Di Roberto Valtolina
Il 12 settembre è uscito The masquerade reloaded, riedizione di un libro uscito nel novembre 2023 per i tipi di Frascati&Serradifalco. Giovani, esperti e appassionati di storia possono leggere un testo che ricostruisce il decennio più sanguinoso della Guerra fredda, baricentrato anche sul vissuto di chi – come il responsabile di un collettivo di Autonomia Operaia romana Maurizio Fiorentini – ha attraversato di persona quella temperie. L’esposizione si srotola dal dopo Moro alla nascita delle Br. Apparati, investigatori, indagati, politici, militanti, movimenti, spie, vittime… e tanti saluti a complottismi e salti logici. Una trama nella quale dominano gli eventi, calati nello scontro tra i guardiani di Yalta.
Gli autori, uno dei quali è anche l’autore di queste righe, hanno sentito l’esigenza di aggiungere due capitoli alla prima edizione. Uno di essi, in particolare, aiuta a capire l’attualità geopolitica individuando le radici dello scontro fra Usa e Russia in ciò che accadde anche e soprattutto a Cuba, nel 1966. Chi si avventurerà nella lettura della riedizione del libro scoprirà di cosa si tratta. Intanto, ricostruire qui il filone aureo della diplomazia e della politica estera italiana in vigore prima del monocolore neoliberale atlantista che sta ammorbando l’Italia da trent’anni è utile per illustrare l’azione di alcuni attori – non solo politici – che innervano la trama di The masquerade reloaded e per illuminare una delle angolazioni con la quale interpretare la sublime intelligenza politica dell’ex ministro delle Finanze Rino Formica, che chiude il libro individuando le radici dell’attuale male politico italiano alla sconfitta rimediata nei 55 giorni del sequestro Moro dagli “esploratori” italiani di un nuovo ordine multipolare alternativo a quello vigente.
Partiamo proprio dagli anni della segreteria democristiana di Aldo Moro: si dispiega dal 1959 ai primi giorni del 1964 e coincide in buona misura con la terza legislatura repubblicana, un quinquennio di transizione pure per l’azione internazionale dell’Italia. L’apertura a sinistra della Dc modificò equilibri in vigore da circa un decennio. Tale svolta rese più stretto l’intreccio tra politica interna e politica estera, accentuando il ruolo dell’Italia come paese di frontiera, all’incrocio tra le direttrici Est-Ovest e Nord-Sud delle relazioni internazionali. A partire da allora, il ruolo internazionale dell’Italia è rafforzato da novità come i primi successi della costruzione europea, l’avvio della decolonizzazione e le mutate condizioni per il rapporto con l’Unione Sovietica e il blocco comunista. Il pieno reinserimento dell’Italia nella comunità mondiale, sancito nel 1955 dall’ingresso nell’Organizzazione delle Nazioni Unite e la crescita impetuosa dell’economia nazionale negli anni del boom, spinsero l’Italia verso una politica di ricerca di risorse e di mercati di sbocco. Nell’ottica anglo-americana l’area mediorientale, composta da ex colonie anglo-francesi, era decisiva per limitare l’influenza sovietica: nel 1952 la Turchia entrò nella Nato e nel ‘55 fra la Turchia e l’Iraq venne firmato il Patto di Baghdad, sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra in funzione anti-comunista. Ben consapevole di tale contesto ma altrettanto conscio che il Mediterraneo è un mare che diversamente dagli oceani non divide in maniera netta il nord dal sud e l’ovest dall’est e dunque richiede forme di collaborazione tra le sue sponde, il primo ministro Dc Amintore Fanfani sgancia una parte della politica estera italiana dall’atlantismo degasperiano – attuato nei primi anni del secondo dopoguerra – e intraprende una politica mediterranea e mediorientale il cui baricentro è la ricerca di un modus vivendi fra Israele e i Paesi arabi.
La politica di equidistanza che ne nasce segue sia l’ispirazione di Giorgio La Pira, che auspicava la coabitazione fra le religioni del Libro, sia (soprattutto) la necessità di fornire sostegno e legittimazione istituzionale alla politica energetica dell’Eni di Enrico Mattei e al suo tentativo di rompere il cartello petrolifero delle cosiddette «Sette sorelle», per procurarsi fonti autonome di approvvigionamento di petrolio greggio. L’Italia, avendo perduto le sue colonie, non disdegna la causa Terzomondista, utile per presentarsi agli stati di nuova formazione come un partner affidabile e rispettoso per creare una propria area di influenza.
