanno una profonda ed esatta conoscenza dell’ambiente naturale. Non è forse, questa, una vera competenza? […] Si tratta di pratiche culturali e scientifiche elaborate, esistenti anche nei campi come nelle foreste: la protezione delle sementi o la scelta delle strategie colturali sono a lungo rimaste riservate alle donne.

Lo status di madri

le porta a vivere in una “prospettiva di sostentamento”: danno priorità alle necessità fondamentali della vita – sicurezza alimentare, protezione della biodiversità, salute, ecc. In questo si differenziano dagli uomini: salvaguardano la vita anche a costo del proprio sacrificio per la comunità. È ciò che mi ha spinto a mettere la nozione di ecofemminismo al centro di ogni mia iniziativa. […] Sanno intuitivamente che il loro destino è legato a quello della natura. Le donne del movimento Chipko certamente ignoravano la nozione di olismo ma ne erano profondamente impregnate. […] per loro la natura era una rete di interdipendenze, un insieme ben superiore alle singole parti. Da una simile visione promanano un’umiltà e un rispetto quasi religioso per la natura. (Shiva, 2016, pp. 141-143)

La mia scelta di studiare la teoria quantistica, respingendo la filosofia meccanicistica, discende dalla concezione della natura che ho ereditato dal movimento Chipko. (Shiva, 2016, p. 144)

Nella cosmologia indiana tutti gli esseri viventi nascono da una sola e medesima energia detta Shakti. È un nome che designa il principio femminile e al contempo la forza creatrice. Il legame profondo tra la donna e la natura, quindi, non è una scoperta opportunistica per associare le questioni di genere al tema ecologico: è inscritto nei nostri geni da sempre, rientra in un patrimonio millenario. […]

Le donne hanno assicurato la continuità dei semi per millenni, a dispetto delle guerre, delle catastrofi naturali, delle carestie. […]

Io vedo nella natura un essere vivente e l’intelligenza femminile come essenziale alla sopravvivenza dell’umanità. […]

Ritengo che la società, l’ambiente e le donne siano oggi governate dall’unione tra patriarcato e modello capitalista. […]

La dominazione sulla natura, la donna e le culture del Terzo mondo è al cuore stesso di questo sistema. Essa si esercita grazie a una costruzione artificiale che poggia su conoscenze ridottissime, che hanno per primo scopo quello di sfruttare il mondo per succhiarne denaro. (Shiva, 2016, pp. 147-152)

Anche Silvia Federici, pur in un altro ambito di ricerca, facendo riferimento ad esperienze di lotta delle donne del Sud del Mondo, sembra esprimere le stesse convinzioni. In una recente intervista (a cura di Paola Rudan) osserva:

… guardando all’esperienza che moltissime donne hanno vissuto anche a cominciare dall’America Latina, per esempio, risulta che siccome le donne sono quelle che per prime hanno a che fare con i bambini, con le malattie, con il fare da mangiare, sono quelle in prima linea contro la miniera, sono quelle che lottano – per esempio le donne Sarawaki in Ecuador – e dicono «io ai miei bambini non do da mangiare il petrolio, io i pozzi di petrolio nella nostra comunità non li voglio», e denunciano che con i pozzi arriva una nuova violenza maschile. Prima potevano uscire di casa a ogni ora e ora con i pozzi non possono più, perché ci sono questi giovani che lavorano brutalmente, poi prendono i soldi, si ubriacano, molestano le donne… c’è un machismo della produzione petrolifera. Nell’esperienza di Standing Rock, le donne indigene che si proclamano difensore dell’acqua sono le prime che si mobilitano, creano un campo di settemila persone che per mesi e mesi a venti gradi sottozero resiste ai cani, agli idranti e organizzano la riproduzione. Ci sono donne che dall’Amazzonia ecuadoriana vanno a Quito viaggiando a piedi per due mesi e siccome conoscono le cose fondamentali che riguardano i bambini o il cibo si organizzano con le pentole, attraversano il paese, fanno un’opera enorme di coinvolgimento politico, si fermano, parlano con la gente, spiegano che cosa succede in Amazzonia, la gente si unisce a loro. Lo possono fare perché hanno una conoscenza della riproduzione. Le donne del Nicaragua dicono che per loro il femminismo sono le banche delle sementi. Per noi è uno slogan probabilmente, ma per loro è la battaglia contro il transgenico. Il discorso che dice «il mio corpo territorio è la mia prima linea di difesa», che sostiene che quello che metto nel territorio, nella terra, è quello che metto nel mio corpo, stabilendo questa continua relazione. La lotta delle donne negli altopiani del Messico, che adesso hanno paura perché il governo le obbliga ad andare in ospedale a partorire. Loro quando partoriscono hanno il rito di mettere la placenta nella terra…questo che cosa vuol dire? 

Queste sono esperienze storiche vaste, di donne che hanno una storia che si collega all’appropriazione, all’agricoltura, alle sementi, che non è natura ma conoscenza.

Ci sono conoscenze profonde di che cosa c’è nell’acqua, nella terra, nelle piante, del rapporto con gli animali. Tutto questo mi dà vita. Ascoltare queste storie, vedere queste esperienze è quello che alla mia età, dopo aver visto tanto, mi dà coraggio, mi dà forza. (Rudan, 2020)

In un suo libro dedicato all’appropriazione e al controllo delle sementi da parte delle multinazionali dell’agro-business, Biopirateria (Shiva, 1999), Vandana Shiva inquadra la realtà di dominazione e di sfruttamento a cui sono sottoposte le popolazioni del “Terzo Mondo”:

Cinquecento anni dopo Colombo, lo stesso progetto di colonizzazione continua ad operare in versione secolarizzata, attraverso i brevetti e i diritti di proprietà intellettuale (IPR). La bolla papale1 è stata sostituita dal trattato GATT. […]

Il dovere di portare i selvaggi in seno alla cristianità è rimpiazzato dal dovere di portare le economie locali e nazionali nel mercato globale […]

La libertà che le multinazionali pretendono e che è loro riconosciuta dai TRIPs, è la stessa libertà che i colonizzatori europei hanno rivendicato sin dal 1492. (Shiva, 1999, p. 14)

