Blitzkriegs e altro; quando la guerra lampo non basta per vincere in Europa

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DI ALESSANDRO GUARDAMAGNA

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Si chiama Blitzkrieg, la “guerra lampo”, perfezionata dalle forze del Terzo Reich nella Seconda Guerra Mondiale, nonostante il termine non compaia in nessun manuale militare tedesco dell’epoca, e i cui primi tentativi sperimentali risalgono alla Guerra Civile Americana. Si basa su un intenso bombardamento di artiglieria, a cui fanno seguito massicce incursioni aeree sui centri di comunicazione nevralgici del nemico per paralizzarlo. Poi scatta l’avanzata di veloci avanguardie meccanizzate e corazzate, che applicano la forza in un punto debole dello schieramento avversario, lo Schwerpunkt, per travolgerlo e passare oltre, filando a tutta velocità nelle retrovie, scompaginarle, e chiudere il nemico in sacche che vengono poi bombardate senza tregua fino a causarne il collasso operativo. Solo a quel punto la fanteria e le restanti forze corazzate avanzano in massa per ripulire i capisaldi di resistenza rimasti. Questa tecnica strabiliante lasciò il mondo a bocca aperta quando i Tedeschi la impiegarono in Polonia, caduta in quattro settimane, mentre secondo gli Alleati poteva resistere dai 5 ai 6 mesi. Furono altrettanti blitzkrieg che portarono la Wermacht a conquistare Belgio e Olanda in poche settimane, e infine obbligarono alla capitolazione la Francia, che schierava uno dei più numerosi eserciti d’Europa, in poco più di un mese. Dal 1939 questo stile di combattimento veloce e aperto, caratterizzato da un elevato grado di interazione fra uomo e nuove tecnologie, è stato ripreso dagli eserciti moderni fino alla Seconda Guerra del Golfo del 2003. Da un punto di vista decisionale si basa su una devoluzione del comando laddove i giovani leader sono incoraggiati a sviluppare iniziative autonome che possono diventare cardine della manovra per il raggiungimento del risultato finale.

A fargli da contraltare è la guerra di attrito, tesa a piegare il nemico in una lotta di uomini e di mezzi, laddove una parte, in grado di disporre di risorse maggiori rispetto all’avversario, schiaccia quest’ultimo con il peso del numero. Il fine è quello di consumare le riserve materiali e il morale dell’avversario per obbligarlo alla resa, oppure per strappargli l’iniziativa. Caratterizza spesso conflitti combattuti fra eserciti non in grado di prevalere l’uno sull’altro attraverso combattimenti aperti e decisivi, oppure emerge quando un esercito in forte minoranza di uomini e mezzi affronta un nemico più potente, come dimostrato da Quinto Fabio Massimo negli scontri con le forze di Annibale nella Seconda Guerra Punica. Altri esempi ne sono il Primo Conflitto Mondiale che, da quando l’Europa vide la stabilizzazione dei fronti in seguito alla battaglia della Marna, si trasformò in una guerra statica, con lo stallo di milioni di uomini in trincee spesso separate da una vicinanza ridicola, di poche decine di metri, ma che, diversamente da quanto accade col blitzkrieg, poteva mantenersi per anni. Anche il Vietnam rappresenta un altro caso di guerra d’attrito con cui gli USA, grazie a rifornimenti pressoché infiniti e ad una potenza di fuoco devastante cercarono, inutilmente, di aver ragione dell’avversario vietcong e nordvietnamita. Si tratta naturalmente di un conflitto antitetico alla guerra di movimento e che prevede una forte centralizzazione del comando da cui dipendono le scelte operative sul campo.

Vi è poi il raid su larga scala, sul modello della chevauchée medievale. Questo è un tipo di guerra che si combatte nelle retrovie avversarie piuttosto che confrontando il nemico in campo aperto. Le linee del fronte vengono aggirate o scoperte in un punto, e da li, tagliando i legami con le proprie basi di rifornimento, si penetra in profondità nelle retrovie del nemico per colpirne il fronte interno e l’apparato economico industriale che ne sostiene lo sforzo bellico. L’esercito invasore si mantiene sfruttando le risorse del territorio, avanza distruggendo infrastrutture e centri abitati e mette in mostra la vulnerabilità della popolazione nemica nel momento in cui questa, non protetta, assiste impotente alla spogliazione dei propri averi e della propria terra. Tuttavia la chevauchée non è affatto una mera scampagnata di uomini armati fra popolazioni civili inermi come apparentemente potrebbe sembrare. Questo perché tagliare le proprie basi di rifornimento vuol dire sì vivere delle risorse del nemico, ma anche riuscire ad attraversarne il territorio, e questo nessuno può prevederlo con certezza. Il raid, se non pianificato esattamente, senza la precisa conoscenza dell’area che si attraverserà, può trasformarsi per l’invasore in un disastro.