Il primo preambolo dell’asse Fanfani-Mattei fu, nel ‘55, l’elezione alla presidenza della Repubblica di Giovanni Gronchi, uomo a cui Mattei era molto legato. Fu il Presidente della Repubblica a legittimare e a favorire la politica dell’Eni in Medioriente: l’importanza di Mattei nello scenario economico e l’attivismo di Gronchi al Quirinale, che non si fece remore nell’utilizzare il proprio ufficio per esternare le proprie vedute politiche, ne fecero una coppia potente, con la quale Fanfani costituì un’alleanza programmatica in politica estera. La creatura che Mattei aveva fondato il 10 febbraio 1953 – l’Eni – era un’azienda che riuniva al suo interno come controllate tutte le partecipazioni statali che gestivano gli idrocarburi, tra cui Agip, Snam, Anic, Stanic, Romsa ed Ente nazionale metano. Nel nome della pace e della cooperazione economica per lo sviluppo, Mattei aprì al Medio Oriente, alla Russia, alla Cina e all’Iran, con i suoi accordi diretti coi paesi fornitori, a cui offriva condizioni molto più favorevoli rispetto alle Sette Sorelle. Da ministro degli Esteri, Moro si avvarrà di questo retroterra quando, nel maggio 1971, si recò in Libia dal Colonnello Gheddafi: l’accordo nato fra il governo libico e la Snam Progetti, società dell’Eni, del valore di 42 miliardi di lire, prevedeva la costruzione di una raffineria in Libia, consentendo alle aziende pubbliche e private italiane di conquistare un ruolo importante nella vita economica libica. La prima rilevante operazione estera dell’Eni si ebbe in Egitto nel 1955, con una quota di partecipazione nella International Egyptian Oil Company. Due anni più tardi acquisì il 51% della Compagnie Orientale des Petroles d’Egypte, operante soprattutto nel Sinai.
L’Eni contribuì a realizzare l’oleodotto Suez-Cairo. E fu proprio in Egitto che esordì l’innovativa formula di Mattei: non più il pagamento, tramite royalties, verso il Paese detentore di risorse, ma la creazione di una società paritetica fra Paese produttore e Paese consumatore, con il secondo (in questo caso l’Italia) che anticipava le spese necessarie per la ricerca degli idrocarburi. Nel 1957 l’Eni esportò questo modello di accordo anche in Iran: fu costituita una società paritetica tra l’Agip mineraria e la National Iranian Oil Company. Dal 1957 e il 1962, infine, Mattei puntò sulla distribuzione in Africa, accordandosi con i vari governi nazionali su ricerche, estrazione, raffinazione e distribuzione. L’Eni mise in circolo società per la distribuzione dei carburanti in Marocco, Tunisia, Ghana. Inutile aggiungere quale fu il blocco di Yalta a giovarsi della morte di Mattei, avvenuta il 28 ottobre 1962, per il sabotaggio del suo aereo nel cielo di Bascapè. Intanto, l’evolversi della situazione mediterranea e mediorientale si saldava con il processo di decolonizzazione e con la nascita del movimento dei «non allineati». Fanfani esaltava il ruolo delle Nazioni Unite. Nella sua visione l’Onu rappresentava un foro cruciale per assicurare la risoluzione concertata delle controversie internazionali e per superare la politica di potenza, in vista dell’uguaglianza tra i soggetti internazionali. All’ottavo Congresso nazionale della Dc, tenutosi a Napoli dal 27 al 31 gennaio 1962, Moro parla di «vincoli di amicizia e di collaborazione con altri popoli particolarmente vicini per storia, civiltà, interessi comuni all’Italia, soprattutto nell’America latina e nel bacino del Mediterraneo».
