UN POPOLO, UN’AUTO, UNA RAPPRESAGLIA

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Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? No. Come lo scandalo FIFA, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente. Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale.

 

Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal

Diesel e Germania fanno un distico. Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen.

È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda rivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli degli ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio. Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “maggiolino”. Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen.

La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45. Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare per i tedeschi significa vivere nell’immediato dopoguerra ed il mito felice del maggiolino si afferma solo col miracolo economico. Le sorti di Volkswagen sono però ancora legate al datato modello Typ-1, inadatto alle sfide poste dalla crisi petrolifera del 1973: il decollo (che coincide con l’inizio della parabola discendente per la FIAT) passa per la Golf 1 del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro.

Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche, la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, SEAT, SKODA, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, MAN) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e Paese. Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: 200 €mld di fatturato, 14 €mld di utili ed il traguardo come primo produttore mondiale in vista.

Quando nel marzo del 2015 è presentato il bilancio consolidato del gruppo, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250€ euro cadauna: la casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante.

Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni di VW danni segnali di malessere, attestandosi a 170€ attorno alla metà di settembre. Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese. Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 €mld, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95€.

A innescare il crollo è la notizia l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (EPA) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che montano i quattro cilindri 2.0 litri turbodiesel che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test. Il gruppo tedesco, minaccia l’EPA, rischia una multa fino a 18 $mld, 37.500$ per ognuna delle 480.000 auto incriminate1.

Immediata parte la campagna mediatica che per potenza di fuoco e soprattutto per i temi al centro del dibattito (il fallimento del sistema-paese della Germania e non i presunti danni all’ambiente provocati dal sovrappiù di emissioni di ossido di azoto – finora sconosciuto-) ha obbiettivi che trascendono la salvaguardia dell’ambiente. Trascurando che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli USA 2 e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano (10,2 Km/l 3 contro i 18 Km/l dei diesel incriminati) è di gran lunga maggiore a quello prodotto dagli ossidi di azoto, è sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda.

Quantificare i danni è al momento difficile: la banca svizzera Credit Suisse, per non sbagliare, stima tra i 25 ed i 75 €mld il costo dello scandalo 4 paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg.

Le vendite in America di settembre non subiscono però flessioni (al contrario sono in aumento dell’1% 5) e l’unica cifra su cui ragionare sono al momento i 18 $mld di multa minacciata dall’EPA: un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica. Una società europea ha da poco pagato alla autorità americane un risarcimento da 18 $mld per disastro ambientale: è la British Petroleum che, con l’esplosione e l’affondamento della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel 2010, causò, oltre che la morte di undici persone, la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico 6. Equiparare l’ossido d’azoto allo sversamento in mare di 500.000 tonnellate di greggio parrebbe un’offesa al buon senso.

L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors.

Nel febbraio del 2014 la GM è costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che ha provocato almeno 13 incidenti mortali 7. Per risparmiare pochi centesimi la casa di Detroit monta infatti una molla difettosa che può ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento mentre l’auto è in corsa, spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag. La reazione in borsa al comunicato dell’azienda? Nessuna. E la fortuna della General Motors è doppia, perché se la rivale tedesca è minacciata di una multa di 18 $mld per il software che sottostima le emissioni di ossido d’azoto (causa di possibili irritazioni respiratorie), il colosso americano, responsabile di non aver richiamato i veicoli pur sapendo del difetto al blocchetto almeno dal 2004 8, se la cava con una multa da 35 $mln 9: fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzata dall’EPA equivarrebbe a 500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato.

Pure i media non si eccitano particolarmente per l’affaire GM che, salvo qualche sporadico accenno, finisce presto nel dimenticatoio.

Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso Volkswagen: impossessato da un improvviso fuoco ambientalista, il governo francese invoca un’inchiesta europea e quello britannico definisce “inaccettabili le azioni di VW”, lanciando un immediata indagine per accertare i fatti. C’è odore di sangue e nessuno vuole mollare la presa sulla casa automobilistica, sicuri di agire sotto l’ombrello americano. Il giornale della City di Londra, il Financial Times, alza ancora il tiro: “EU warned on devices at centre of VW scandal two years ago”10. L’insinuazione è consequenziale: nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco, la casa di Wolfsburg è impunita.