A ricordarlo è la battaglia di Teutoburgo, dove nel Settembre del 9 DC tre legioni romane, di rientro da una spedizione punitiva al di la del Reno, furono attaccate in boschi impenetrabili da tribù germaniche. Isolati ed impossibilitati a schierarsi in terreno aperto dove poter far valere la propria superiorità organizzativa, i legionari finirono per combattere in piccoli gruppi, che presto persero coesione finendo annientati. Fu una delle più gravi disfatte della storia militare di Roma. Se invece il raid in forze ha successo, può accelerare di molto la fine di un conflitto nel momento in cui mostra le debolezze intrinseche di una società che non è in grado di badare alla propria difesa. Il danno materiale che ne deriva e lo scoramento morale del fronte interno possono far venir meno il supporto dato alle proprie truppe combattenti. Fu il metodo usato da Sherman e da Sheridan per piegare la volontà del Sud, impiegato con brutale efficacia in Georgia e nella Valle dello Shenandoah in Virginia nel 1864. Tali regioni fortemente produttive furono ridotte a deserti, con l’eliminazione delle risorse che fino a quel momento erano sempre state a disposizione delle truppe confederate che ancora combattevano sul fronte virginiano. Fu così che il conflitto volse rapidamente a favore del Nord nel 1865.

Le tre forze principali – M5S, Lega e PD – impegnate nella campagna elettorale culminata con le elezioni del 26 Maggio  hanno utilizzato varie modalità per proporsi ed attaccare l’avversario. Il M5S ha optato per il blitzkrieg, non riuscendo però a capire bene cosa colpire. Ha confuso i centri nevralgici del nemico – comunicazione e supporto all’assetto dell’UE – con i propri, e ha finito per dare messaggi ambigui agli elettori, perdendone a milioni. Dopo aver infatti sostenuto per un decennio la necessità di contrastare lo strapotere finanziario dell’eurocrazia fatta di banksters e neoliberisti, il MoV con una fulminea mossa a sorpresa ha deciso lo scorso Aprile di presentarsi alle elezioni a sostegno dell’UE in difesa del PIL, con l’intento di cambiare l’Europa dall’interno. Ma trattandosi dello stesso PIL Italiano che l’EU ha massacrato per 20 anni, logica avrebbe voluto che la scelta fosse stata diversa. Invece il bombardamento a Bruxelles è stato fatto con una pioggia di inviti alla collaborazione, che si sono trasformati in altrettante inaspettate bordate alle proprie truppe di votanti ed attivisti, che, investiti dal fuoco amico, si sono trovati confusi, allo sbando. È come se il comando Tedesco, invece di ordinare il bombardamento di Cracovia e Danzica nel ’39, avesse inviato gli squadroni di Stukas contro Amburgo.

E se molti per abitudine o fede cieca hanno reagito ubbidendo all’ennesimo svarione politico del MoV, i risultati dimostrano che molti di più si sono chiesti quale leadership scelga democraticamente e consapevolmente di aprire il fuoco contro i suoi, cambiando totalmente ordine di attacco, e hanno rifiutato le nuove direttive. Tale scelta, combinandosi con candidati che non sono stati capaci di comunicare e spiegare il nuovo corso, ha fatto sì che il tutto abbia avuto un esito disastroso. Anche le critiche serrate sul caso Siri, il sottosegretario leghista alle infrastrutture coinvolto in un giro di corruzione di cui il MoV ha chiesto ed ottenuto la revoca delle deleghe ministeriali, seppur sbandierate come una vittoria del principio di onestà che dovevano convincere l’elettorato della diversità del MoV rispetto all’alleato di governo, non hanno sortito sostanzialmente effetto. I 5 Stelle hanno ottenuto un 17,06% a livello nazionale, con gran parte del sostegno proveniente dalle circoscrizioni del sud e delle isole. Al nord i risultati sono spesso attorno al 10-11%. Complessivamente la performance è stata una débâcle, con la perdita di 6 milioni di voti dal Marzo 2018, la più grave mai vista nella storia della Repubblica Italiana per un partito che da un anno sta al governo, dove era arrivato con percentuali che sfioravano il 34%.