È proprio Moro a ereditare l’approccio fanfaniano e matteiano alla politica mediorientale. Lo sviluppo moroteo di questa linea si deve, paradossalmente, all’esito negativo per la Dc e per il centro-sinistra delle elezioni del 1968: Moro perde il ruolo di leader della Dc e conosce una parentesi di emarginazione politica. Divenuto capo di un gruppo di opposizione interna nel partito, Moro inizia ad affinare l’arte delle relazioni internazionali, al punto che nell’agosto ‘69 divenne ministro degli Esteri nel secondo governo Rumor, carica mantenuta fino alle elezioni primaverili del 1972. Un quadriennio in cui, sul piano strategico, Moro assimilò e aggiornò le posizioni che esistevano in seno alla struttura diplomatica italiana, all’epoca brillantemente rappresentate ed espresse da Roberto Ducci e Roberto Gaja. Il favore verso la diplomazia multilaterale e la cooperazione internazionale, il sostegno al processo d’integrazione europea, lo sforzo di costruire una rete di rapporti economici e politici con l’Unione Sovietica e i regimi limitrofi e il delinearsi di un orientamento filoarabo nell’azione italiana in Medio Oriente erano indirizzi della politica estera italiana che Moro fece proprie come linee guida della sua azione di ministro degli Esteri. Al centro delle preoccupazioni morotee c’era la questione mediorientale, che si traduceva in uno stato di guerra intermittente sui confini israeliani. Il politico di Maglie sostenne gli sforzi di mediazione ispirati dalle Nazioni Unite e chiese l’applicazione della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza: oltre alla libertà di circolazione nelle vie d’acqua internazionali e una soluzione al problema dei rifugiati, chiedeva a Israele di ritirarsi dai territori occupati nel 1967 affermando anche la necessità che lo Stato ebraico e gli Stati della regione ottenessero garanzie di rispetto della propria sovranità e integrità territoriale. L’Italia voleva tenere aperti canali di collaborazione con gli Stati arabi moderati, quali il Libano e la Giordania. Da ciò derivò un’inevitabile inclinazione filoaraba dell’azione di Moro, convinto che il conflitto arabo-israeliano andasse controllato procedendo ad una riduzione degli armamenti presenti nella regione. Nella primavera 1970 l’Italia presentò un progetto di embargo sulle forniture di armi ai paesi mediorientali, che doveva controllare l’afflusso degli armamenti in Medio Oriente tramite l’istituzione di una Commissione di controllo Onu, composta dai grandi Paesi produttori di armamenti pesanti: Stati Uniti, Urss, Gran Bretagna, Francia, Italia, Cecoslovacchia, Ungheria, Belgio e Svezia. La proposta italiana cadde nel vuoto incontrando lo scetticismo statunitense e delle altre grandi potenze. Una situazione molto simile maturerà a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, quando gli Usa avversavano Andreotti per la politica estera di distensione con la Russia di Gorbačëv, proprio quando negli Usa viene eletto George H.W. Bush, candidato delle potenze internazionali delle industrie di armamenti.
La politica mediorientale ispirata da Moro assunse coloriture sempre più filoarabe: paradigmatico fu il rifiuto italiano di concedere agli Stati Uniti l’uso della base di Sigonella per trasferire una fornitura di aerei F-4 Phantom ad Israele, nei primi mesi del 1971; il segretario generale della Farnesina, l’atlantista Gaja, spiegò a Washington che l’immagine dell’Italia nel mondo arabo sarebbe stata danneggiata se Roma avesse fatto da tramite per la consegna di armi ad Israele. Dopo la guerra dell’ottobre 1973, le minacce degli Stati arabi e la crisi petrolifera, in Italia il terrorismo palestinese divenne minaccioso: il 17 dicembre 1973 un attentato compiuto da un commando di Settembre nero colpì un aereo della Pan Am all’aeroporto di Fiumicino: 32 i morti. Moro decise di accentuare le posizioni filoarabe dell’Italia. Una chiara dimostrazione di ciò fu il discorso di Moro alla Commissione Esteri del Senato, il 23 gennaio 1974, in cui si pronunciò a favore dello sviluppo di un dialogo euro-arabo a tutto campo.