È fuori di dubbio che Volkswagen abbia raggirato i controlli sulle emissioni ma a sua discolpa va detto che i limiti imposti alla casa automobilistiche sono spesso irraggiungibili 11 e ciò è noto sia agli ingegneri, costretti a scervellarsi sul come frodare i controlli, sia alle autorità competenti. Alla base dello scandalo VW non ci sono scrupoli ambientalistici ma precisi obbiettivi politici: colpire l’industria chiave del manifatturiero tedesco e la sua azienda simbolo, per colpire la Germania.

Lo scandalo VW è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”.

Berlino, il peso determinante

Il giudizio italiano sulla Germania è stato inquinato in questi anni da una strisciante retorica anti-tedesca, diffusa dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano: man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica.

Urge quindi ricostruire un minimo di verità storica.

La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia ed al Giappone ed alla stregua di una potenza occupato è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitense, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e gli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo).

A differenza dell’Italia, la Germania è però munita di una classe dirigente compatta, istruita e conscia degli interessi del Paese, al di sopra di campanilismi e faziosità: la lunga stagione di destabilizzazione, passata alla storia come “gli anni di piombo”, è affrontata dai tedeschi con stoicismo. La Germania ne emerge nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e risorse tali da comprarsi la DDR, mentre, al termine del terrorismo di Stato, l’Italia ha già imboccato la strada del declino, con lo smantellamento dell’economia mista tra e bombe ed assalti speculativi.

La firma del Trattato di Maastricht nel febbraio del 1992 pone le basi dell’euro. Il fatto che l’accordo sia caduto a distanza di 18 mesi dalla riunificazione tedesca ha alimentato la leggenda (comoda a qualcuno per dipingere gli europei come padroni del loro destino) che fosse stato François Mitterrand a imporre la moneta unica a Helmut Kohl per “imbrigliare” il rinato gigante tedesco. La finanza anglofona covava in realtà il progetto di una moneta unica dagli anni ’20 e se i francesi avessero voluto depotenziare Berlino, la peggiore idea possibile sarebbe stata quella di legarsi a loro in un mercato senza dogane e con una moneta comune: il sogno della Germania sin dal 1914, per impedire che i vicini tassassero i temibili prodotti tedeschi e svalutassero le loro monete, riguadagnando competitività.

La Germania quindi subisce sì l’euro (Helmut Kohl ammette che i tedeschi, se interpellati con un referendum, avrebbero sicuramente bocciato la moneta unica 12) ma allo stesso tempo mantiene un’influenza notevole sulla Banca Centrale di Francoforte e, soprattutto, dispone ora di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale.

Perché gli USA non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi, la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington.

L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari.

Prima è il tentativo, fallito, da parte di Deutsche Börse di acquistare nel 2011 l’americana Nyse Euronext (bocciato dalla Commissione dietro pressione americana per presunti rischi di monopolio 13); poi il tentativo del 2003, fallito, di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio Five Eyes 14 che riunisce i paesi anglosassoni (USA, UK, Nuova Zelanda, Australia, Canada); infine il tentativo, fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del Financial Times. Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro.

Gli Stati Uniti infatti si attendevano dalla Germania ben altro atteggiamento allo scoppio (atteso) dell’eurocrisi: è sicuramente apprezzata l’imposizione delle riforme secondo i rigidi dettami del neoliberismo, ma la moneta unica è presto o tardi destinata a spezzarsi se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale.

La Germania invece di imboccare la via delle federazione del continente, prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’aggiustamento del regime a cambi fissi detto “euro” sulla periferia: taglia ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica.

È sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana. Dice Romano Prodi in una recente intervista ad Eugenio Scalfari 15:

I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea. Draghi è uno dei pochissimi che vuole gli Stati Uniti d’Europa e che utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada

Rincara la dose in un’intervista all’Huffington Post 16:

Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. (…) Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. (…) Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea.