Il PD ha adottano una guerra statica, riproponendo tutto il suo repertorio sui temi della solidarietà, dell’anti-fascismo, contro il razzismo e contro l’egoismo sociale, e in aperto sostegno del fronte UE. In questo la sua tattica non si è dimostrata innovatrice; seppure abbia saputo galvanizzare parte del proprio elettorato storico su argomenti tradizionalmente cari alla Sinistra italiana e europea, non è riuscito a capire che il vero tema che stava a cuore agli Italiani è quello della sicurezza. Pur rimanendo ancorato alle proprie posizioni, incapace di affrontare gli avversari sul loro terreno (difesa dell’Italia, sovranismo, contrasto dell’immigrazione illegale), di proporre una strategia politica alternativa e sostanzialmente di rinnovarsi, il PD è comunque riuscito nel non facile obiettivo di arrivare secondo con un 22,74%. Tale successo sembra in gran parte dovuto più che alla capacità di resistenza del PD, alla pessima prestazione del M5S che è stato, suo malgrado, capace di resuscitare un avversario che molti davano ormai in perenne stato catatonico e destinato a spegnersi.

Il vincitore delle elezioni col 34,26% dei voti è stata la Lega, che ha saputo dimostrare molto semplicemente come il retroterra politico dei suoi avversari fosse impreparato a gestire i bisogni degli Italiani. Un esempio illuminante è quello del 25 Aprile quando il PD ha deciso di non invitare i rappresentanti delle istituzioni alla cerimonia commemorativa che si sarebbe tenuta a Casa Cervi. Il Partito Democratico non è il depositario dei valori dell’antifascismo, che sono invece patrimonio di tutti gli Italiani, ma a lasciarlo fare il rischio è che decida lui chi è fascista e chi no. In tale circostanza la mossa del MoV si è limitata alla critica a distanza. Sono comparsi alcuni post su facebook in cui portavoce del M5S sottolineavano come il comportamento del PD fosse inaccettabile. Ed era vero, solo che a quel punto per battere il PD sul proprio terreno, una mossa a sorpresa avrebbe voluto che parlamentari di altre forze si presentassero alla cerimonia anche come privati cittadini, mandando in tilt l’agenda stabilita a tavolino dal PD. Avrebbero così dimostrato al popolo Italiano sia la vacuità della retorica del Partito Democratico, sia l’incapacità di quest’ultimo di difendere quello che si era scelto come proprio terreno di celebrazione politica: la difesa ad oltranza dell’antifascismo, di cui reclama l’esclusiva. E invece no. Il campo è stato lasciato all’avversario che ha fatto quel che voleva col MoV, ma non con la Lega.

Infatti Matteo Salvini non è andato a Casa Cervi, ma, come anticipato, ha celebrato il 25 Aprile in Sicilia, a Corleone, dove ha parlato di legalità e resistenza alla Mafia, rendendo così attuale per milioni di Italiani il messaggio della Resistenza ereditato da coloro che la fecero ai nazifascisti, intesa come resistenza a tutte le oppressioni. Che poi una componente dell’elettorato della Lega potrebbe avere simpatie con quella parte che il 25 Aprile del 1945 soccombette, non ha turbato Salvini né il pubblico, che a Corleone lo ha accolto da liberatore, in un bagno di folla. Basta vedere le foto per rendersene conto. In questo modo Salvini ha smarcato la Lega sia dal PD, sia dai 5 Stelle dimostrando di poter far proprio il campo dell’avversario, girovagandovi in lungo e in largo fino ad uscirne vincitore. Non è stata una cosa da poco perché, oltre ad essere notata da analisti politici, la scelta della Lega è stata avvertita chiaramente dal popolo.

E’ quindi la Lega della chevauchée, che con proclami e con l’esempio, ha saputo far guerra nel campo politico del PD dimostrandone i limiti, la mancanza di attualità e la rivendicazione pretestuosa demolendolo. Analogamente ha saputo arginare gli attacchi rivoltigli dal MoV e con coerenza, quella che ai 5 Stelle è mancata, ha fatto capire che andava in Europa a difesa dell’Italia e non per sostenere i giochi di Juncker. E’ questo approccio coraggioso, unito al rimando a temi attualizzati, come la resistenza all’illegalità che si salda con la sicurezza minacciata da chi è illegalmente in Italia, ad avere decretato il successo di Salvini, che la contestazione di alcune piazze come Bari non hanno offuscato.