L’atteggiamento di Moro verso Israele era ormai più duro. Con molta nettezza il ministro degli Esteri ribadì che Israele doveva cessare l’occupazione dei territori conquistati con la guerra del 1967 senza porre condizioni. Inoltre affermò che andavano tutelati «i diritti nazionali del popolo palestinese», che cercava sia migliori condizioni economiche sia «una patria». È il salto di qualità nelle posizioni italiane sulla questione palestinese. Proprio in quegli anni matura il cosiddetto “Lodo Moro”, erroneamente ricondotto solo a Moro, mentre fu una politica sostenuta e attuata delle più alte Istituzioni italiane nel suo complesso: consentiva ai terroristi palestinesi di transitare impunemente sul nostro territorio (anche provvisti di armi) in cambio della rinuncia ad azioni terroristiche. Una prima fase informale fu gestita dai nostri Servizi dal 1969 al ‘73, su iniziativa del ministero degli Esteri e il sostegno dei dicasteri dell’Interno e della Giustizia; la seconda fase, dal 1974, più formale, fu sviluppata dalla Farnesina. The masquerade reloaded documenta che il preambolo del lodo Moro è da ricondurre all’azione di Giangiacomo Feltrinelli, il miliardario editore che alla fine degli anni ‘60 si legò a George Habash e al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, recandosi ripetutamente a Beirut, Algeri e Amman e finanziando – con il benestare sovietico – tre forniture di armi destinate alla resistenza palestinese. Nei suoi ultimi anni di vita Moro era considerato, in Italia e all’estero, uno dei politici italiani più esperti e versatili in politica estera e la sua saggezza era ricercata sul piano internazionale. I suoi scritti e interventi fra il 1976 e il 1978 mostrano come la capacità analitica di Moro in politica estera si era fortemente affinata. È probabilmente da ricondurre alla complessità del suo approccio l’ostilità mostrata da Henry Kissinger e, più in generale, dal governo di Washington, nei confronti di Moro. Il rifiuto dei metodi della politica di potenza che definirono l’approccio dello statista di Maglie in ambito estero era inconciliabile con l’«arroganza della fortuna» e del potere che, secondo la definizione di Ducci, qualificavano l’azione internazionale degli Usa di Nixon.
The masquerade reloaded documenta l’inconciliabilità tra le posizioni di Craxi e Andreotti relativamente al sequestro Moro.
Eppure, l’accordo politico intessuto dal leader Psi e dal leader Dc dopo la morte dello statista di Maglie trovò la sua massima espressione nel rinnovo dei motivi profondi della politica estera morotea. Entrambi i politici avevano fortissime ragioni per fare dell’Italia l’attore geopolitico cruciale ai fini dell’avvio di un rinnovato clima di distensione tra Est e Ovest, venuto meno per effetto dello scoppio, tra il 1977 e il 1979, della cosiddetta “seconda Guerra fredda”, provocata dalla volontà sovietica di installare i missili balistici SS20 a raggio intermedio, puntati verso Ovest, al fine di ottenere una superiorità strategica in Europa. Nel ’79, la Nato replicò installando gli “euromissili”, soprattutto sul territorio italiano, e il quadro internazionale peggiorò: a dicembre l’Urss invase l’Afghanistan, gli Usa boicottarono i Giochi Olimpici di Mosca dell’80, l’amministrazione Carter impose l’embargo sull’esportazione in Urss di prodotti agroalimentari e chimici; nel dicembre 1981, ci fu il colpo di stato del generale Jaruzelski in Polonia. Dunque, dall’agosto 1983 all’aprile 1987 Bettino Craxi Primo ministro e Giulio Andreotti Ministro degli Esteri condussero una saggia politica estera che, pur senza collocare l’Italia fuori dalla Nato, realizzò un moderato atlantismo non servile agli Stati Uniti. Le relazioni andreottiane con l’Unione Sovietica portarono il politico democristiano ad essere il primo ministro degli Esteri occidentale ad essere ricevuto a Mosca, il 23 aprile 1984, da Konstantin Černenko (Segretario del Pcus) dopo la morte del direttore del Kgb Jurij Andropov.
Nel solco di queste feconde relazioni va individuato il principale risultato dell’azione diplomatica dispiegata dal governo Craxi e che destò profonda ammirazione in Michail Gorbačëv. In aprile, il segretario del Psi, primo premier di un Paese Nato a incontrare il futuro padre della perestrojka (appena eletto segretario generale del Pcus nel marzo dell’85) aveva salutato con un’apertura di credito la proposta sovietica di dilazione sull’installazione degli SS20, che a suo avviso avrebbe dovuto indurre la Nato a formulare una controproposta valida per le sorti europee. E di prospettive europee Craxi e Gorbačëv si trovarono a discutere per quasi 4 ore, a Mosca, dove si posero le basi per lo sviluppo di irrobustite forme di cooperazione culturale, scientifica ed economica tra Italia e Urss, il cui leader ribadì il senso di appartenenza alla comune casa europea. L’attualità di quei passi diplomatici è sconcertante. Nel settembre 1985, al diplomatico italiano Giovanni Migliuolo fu conferito “l’Ordine dell’Amicizia tra i Popoli”, primo e unico capo di missione diplomatica occidentale in Unione Sovietica a ricevere tale onorificenza. La raffinatezza dell’arte diplomatica portò l’Italia a conquistarsi il centro della scena internazionale, divenendo quasi il garante del concerto non solo europeo.