Definire la cristianità come la sola religione e tutti gli altri credo e cosmologie come primitivi, è la stessa cosa che definire la scienza occidentale come la sola scienza, e primitivi tutti gli altri sistemi di conoscenza. […] Nei brevetti del XV e XVI secolo i territori conquistati sono stati trattati come fossero disabitati. I popoli sono stati naturalizzati come “i nostri sudditi”. In perfetta coerenza con la conquista naturalizzata, oggi la biodiversità viene anch’essa ridotta a natura e i contributi culturali e intellettuali dei sistemi conoscitivi non occidentali vengono sistematicamente cancellati. (Shiva, 1999, p. 17)

Questa politica è funzionale agli obiettivi generali perseguiti dal capitalismo estrattivista, come si può comprendere dall’esame dei regimi che regolano i diritti di proprietà intellettuale, in cui

conoscenza e creatività sono stati definiti in modo tanto restrittivo da ignorare la creatività della natura e quella dei sistemi conoscitivi non occidentali. […]

I diritti di proprietà intellettuale, così come oggi vengono intesi negli accordi internazionali, quali il GATT e la Convenzione sulla biodiversità, o come vengono imposti unilateralmente dalla clausola speciale 301 della legge USA sul commercio estero, rappresentano una ricetta per la monocoltura della conoscenza. Sono uno strumento utilizzato per esportare in tutto il mondo il sistema dei brevetti USA, che comporta necessariamente un impoverimento intellettuale e culturale perché elimina gli altri strumenti conoscitivi, gli altri obiettivi della creazione del sapere e gli altri modi di condivisione della conoscenza.

Il protocollo sui diritti di proprietà intellettuale previsti dal GATT si basa su un concetto molto restrittivo di innovazione. Per definizione è orientato a favore delle società multinazionali e contro i cittadini in generale, e in particolare contro i contadini e gli abitanti delle foreste del Terzo Mondo.

La prima restrizione deriva dalla trasformazione dei diritti comuni in diritti privati. Nel preambolo del Protocollo si afferma esplicitamente che i diritti di proprietà intellettuale sono riconosciuti solo in quanto diritti privati. Questa affermazione esclude tutti i tipi di conoscenze, idee e innovazioni che nascono nei “commons intellettuali”, tra i contadini dei villaggi, le popolazioni tribali delle foreste e persino tra gli scienziati nelle università. […]

La seconda restrizione dei diritti di proprietà intellettuale è legata al fatto che vengono riconosciuti solo quando la conoscenza e l’innovazione generano un profitto, e non quando rispondono a bisogni sociali. Secondo l’articolo 27.1 del Protocollo, l’innovazione, per essere riconosciuta come diritto di proprietà intellettuale, deve potersi sviluppare in applicazioni industriali. […] Profitto e accumulazione capitalistica diventano i soli fini della creatività, il bene pubblico non esiste più. […]

Di fatto l’interpretazione dominante dei diritti di proprietà intellettuale porta ad una drammatica distorsione nella percezione di cosa rappresenta la creatività e, di conseguenza, in quella della storia della povertà e della disuguaglianza. […]

Invece di riconoscere che alla base della povertà del Terzo Mondo ci sono i brevetti internazionali e la disuguaglianza strutturale del sistema economico mondiale, i sostenitori dei diritti di proprietà intellettuale spiegano la povertà come il risultato della mancanza di creatività, determinata a sua volta dalla mancanza di protezione dei diritti di proprietà intellettuale (Shiva, 1999, pp. 21-24)

In Biopirateria Shiva esamina gli aspetti ontologici, etici e sociali relativi alle biotecnologie adottate in agricoltura, e al problema dei brevetti:

La brevettabilità degli organismi viventi porta con sé due tipi di violenza. Primo, le forme di vita sono trattate come fossero semplici macchine, negando loro la capacità di autorganizzarsi. Secondo, consentendo di brevettare le future generazioni di piante e animali, viene negata agli organismi viventi la capacità di autoriprodursi. […]

L’ingegneria genetica e i brevetti sulla vita sono l’espressione più compiuta di quella commercializzazione della scienza e di quella mercificazione della natura, che sono cominciate con la rivoluzione industriale e scientifica. Come ha spiegato Carolyn Merchant in The Death of Nature (Merchant, 1988) la nascita del riduzionismo scientifico ha permesso di considerare la natura come morta, inerte e priva di valore2. […]

La nascita del riduzionismo scientifico è legata alla commercializzazione della scienza, e porta con sé la dominazione sulle donne e sui popoli non occidentali. I loro diversi saperi non sono considerati sistemi legittimi di conoscenza. Quando il fine della scienza è la commercializzazione, il riduzionismo diventa l’unico parametro di validità scientifica. […]

Il riduzionismo biologico è anche espressione del riduzionismo culturale, perché svaluta la maggior parte dei saperi e dei sistemi etici: tutti i sistemi agricoli e di medicina non occidentali, così come tutte le discipline biologiche occidentali che non si prestano al riduzionismo genetico e molecolare, ma che sono invece necessarie per avere un rapporto sostenibile con il mondo vivente. […]

Dal punto di vista epistemologico porta a una visione meccanica del mondo e della diversità delle sue forme di vita. Ci fa dimenticare che gli organismi viventi si autorganizzano. Ci priva della capacità di rispettare la vita e, venuta meno questa capacità, la protezione delle diverse specie esistenti sul pianeta diventa impossibile. (Shiva, 1999, pp. 38-45)

La conclusione è che

nell’era dell’ingegneria genetica e dei brevetti, anche la vita è colonizzata. (Shiva, 1999, p. 56)

Oltre alle manipolazioni tecnologiche che distruggono la capacità di cura e di autoorganizzazione dei sistemi viventi, vengono praticate le

manipolazioni legali che distruggono la capacità delle comunità di cercare le proprie soluzioni ai problemi, utilizzando la ricchezza delle biodiversità che gli è stata concessa in dote. (Shiva, 1999, p. 56)

La “colonizzazione della vita” e la visione patriarcale, che produce dicotomie artificiali, vanno di pari passo e si potenziano a vicenda.