Il 3 Maggio a Reggio Emilia, feudo tradizionalmente del PD che vi ha governato da 74 anni, e piccola roccaforte dei 5 Stelle con 3 parlamentari eletti, Salvini ha incontrato diverse centinaia di persone, nelle piazze in pieno giorno. Di Maio, forse per evitare il confronto, forse per il brutto tempo, è andato a parlare in un auditorium locale un Sabato sera. La sala era piena, è vero, ma si trattativa di una sala da trecento persone, non di una piazza gremita. Quelle piazze che fino a due anni fa si riempivano per Grillo e per il MoV, ora si sono riempite per Salvini e la Lega. IL 26 Maggio la Lega a Reggio Emilia ha ottenuto il 28,22% dei voti, il Mov il 14,71% rispetto al 29,4% del 2018. Per la prima volta nel dopoguerra un candidato sindaco della sinistra non vince al primo turno nella Città del Tricolore è dovrà andare al ballottaggio con quello di centrodestra sostenuto dalla Lega.

Matteo Salvini ha dato prova di saper individuare e mostrare le debolezze dell’avversario e di minarne il supporto del fronte interno, colpirlo forte e lasciare che a combattere nelle sua fila vi rimangano gruppi sparuti che non sanno come organizzarsi e dirigere gli sforzi. O gli imbelli. E’ stato criticato come un rozzo che guarda solo alla pancia degli Italiani. E’ errato, in quanto guarda attentamente anche a coloro di cui sceglie di circondarsi, li motiva e sa renderli convincenti, almeno a guardare i risultati, come altri non sanno fare. E’ vero che l’enorme successo elettorale non sempre riflette un’avanzata in grande stile sul territorio; ad esempio dei 28 comuni dove si andava al voto per le amministrative in provincia di Parma, solo 4 sono passati alla Lega. Tuttavia il balzo in avanti della Lega è stato poderoso, facendola diventare il primo partito d’Italia e d’Europa. Ma oltre alla partita a Bruxelles che la vede impegnata nel fronte sovranista contro l’UE, la Lega ha capitalizzato anche a livello nazionale. Con percentuali invertite rispetto al 2018, de facto la Lega ha chiuso in un angolo i 5 Stelle a cui può ora realisticamente chiedere Flat Tax, condono fiscale, Accettazione della normativa UE sugli appalti e TAV. A questo punto o il Mov accetta, oppure rifiuta rischiando di far cadere il governo del cambiamento, e di esserne ritenuto responsabile. Se invece accettasse le condizioni della Lega, la scelta produrrebbe un progressivo svuotamento dei principi già erosi che il MoV ha dichiarato negli ultimi 10 anni, e ne minerebbe enormemente la credibilità politica. Il rischio è che i 5 Stelle finiscano per ottenere percentuali risibili in future tornate elettorali.

All’epoca della Guerra Civile Americana Sherman affermava che la strategia migliore per distruggere la capacità bellica dei confederati non era tanto opporsi alle loro armate in campo aperto cercando lo scontro decisivo, né continuare una costosa guerra d’attrito – per uomini e mezzi – che finiva per demoralizzare molto più i cittadini del Nord di quanto non danneggiasse quelli del Sud. Il modo più efficace per Sherman, che fino al 1864 non aveva dato prova di una leadership particolarmente brillante sul campo di battaglia, consisteva nel colpire le retrovie, portarvi il caos e dimostrare l’inadeguatezza degli avversari proprio laddove si sentivano più forti semplicemente perché non erano mai stati sfidati, in un crescendo di distruzione in quello che la storica ambientalista Lisa Brady ha chiamato “guerra alla terra”. Da quel momento tanti ardenti secessionisti avrebbero cambiato opinione sulle capacità degli Yankees che, con schiere organizzate alla perfezione, avanzavano senza curarsi delle basi di rifornimento, che i soldati ottenevano nella loro marcia inarrestabile, facendo tabula rasa di quanto il nemico aveva da offrire, per lasciare dietro di sé un territorio devastato e nel caos più totale. Tutto questo, diceva Sherman, è una chiara dimostrazione di forza, non necessariamente militare, ma politica in primis. Il voto di un settimana fa ha confermato che tale logica è ancora valida.

Prima di fare un governo occorre fare le leggi, e prima di fare le leggi occorre avere valori condivisi. Solo coloro che li hanno possono portare efficacemente avanti scelte politiche e strategiche di ampio respiro. Gli altri possono tentare colpi di mano, blitzkriegs, o alternativi modelli di attacco che possono anche riuscire, ma perché abbiano una reale chance di successo non basta porsi come generali o politici: occorre esserlo fino in fondo. O per dirla rifacendosi al retaggio culturale rivoluzionario, come affermava Saint-Just, “Coloro che fanno la rivoluzione a metà, non fanno altro che scavarsi la fossa”.

 

Alessandro Guardamagna

Fonte: https://comedonchisciotte.org/

6.06.2018

 

 

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