Prodi, come gli americani, sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della BCE (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali). Quali investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il Paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/PIL del 140% ed istituti bancari appesantiti da 200 €mld di crediti inesigibili?

Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente.

Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev, poi è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del Comando delle forze armate americane in Europa (con sede a Stoccarda). Non va meglio in Medio Oriente dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai BRICS, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione ONU 1973 che impone la no-fly zone) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita ed afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile.

La Germania agli occhi di Washington è, per usare le parole di Romano Prodi, “arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio”.

Occorre riportare all’ordine la Germania.

Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di miglia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la precipitare nei sondaggi) il Paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014 17). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro aumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza.

Poi è lo scandalo Volkswagen di cui sopra: un vero attacco al sistema-paese.

Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania? La domanda non è da poco, perché coll’attuale situazione internazionale, ogni giorno sempre più dinamica (vedi da ultimo l’intervento militare russo in Siria ed il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco18) la Germania è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria. Come abbiamo sottolineato nei nostri lavori, se la Germania si saldasse a Russia e Cina, gli USA sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland.

L’intervento russo in Siria assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record. È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti oppure imboccare la via dell’escalation militare.

Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington dipenderà l’esito del conflitto che si sta spostando rapidamente dalle borse e dalla stampa ai teatri operativi. Certo, l’agente Dorothy veglia sugli affari tedeschi. Ma è ancora in forma? E, soprattutto, è ancora fidata? Ce ne occuperemo prossimamente…

gmvw

Federico Dezzani

Fonte: http://federicodezzani.altervista.org

Link: http://federicodezzani.altervista.org/un-popolo-unauto-rappresaglia/#

4.10.2015

1http://www.reuters.com/article/2015/09/18/us-usa-volkswagen-idUSKCN0RI1VK20150918

2http://www.vrworld.com/2015/07/16/volkswagen-of-america-reports-june-sales-gaining-5-6-over-2014/

3http://www.ansa.it/motori/notizie/rubriche/mobilita/2013/12/11/Usa-consumi-auto-sono-calati-23-6-anni_9759662.html

4http://uk.businessinsider.com/credit-suisse-volkswagen-shares-could-fall-another-20-2015-10

5http://www.usatoday.com/story/money/cars/2015/10/01/volkswagen-sales-struggle-scandal-affects-customer-perception/73145740/

6http://www.wsj.com/articles/bp-agrees-to-pay-18-7-billion-to-settle-deepwater-horizon-oil-spill-claims-1435842739

7http://www.reuters.com/article/2014/02/13/us-autos-gm-recall-idUSBREA1C0SJ20140213

8http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/14/richiamo-general-motors-gia-84-morti-risarcite-per-colpa-molla-56-cent/1590328/

9http://www.nbcnews.com/storyline/gm-recall/gm-pay-feds-record-35-million-fine-over-deadly-ignition-n107106

10http://www.ft.com/intl/cms/s/0/d0d7ba40-6394-11e5-9846-de406ccb37f2.html#axzz3nV1pF3tZ

11http://www.motori24.ilsole24ore.com/Industria-Protagonisti/2015/09/limiti-industria-inutili.php

12http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/12/kohl-fui-dittatore-ma-referendum-sulleuro-non-sarebbe-mai-passato/558139/

13http://www.repubblica.it/economia/2015/03/09/news/la_corte_ue_conferma_lo_stop_alla_fusione_tra_deutsche_boerse_e_wall_street-109101576/

14http://www.ft.com/intl/cms/s/0/e2492a3a-3d7a-11e3-9928-00144feab7de.html#axzz3nV1pF3tZ

15http://www.ft.com/intl/cms/s/0/e2492a3a-3d7a-11e3-9928-00144feab7de.html#axzz3nV1pF3tZ

16http://www.romanoprodi.it/articoli/larroganza-tedesca-il-cambiamento-inglese-la-svolta-usa-russia-e-litalia-che-non-ha-ruolo_11989.html

17http://notizie.tiscali.it/ultimora/feeds/15/09/30/t_121_20150930_EST_TN01_0153.html?esteri

18http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/ContentItem-8fd6e5ba-84ec-4121-9efa-10773622d930.html

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