La continuità tra la rigenerazione degli esseri umani e della natura non umana, che era la base di tutte le culture antiche, è stata infranta dal patriarcato. Le persone sono state separate dalla natura e la creatività coinvolta nei processi di rigenerazione è stata negata. La creatività è diventata monopolio dell’uomo, il solo ad essere considerato impegnato nella produzione; la donna invece, impegnata nella semplice riproduzione, non è stata considerata artefice di una produzione rinnovabile e il suo contributo è stato visto come non produttivo. L’attività, come prerogativa esclusivamente maschile, si è costruita sulla separazione tra la terra e il seme e sull’associazione tra una terra vuota e inerte e la passività femminile […]. Questa visione non ecologica della natura e della cultura è il fondamento delle visioni patriarcali dei ruoli di genere nella riproduzione in tutte le religioni e in tutte le epoche.

La metafora sessuata seme/terra è stata applicata alla produzione e riproduzione umana, in modo tale da rendere naturale il rapporto di dominazione dell’uomo sulla donna. Ma la naturalezza di questa gerarchia si basa sul dualismo materiale/spirituale, dove le caratteristiche maschili sono artificialmente associate con il puro spirito e le caratteristiche femminili sono costruite come puramente materiali, private dello spirito. […] Nell’assunzione patriarcale della superiorità dell’uomo rispetto alla donna, acquista particolare importanza il costrutto sociale secondo cui la passività/materialità è femminile e animale, mentre l’attività/spiritualità è maschile e chiaramente umana. Ciò si riflette in altri dualismi come mente/corpo dove la mente è immateriale, maschile e attiva, e il corpo è fisico, femminile, passivo. Si riflette inoltre nel dualismo tra cultura e natura, e nell’ipotesi che solo gli uomini hanno accesso alla cultura mentre le donne appartengono alla terra che genera ogni cosa. Ciò che queste false dicotomie nascondono è che l’essenza della natura è l’attività, non la passività. (Shiva, 1999, pp. 61-63)

Ma queste dicotomie sono funzionali al progetto del capitalismo estrattivista:

Il costrutto patriarcale della passività della terra e la conseguente creazione della categoria coloniale della terra come Terra Nullius ha risposto a due obiettivi: negare l’esistenza e i diritti precedenti degli abitanti originari e negare la capacità rigenerativa e i processi vitali della terra. […]

La concezione di una terra inerte ha trovato nuova e sinistra linfa, via via che lo sviluppo negava la capacità produttiva della terra e creava sistemi agricoli che non potevano rigenerarsi né sostenersi. (Shiva, 1999, pp. 64-66)

Le nuove biotecnologie si inseriscono in questo progetto, riproducendo le vecchie divisioni patriarcali di attività/passività e cultura/natura:

Mentre il vecchio patriarcato usava il seme come simbolo dell’attività e la terra come simbolo di passività, il patriarcato capitalistico – grazie alle nuove biotecnologie – ricostruisce il seme come passivo e colloca l’attività e la creatività nella mente che lo manipola. […]

Ora la trasformazione del seme da fonte rigenerativa della vita a materia grezza senza valore, va di pari passo con la svalutazione di coloro che rigenerano la vita attraverso il seme, e cioè i contadini e gli agricoltori del Terzo Mondo […]

Ma, come ha dimostrato l’esperienza, la fertilità dei suoli non può essere ridotta all’azoto, al fosforo e al potassio provenienti dalle fabbriche, e la produttività agricola necessariamente comporta il ritorno al suolo di una parte dei suoi prodotti biologici. Il seme e la terra creano le condizioni reciproche di rigenerazione e rinnovamento. (Shiva, 1999, pp. 64-67)

Vandana Shiva analizza come la concezione riduzionista della natura crea ulteriori separazioni:

La separazione del seme del grano alimentare ne cambia lo status.

Il seme mercificato è ecologicamente incompleto e spezzato in due momenti [cioè la produzione e la riproduzione]. Primo, non si riproduce […] Le risorse genetiche pertanto sono trasformate, tramite la tecnologia, da risorsa rinnovabile in risorsa non rinnovabile. Secondo, il seme non è più produttivo in sé, ha bisogno di altri input acquistati sul mercato. […]

È questo spostamento dai processi ecologici di produzione tramite rigenerazione verso processi tecnologici di produzione non rigenerativa, che caratterizza la perdita di possesso da parte degli agricoltori e la drastica riduzione della diversità biologica. (Shiva, 1999, p. 69)

E analizza come, ancora oggi, la scienza occidentale è funzionale a politiche di colonizzazione e sfruttamento:

Come con la colonizzazione della terra, la colonizzazione dei processi vitali avrà un grosso impatto sull’agricoltura del Terzo Mondo. Primo, indebolirà il tessuto etico e culturale delle società basate sull’agricoltura. Con l’introduzione dei brevetti, ad esempio, i semi – finora considerati un dono e scambiati liberamente fra gli agricoltori – diventeranno una merce brevettata. […]

Inoltre la richiesta delle imprese che un patrimonio comune si trasformi in merce e che i profitti generati da questa trasformazione siano considerati diritti di proprietà intellettuale, avrà implicazioni economiche e politiche molto pesanti sugli agricoltori del Terzo Mondo. […] Il sistema dei brevetti trasforma gli agricoltori in fornitori di materie prime gratuite, li mette fuori gioco come concorrenti e li rende totalmente dipendenti dalle industrie per input vitali come i semi. (Shiva, 1999, pp. 72-73)

La concezione meccanicistica della vita, che caratterizza il pensiero dominante, si rivela tuttora, come alla sua origine, nemica delle donne3.

Osserva Vandana Shiva

Come la tecnologia trasforma i semi da risorsa vivente, rinnovabile, in pura materia prima, allo stesso modo svaluta la donna. Ad esempio, la riproduzione è stata collegata alla meccanizzazione del corpo femminile, dove un insieme di parti frammentate, sostituibili e trattate come feticci, viene affidato alla gestione di medici professionisti.

In tal modo,

Con l’introduzione delle nuove tecnologie riproduttive si accentuerà la rilocalizzazione dei saperi e delle competenze, dalla madre al dottore, dalla donna all’uomo. […]

Le nuove tecnologie riproduttive hanno alimentato la moderna retorica scientifica per la riaffermazione di un intramontabile insieme di credenze profondamente patriarcali. […]

[I medici] tramite le loro conoscenze frammentate e invasive, aprono un conflitto tra la madre e il feto, dove la sola vita che conta è quella del feto mentre la madre è ridotta a una potenziale criminale che attenta alla vita del proprio bambino. […]

Quando questi conflitti sono emersi, la scienza e la legge patriarcale si sono date manforte per stabilire il controllo dei professionisti maschi sulla vita delle donne, come dimostrano l’introduzione della maternità surrogata e le ultime tecnologie riproduttive.

I diritti delle donne, legati alla loro capacità riproduttiva, sono stati sostituiti da quelli dei medici come produttori e da quelli delle coppie ricche e non fertili come consumatori. (Shiva, 1999, pp. 77-80)

Nel più recente libro, Il pianeta di tutti (Shiva & Shiva, 2019), Vandana Shiva illustra la nuova frontiera del controllo della biodiversità:

La brevettazione della vita attraverso l’ingegneria genetica sta rapidamente cedendo il passo ai brevetti sulla vita tramite mappatura del genoma.

Questa tecnologia si è sviluppata in risposta alle variazioni climatiche, che impongono nuovi adattamenti delle piante al territorio. Ma, sostiene la studiosa, l’“innovazione” necessaria all’evoluzione di varietà di semi resistenti al clima

è stata un processo incrementale e collettivo che ha richiesto migliaia di anni. Questi tratti genetici e queste varietà sono un bene comune. Eppure vengono presentati come “invenzioni” degli “scienziati”, che ribattezzano la proprietà resistente alle alluvioni insita nella varietà tradizionale (ad esempio la Dhullaputia, originaria dell’Orissa) come “Sub 1A” o come “gene resistente alla sommersione”. […]

L’industria agrochimica e biotech sta usando le varietà resilienti al clima sviluppate dagli agricoltori e producendo una mappatura del loro genoma, per poi rivendicare come proprie invenzioni, coperte da brevetti, i tratti originariamente selezionati dagli agricoltori. […]

Le corporation hanno spuntato più di 1500 brevetti su varietà resilienti al clima. Nel 2014, l’Ufficio brevetti indiano ha respinto la richiesta di Monsanto per una serie di brevetti relativi ai tratti di resilienza e tolleranza al freddo, alla salinità e alla siccità presenti in varietà sviluppate dagli agricoltori nel corso dei millenni con l’applicazione della loro intelligenza e delle tecniche di ibridazione. Sebbene si racconti che questi tratti siano frutto di manipolazione genetica, in realtà si tratta di pura e semplice biopirateria. […] Diversity Seek è un progetto globale lanciato nel 2015 per mappare il genoma delle sementi biodiverse sviluppate dai contadini e conservate nelle banche delle sementi. È un progetto estrattivo che punta a “sfruttare” i dati relativi alle sementi, “censurando” al contempo il patrimonio comune. […]

Questo colonialismo genetico non è altro che una privatizzazione dei beni comuni genetici. […]

Le varietà coinvolte sono perlopiù originarie di paesi in via di sviluppo, soprattutto latinoamericani e asiatici. […]

Ignorando i diritti degli agricoltori e i trattati che proteggono la biodiversità e comportano una regolamentazione dell’accesso al patrimonio genetico dei semi, Div Seek sta valutando un piano […] finalizzato alla vendita dell’accesso ai dati genetici sequenziati delle sementi tradizionali provenienti dalle banche dei geni internazionali.

In tal modo il progetto ignora che

la biopirateria è un reato punito da leggi stabilite a livello nazionale internazionale. Consiste, in generale, nell’appropriazione illegale – da parte di corporation e istituti di ricerca – della diversità biologica e del sapere tradizionale delle comunità locali dei paesi in via di sviluppo (Shiva & Shiva, 2019, pp. 114-119)

Shiva è convinta che

La biodiversità è sempre stata una risorsa comune locale. Una risorsa è una proprietà comune quando esistono i sistemi sociali che ne regolano l’utilizzo in base ai principi di giustizia e di sostenibilità. Ciò richiede che vi sia un equilibrio tra diritti e responsabilità da parte di chi la utilizza, tra uso e conservazione, oltre a un senso di coproduzione con la natura e di dono reciproco tra i componenti della comunità. (Shiva, 1999, p. 88)

Per l’autrice, i sistemi di proprietà comunitaria dei saperi e delle risorse hanno anche una valenza culturale perché riconoscono la creatività insita nella natura e in essi

la produzione umana è considerata una coproduzione e una creazione congiunta con la natura.

I regimi governati dai diritti di proprietà intellettuale, che giudicano il valore delle risorse sulla base della possibilità di accrescere i profitti,

si fondano invece sulla negazione della creatività della natura, e pertanto usurpano la creatività dei nuovi saperi e dei commons indigeni. […] In tal modo la biodiversità si trasforma da bene locale (local commons) in proprietà privata recintata (enclosed). (Shiva, 1999, p. 89)

L’altro aspetto che viene evidenziato è che:

Le comunità e gli ecosistemi decentrati e autorganizzati producono biodiversità, mentre la globalizzazione produce monoculture controllate con la coercizione.

E ciò non è ecologicamente sostenibile, perché le monoculture sono esposte al collasso; infatti

L’uniformità implica che un fattore di disturbo in una parte del sistema si traduca in fattore di disturbo per tutte le altre parti. La destabilizzazione ecologica quindi tende ad essere amplificata, non ridotta. Dal punto di vista ecologico la sostenibilità è legata alla diversità, che permette l’autorganizzazione e una molteplicità di interrelazioni capaci di sanare i fattori di disturbo in ogni parte del sistema. […]

Quello che succede in natura, si ripresenta anche nella società. Quando l’omogeneizzazione viene imposta a differenti sistemi sociali, le parti iniziano a disgregarsi l’una dopo l’altra. Perché la violenza intrinseca all’integrazione globale centralizzata, a sua volta crea violenza anche tra le vittime. […]

I confini della diversità diventano crepe di frammentazione e la diversità stessa all’improvviso appare una ragione sufficiente a giustificare violenze e guerre… (Shiva, 1999, pp. 127-129)

Sotto questa luce, si può considerare quanto abbiamo visto accadere nel periodo della caccia alle Streghe: la donna, la persona “diversa”, diventa improvvisamente un essere pericoloso da eliminare.

La posizione politica di Vandana Shiva riguardo alla globalizzazione è espressa con chiarezza:

Le nostre libertà indivisibili e, con esse, le nostre diversità sono minacciate dalle libertà che l’1%4 sì è garantito attraverso gli accordi di libero scambio, gli strumenti di manipolazione di massa e la “recinzione” dei beni comuni mediante brevetti. E l’1% continua a consolidarsi, alimentando uniformità e monoculture, divisioni sociali, monopoli e controllo dall’esterno, centralizzazione e coercizione, imponendo antidemocraticamente al mondo i suoi paradigmi e le sue narrazioni. L’1%, economicamente e politicamente potente, slegato dalla Terra e dall’umanità (inclusa la sua), sta cercando di assumere il controllo di ogni ambito della nostra vita. (Shiva & Shiva, 2019, p. 16)

Un altro aspetto che ritengo di primaria importanza sul piano culturale e politico, ma che oggi è spesso trascurato, è la riflessione epistemologica. Nell’opera di Vandana Shiva è trattato in modo non separato dai problemi ecologici e sociali da lei posti ed è tanto più interessante, in quanto è affrontato da un’ottica di donna che ha fondato lo studio della fisica sulle radici profonde della cultura indiana. Ho provato a ricostruirne il percorso a partire dalle prime riflessioni pubblicate, che vertono soprattutto sui temi propri dell’ecofemminismo occidentale:

La moderna scienza riduzionista, e così lo sviluppo, risultano essere un progetto patriarcale che, da un lato, ha escluso le donne dal ruolo di esperte e, dall’altro, ha rifiutato di considerare scienza le vie di conoscenza ecologiche e olistiche, che comprendono e rispettano i processi e le interconnessioni della natura. […]

La società dominata dalla scienza ha subito un’evidente evoluzione nel senso del modello della Bensalem baconiana: la natura viene trasformata e mutilata nelle moderne Case di Salomone, cioè i laboratori delle aziende e i programmi universitari che queste ultime sponsorizzano. (Shiva, 1990, pp. 20-22)

È patriarcale il nuovo potere scientifico e tecnologico ed è un tratto politico che ha caratterizzato l’emergente capitalismo industriale. Infatti

La visione del mondo meccanicistica è stata elaborata al servizio del capitalismo industriale che ha elevato a “scienza” un paradigma inadeguato, riduzionistico, meccanicistico, mentre il pensiero scientifico fondato sul riconoscimento della Terra come natura vivente è stato politicamente relegato a rango di non-scienza, se non di anti-scienza. (Shiva & Shiva, 2019, p. 19)

Come ricercatrice, Vandana Shiva trova nella teoria quantistica le idee di base che hanno guidato il suo pensiero:

Al contrario della prospettiva meccanicistica, la teoria quantistica è costruita sulla nozione di inseparabilità: tutto è interconnesso, gli oggetti non esistono, perché le particelle possono formarne uno, poi un altro e trasformarsi incessantemente. Essa guarda al reale in modo dinamico, non preoccupandosi unicamente delle quantità ma anche delle qualità. La teoria quantistica prende in considerazione l’evoluzione dinamica degli oggetti e presuppone che tutto sia relazione e in transizione. (Shiva, 2016, p. 145)

…Tutto è interconnesso, tutto è potenziale, tutto è indeterminato, non vale il principio del terzo escluso. (Shiva & Shiva, 2019, p. 27)

Per la scienziata, il riduzionismo è la caratteristica dominante della scienza e della tecnologia che si sono poste al servizio degli interessi delle multinazionali:

Il determinismo genetico e il riduzionismo genetico sono un tentativo di costringere la vita stessa in un recinto meccanico. Non costituiscono un’evoluzione naturale della ricerca intellettuale della società verso la comprensione del mondo di cui facciamo parte, bensì la realizzazione di un progetto politico di dominio e di controllo. Il paradigma dell’ingegneria genetica non è frutto dell’evoluzione: è stato artificialmente costruito dai grandi capitali di Rockefeller, l’uomo più ricco dei suoi tempi. […]

Come riferisce Lily Kay nel suo libro The Molecular Vision of Life, la biologia molecolare mirava alla “ristrutturazione delle relazioni umane in armonia con la struttura sociale del capitalismo industriale.” […]

Allora come oggi, la posta in gioco era il controllo. Allora come oggi, il pregiudizio dei super-ricchi e la loro paura delle donne, dei poveri, dei migranti, della gente di colore plasmano la loro idea di “scienza” quale verità oggettiva e definitiva, mentre in realtà non è che articolazione del pregiudizio soggettivo, della paura dell’altro, dell’irrefrenabile pulsione di dominio. (Shiva & Shiva, 2019, pp. 76-77)

A proposito degli organismi viventi ridotti a insiemi di parti separabili, prende in considerazione il riduzionismo genetico e scrive:

… Sostenere che i geni siano l’elemento primario è più ideologia che scienza. I geni non sono entità indipendenti, bensì parte integranti di – e dipendenti da – un insieme che consente loro di funzionare. Tutte le parti della cellula interagiscono, e nella costituzione di un organismo le concatenazioni di geni sono importanti almeno quanto gli effetti dei geni singoli. I geni hanno molteplici effetti e la maggior parte dei tratti dipende da più di un gene. Eppure, si resta aggrappati alla causalità lineare e riduzionistica del determinismo genetico, anche se i processi stessi che rendono possibile l’ingegneria genetica sono in contraddizione con il concetto di “molecola master” e con il “dogma centrale” della biologia molecolare.

L’ingegneria genetica ha implicazioni epistemologiche ed etiche per le condizioni materiali della nostra vita, della nostra salute e del nostro ambiente: trasferisce geni da una specie all’altra per mezzo di “vettori”, che di solito sono una ricombinazione a mosaico di parassiti naturali provenienti da diverse fonti, tra le quali virus che causano il cancro e altre malattie in animali e piante, cui vengono aggiunti uno o più geni “marcatori” resistenti agli antibiotici. I dati raccolti negli ultimi anni confermano il timore secondo cui questi vettori costituiscono importanti fonti di inquinamento genetico con drammatiche conseguenze ecologiche e per la salute pubblica. Il trasferimento orizzontale di geni mediante vettori e le ricombinazioni genetiche sono ritenuti all’origine di manifestazioni pandemiche di inediti agenti batterici patogeni.

Gli esperti di biotecnologie non hanno alcuna competenza scientifica in materia di ecologia genetica e molte altre discipline indispensabili alla valutazione del rischio degli Ogm per l’ambiente e la salute pubblica. (Shiva & Shiva, 2019, pp. 79-80)

Di fronte a critiche così decise, occorre approfondire la riflessione e chiedersi quale sia l’origine delle metodologie e degli atteggiamenti deleteri che Shiva mette in luce. Anche se la scienziata non affronta il problema in modo esplicito, si può capire dai suoi scritti che il carattere violento del riduzionismo e delle nuove tecnologie si può ricondurre a un metodo di conoscenza che pone la pratica del laboratorio come base della ricerca e criterio di “verità” della scienza.

Questo tipo di analisi mi sembra particolarmente importante da esaminare anche alla luce di altri apporti.

Nel libro in cui espone le radici del suo pensiero, Sopravvivere allo sviluppo, (Shiva, 1990) l’autrice sottolinea come Bacone, nel formulare il metodo sperimentale – modello per la scienza moderna – oltre ad adottare le note dicotomie (uomo-donna, pensiero-materia, ecc.) e coniugare insieme principio maschile e dominio sulla natura, illustrava con metafore chiaramente sessiste

le violente verifiche sperimentali delle ipotesi mediante manipolazioni controllate della natura, e la necessità di siffatte manipolazioni per rendere ripetibili gli esperimenti (Shiva, 1990, p. 21)5

A questo proposito Carolyn Merchant ricorda:

Molte fra le immagini da lui usate nel delineare i suoi obiettivi e metodi scientifici derivano dall’aula del tribunale e, poiché egli tratta la natura come una femmina che deve essere torturata per mezzo di invenzioni meccaniche, ci vengono irresistibilmente alla mente le domande che si facevano nei processi alle streghe e gli strumenti meccanici usati per torturarle. (Merchant, 1988, p. 221)

Linguaggio che non è stato ancora abbandonato:

Qui, in queste audaci similitudini sessuali, sta l’immagine-cardine del moderno metodo sperimentale – la natura costretta nei laboratori, dissezionata ad opera della mano e della mente, penetrata nei suoi più reconditi segreti – un frasario che ancora oggi si usa quando si elogiano i “duri fatti” di uno scienziato o la sua “mente penetrante” o “l’impeto con cui sferra le sue argomentazioni”. […]

Il metodo scientifico, combinato con la tecnologia meccanica, dava così vita a un “nuovo organo”, un nuovo sistema di investigazione, che univa conoscenza e potere materiale. (Merchant, 1986, pp. 170-171)

Ma, al di là degli aspetti storici, credo opportuno sottolineare che la coercizione è una componente caratteristica dell’attività di laboratorio, per due aspetti fondamentali: la scienza riduzionista studia i fenomeni che si possono riprodurre in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, pertanto deve separare l’oggetto della sperimentazione dalle connessioni con l’ambiente.

Le condizioni che possono introdurre elementi casuali o aleatori vengono artificialmente rimosse.

Pertanto i risultati delle “prove di laboratorio” derivano da precedenti manipolazioni; in laboratorio il ricercatore non osserva “l’evoluzione naturale” di un fenomeno, ma la risposta a condizioni “al contorno” e a stimoli predeterminati e scelti dall’operatore. Il quale evidenzia quelle grandezze e quelle relazioni che verranno rielaborate in funzione delle “domande” poste, trascurando spesso quegli aspetti del fenomeno studiato, a cui non attribuisce (soggettivamente) importanza di rilievo. In altre parole, il laboratorio è il luogo in cui si trasforma la complessità delle interrelazioni in rapporti di causa-effetto.

A ragione Shiva osserva che

L’esperimento controllato e il laboratorio sono elementi centrali nella metodologia della scienza riduzionista. L’oggetto di studio è arbitrariamente isolato dal suo ambiente naturale e dai suoi rapporti con gli altri oggetti e con l’osservatore (o gli osservatori). Il contesto (la struttura di valori) così preparato determina le proprietà che vengono percepite e conduce a un particolare insieme di convinzioni. (Shiva, 1990, p. 37)

Assolutizzare il valore di questo procedimento comporta un atteggiamento discriminatorio verso altre forme e prospettive di conoscenza:

L’esperimento “controllato” che è stato assunto come modello per l’osservazione “neutrale” è, di fatto, uno strumento politico […].

E specifica:

Scegliere un gruppo di persone (di specialisti) che adottano un metodo di conoscenza del mondo fisico (il metodo riduzionista), per trovare nella natura un gruppo di caratteristiche (l’insieme meccanicistico): ecco un procedimento politico, non scientifico.

Si tratta in definitiva di una triplice esclusione delle altre tradizioni di conoscenza: ontologica, epistemologica, sociologica. (Shiva, 1990, p. 39)

Possiamo trarre ulteriori spunti di riflessione da un saggio di Isabelle Stengers, chimica e filosofa della scienza, autrice di molti interventi sui problemi epistemologici delle scienze contemporanei.

Nel saggio Perché non può esserci un paradigma della complessità (Stengers, 1985), dopo aver introdotto il problema della “pertinenza”, riferendosi

non a un ideale di onniscienza ma a un ideale di apprendimento: apprendere come costruire e collegare tra loro linguaggi che formalizzano nella loro singolarità i diversi modi in cui possiamo effettivamente interrogare il reale, condurlo a tradursi in fenomeno, e le diverse descrizioni che corrispondono a queste interrogazioni

afferma che

anche la scienza sperimentale procede per scelte di punti di vista, per selezione.

Prendendo per esempio la teoria galileiana della caduta dei corpi, mostra come

“il fenomeno” si trova tecnicamente ridefinito “in laboratorio”, purificato al massimo da tutto ciò che la teoria assimila al rumore, interrogato dunque secondo i canoni della teoria.

E avverte:

La sperimentazione, in questo senso, è dunque un approccio rischioso. Presuppone la scommessa che il fenomeno isolato e riprodotto nelle condizioni di laboratorio sia essenzialmente lo stesso di quello che troviamo nella “natura”. (Stengers, 1985, pp. 72-73)

Quando poi estende la sua analisi alla sperimentazione sugli esseri viventi, è indotta a pensare

che lo sviluppo del vivente è sensibile al proprio ambiente, e che esso integra in una costruzione […] i vincoli determinati geneticamente ma anche differenti tipi di interazione con l’ambiente. In questo caso, ed è abbastanza evidente, il carattere riproducibile della costruzione del vivente diventa problematico… (Stengers, 1985, p. 77)

E, più avanti,

Il privilegio del batterio, la possibilità di isolarlo e studiarlo in vitro, traduce il ruolo singolare, determinante, che nel suo caso svolgono i vincoli genetici. In altri casi l’isolamento è un gioco pericoloso, e chi crede di purificare il suo oggetto, di fatto interviene attivamente nel significato di ciò che osserva. (Stengers, 1985, p. 80)

In conclusione

Ho parlato del rischio legato alla duplice separazione, concettuale e tecnica, che permette la sperimentazione. Ma il XIX secolo ha inventato e messo in atto una terza separazione che dà la sua impronta alla scienza di oggi: la separazione sociale tra quelli che “sanno riconoscere i fatti” e quelli che, incompetenti, seguono la corrente. I soli “fatti” accettati come scientifici, che sono fonte di “autorità” sono quelli che rispettano la distinzione disciplinare tra ciò che è significativo e ciò che è rumore, e cioè quelli prodotti dalla classe riconosciuta dagli specialisti teoricamente informati. (Stengers, 1985, p. 81)

A tali considerazioni si possono aggiungere le analisi di Elisabetta Donini che, da studiosa di fisica teorica e da donna impegnata nella discussione delle teorie e delle pratiche femministe, sottolinea il carattere “di genere” che porta con sé il cosiddetto “metodo scientifico”.

Riallacciandosi agli scritti di Carolyn Merchant, osserva che

la scienza del meccanicismo e la tecnica del macchinismo si sono sviluppate insieme e dallo stesso ceppo

e che la dissezione scientifica e lo sfruttamento industriale della natura sono strutturalmente connesse:

Da un lato venne inventato il metodo degli esperimenti di laboratorio che presuppongono per l’appunto di poter replicare i fenomeni in condizioni controllate, separandoli dalle loro connessioni con l’ambiente e riproducendoli sempre uguali a se stessi. Dall’altro cominciò a dispiegarsi il progetto della manipolazione tecnologica e la natura cominciò ad essere considerata come un insieme di risorse a disposizione dell’uomo: dove quest’ultimo termine, falsamente universale, va riattraversato ponendo attenzione alle differenze e disparità storiche tra le donne e gli uomini. […]

Il nuovo soggetto della conoscenza si predicava puro e incorporeo; è anzi costitutivo dei canoni moderni della scientificità che questa forma del sapere sia oggettiva, garantita dalle leggi intrinseche ai fenomeni. Come abbiamo appena visto, si trattava però di una pretesa nata all’insegna della rimozione delle differenze tra i generi, attraverso un cammino che negando la rilevanza del femminile portava a identificare il maschile con l’assoluto.

Se ora intrecciamo le due transizioni metaforiche che si sono espresse rispettivamente nel guardare alla natura come libro scritto da Dio e insieme come a una macchina, possiamo vedere che entrambe rinviano a un artefice esterno e che la legittimazione delle regolarità rintracciabili nelle cose del mondo veniva comunque cercata nell’ordine delle disposizioni impartite, non in un’intrinseca connessione e compatibilità. È questa una caratteristica probabilmente specifica della cultura occidentale, maturata attraverso i millenni sia lungo il filone giudaico-cristiano che lungo quello greco-latino […]

Quella che oggi chiamiamo scienza va cioè posta in stretto legame sia con l’orizzonte della trascendenza (le leggi provengono dall’esterno) sia con la vocazione all’efficienza imprenditoriale dell’homo faber del nascente capitalismo. […]

Morte della natura e Dio-Padre-Creatore-Legislatore (o, come scrisse il Voltaire, Orologiaio che ha messo in moto e fa funzionare il congegno del mondo) sono allora le due immagini inquietanti – ed entrambe intrise di significati che rinviano alla dominanza del maschile – che possiamo trarre come sintesi di questo primo sguardo sulle origini del moderno.

L’autrice che, con altri scienziati, storici, epistemologi, è stata impegnata nel dibattito sul ruolo della scienza nella società, che si è svolto nel secolo scorso, delinea alcune sue convinzioni al riguardo, che è interessante riportare in questo contesto, perché possono illuminare anche questioni attuali, che purtroppo vengono generalmente sottovalutate:

La lettura corrente vuole infatti che l’emergere del sapere scientifico abbia di per sé costituito un progresso perché ha delineato una via alla conoscenza garantita in termini oggettivi dall’esperienza sul piano empirico e dall’universalità delle forme della ragione su quello teorico. Il risvolto sociale corrispondente viene colto nel nuovo ideale democratico che allora cominciò ad affermarsi in un parallelismo perfetto tra atomismo scientifico e uguaglianza a priori degli individui: e proprio perché l’organizzazione borghese della società ha spezzato le gerarchie del mondo feudale, il suo instaurarsi viene presentato come un progresso grazie a cui si sarebbero liberate forze – in particolare la scienza – prima soffocate. Sempre secondo questa versione ortodossa del senso dei processi storici, i marxisti hanno sperato per decenni che diventassero dirompenti le contraddizioni tra scienza e capitalismo e che quest’ultimo crollasse perché ormai inadeguato allo sviluppo delle forze produttive. Anche se in nome degli interessi della classe operaia – anziché del capitale – si trattava pur sempre di un punto di vista interno alla logica dell’industrialismo inteso come necessità oggettiva e come inveramento della razionalità. […]

Ma una delle difficoltà cui oggi ci troviamo di fronte sta proprio nel fatto che le norme di scientificità e le strutture di potere sono talmente rigide e cristallizzate, da rendere gli scienziati stessi incapaci di esercitare su se medesimi quella cautela critica e quella contestualizzazione degli ambiti di pertinenza e di validità dei loro asserti che dovrebbero tenerli lontani da ogni pretesa di disporre di risultati certi o di principi universali. È perciò che mi pare di fondamentale importanza lo sforzo che le elaborazioni femministe vanno compiendo per confrontarsi con la stessa nozione di oggettività e per dare invece spazio a modi di conoscenza e a pratiche di rapporti tra le persone e con le cose del mondo imperniate sulla consapevolezza della parzialità e della soggettività.

Una via per sviluppare tale analisi è quella della ricostruzione storica. Come ho cercato di mostrare rifacendomi soprattutto alla Merchant, portare alla luce le connessioni tra le caratteristiche della nuova scienza e le motivazioni e gli interessi di parte di coloro che ne sono stati protagonisti consente di avere poi chiaro che “la” scienza è in realtà “una” scienza e che altre vie sarebbero state o sono possibili, se si affermano altri punti di vista e altre finalizzazioni. (Donini, 1990, pp. 91-95)

Il saggio, che rilegge in modo critico l’evoluzione del pensiero scientifico, prende avvio dalla nube di Chernobyl che, in Italia è stato l’avvenimento che maggiormente ha stimolato un dibattito approfondito anche tra i “non addetti ai lavori”; in esso l’autrice si confronta con la

progettualità di cui le donne si sono fatte allora portatrici. (Donini, 1990, p. 29)

Nel corso della trattazione, Donini affronta, tra le possibili vie alternative alla conoscenza, i problemi epistemologici posti dalle scienze della complessità, che pongono la necessità di una scelta esplicita;

La circolarità non totalmente risolubile dei rinvii tra soggetto osservante e mondo osservato va forse tenuta in tanto maggior conto, quanto meglio sembra adattarsi alle caratteristiche interconnesse della metafora organicista. (Donini, 1990, p. 128)

Su questo la presa di posizione viene vincolata dalla studiosa all’identità di genere:

Nello stesso tempo vorrei però riuscire a segnalare quanto sia profondo lo scarto tra la prospettiva razionale e astratta di coloro che elaborano l’attuale discorso delle scienze della complessità e la prospettiva esistenziale e concreta che invece per molte donne nasce dal loro percorso di presa di parola. (Donini, 1990, p. 130)

Un altro aspetto che è stato finora appena sfiorato, e che sarà ripreso nelle pagine seguenti, è la critica alla logica aristotelica che costituisce un fondamento della visione meccanicistica della natura.

Non vale il principio del terzo escluso (Shiva & Shiva, 2019, p. 27)

afferma Shiva quando parla della meccanica quantistica; mentre Merchant discute il valore che ha il primo principio nelle origini della scienza moderna:

uno degli assunti condivisi

fra le macchine e la scienza del Seicento era la legge di identità, l’idea che A=A, o dell’identità nel mutamento. Questo assunto di un ordine razionale in natura risale al pensiero dei filosofi Parmenide di Elea6 e Platone ed è la sostanza del primo principio della logica di Aristotele. In termini generali, è questo l’assunto che la natura presenta un comportamento conforme a leggi, e che perciò il dominio della scienza e della tecnologia abbraccia quei fenomeni che possono essere ridotti a norme, regolamenti e leggi ordinatamente prevedibili. Gli eventi che possono essere descritti in questo modo sono controllabili a causa della semplice identità di rapporti matematici. I fenomeni che “non possono essere previsti o riprodotti a volontà… [sono] essenzialmente sottratti al controllo della scienza”. (Meyerson, 1946, p. 28)[…]

La scienza dipende da una realtà strutturale rigida, limitata e restrittiva (Merchant, 1988, pp. 286-287)

Questi temi non sfuggono, come vedremo, a una scrittrice attenta come Christa Wolf, che, nel ripensare gli avvenimenti politici che l’hanno coinvolta quale cittadina della RDT, riflette anche sulle origini della scienza occidentale, individuata chiaramente come parte della struttura di potere in ambedue i blocchi in cui erano divisi gli Stati del periodo storico in cui ha vissuto.

A cura di Anna De Nardis, ComeDonChisciotte.org

Anna De Nardis, saggista, già insegnante di fisica, ha unito la ricerca di modalità di indagine della natura allo studio del simbolismo religioso. È una delle maggiori conoscitrici di Momolina Marconi e della sua vasta produzione.

Fine Quinta Parte – Continua

NOTE

1 Quella con cui Papa Alessandro VI assegnò ai reali cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona tutte le isole e la terraferma già scoperta o da scoprire, esistenti entro 100 leghe ad Ovest e a Sud delle Azzorre, in direzione dell’India.

2 Shiva descrive nel modo seguente il “riduzionismo”: i presupposti ontologici ed epistemologici del riduzionismo si fondano sull’omogeneità: esso considera tutti i sistemi costituiti dagli stessi elementi di base, discreti, slegati e atomistici, e presume che tutti i processi fondamentali siano meccanicisti. (Shiva, 1990, p. 28)

3 Argomento già trattato da Merchant (Merchant, 1988).

4 La percentuale della popolazione mondiale che detiene la metà delle ricchezze globali.

5 L’autrice si riferisce alle parole di Bacone, per cui lo studioso è chiamato a preparare una storia della natura costretta e tormentata così come essa è rimossa a forza del suo stato ordinario e premuta e forgiata mediante l’arte e il ministrio umano. (da Temporis partus masculus).

6 Sul ribaltamento, anche simbolico, operato da Parmenide, si veda Conci D.A., Il matricidio filosofico occidentale: Parmenide di Elea (Conci, 1989, p. 149)(nota della curatrice).

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Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org

 

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