Medio Oriente. Quando Antonio Badini era consigliere diplomatico di Craxi, la diplomazia italiana era la punta di lancia per la ricerca di stabilità nel Mediterraneo. Sulla scorta di una intraprendente proiezione mediterranea, l’Italia era il più attivo tra i Paesi occidentali e i nostri rapporti sia con il mondo arabo sia con Israele erano molto intensi: Craxi e Andreotti lavorarono alacremente a un progetto di Confederazione tra Giordania e Palestina. Nei primi mesi dell’85 sul progetto c’erano grandi speranze ma anche forti opposizioni da entrambi i versanti, e anche il sequestro della nave Achille Lauro, il 7 ottobre ‘85, fu ideato e attuato da un gruppo di minoranza nell’Olp contrario alla Confederazione. Ma l’Italia continuò a spingere in quella direzione e fu solo per il passo indietro del primo ministro israeliano Simon Peres a impedire a Craxi e a Re Hussein di Giordania di coronare l’operazione con successo.
Seppur ebbe il merito di ordinare il ritiro definitivo delle truppe israeliane dal Libano nell’85, Peres voleva escludere l’Olp da qualsiasi sede negoziale. E se è vero che la formula usata – «un’unione confederale di due Stati» – era giudicata ambigua dato che tentava di sintetizzare due posizioni divergenti (quella giordana di creare un’unione, con la prevalenza di Amman, e quella di Arafat istituire una confederazione libera tra due Stati indipendenti), l’accordo rappresentava l’avvio di una base politica congiunta. Se fosse andata in porto la federazione giordano-palestinese a cui lavorava Craxi, forse il Medio Oriente non sarebbe oggi preda di una guerra devastante e a quotidiani rischi di estensione del conflitto. Il 9 dicembre 1987 morirono quattro uomini palestinesi per un incidente provocato da un autotreno militare israeliano che colpì due furgoni diretti a Jabaliyya, un campo profughi di 60mila persone. Scoppiò l’Intifada (ossia la prima delle rivolte arabe nate per porre fine alla presenza israeliana in Palestina) con l’inevitabile reazione israeliana.
A differenza di ciò che accade oggi l’Europa non tacque. Il Parlamento europeo domandò a Tel Aviv di «onorare» le obbligazioni derivanti dalla Convenzione di Ginevra in materia di trattamento delle popolazioni di territori sottoposti a occupazione e sollecitò la Cooperazione politica europea a «intervenire urgentemente» presso il governo israeliano. In questa fase l’Italia ebbe un ruolo importante come membro temporaneo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il merito era da attribuire, almeno in parte, all’attivismo andreottiano. Andreotti, ministro degli Esteri del governo De Mita insediatosi nell’aprile ‘88, aveva sottoposto ai colleghi della CEE l’idea – molto attuale – di un «mandato comunitario» sui territori occupati, che non fu accolto in quanto troppo “audace”. Gli ultimi due dicasteri presieduti da Andreotti tra il luglio dell’‘89 e l’aprile ‘92 si confrontarono con eventi internazionali enormi come la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca, la guerra del Golfo, la disgregazione jugoslava e il trattato di Maastricht, che concorsero in maniera determinante a dissolvere la «prima Repubblica»: era la fine di un’epoca di politica estera italiana più che trentennale.
Sulle macerie di quella stagione, in Italia domina oggi l’atlantismo governativo più servile nei confronti di una Nato che andava sciolta con la fine del Patto di Varsavia. E l’inedita modalità con la quale, il 17 settembre, Israele ha colpito il Libano causando decine di morti e migliaia di feriti è da considerare una svolta nei conflitti del XXI secolo: centinaia di esplosioni contemporanee partite dai cercapersone usati da militanti di Hezbollah, hackerati e manomessi con le loro batterie usate come innesco. Ogni forma di connessione incistata negli oggetti della vita quotidiana e attivabile da remoto è pronta a essere usata come arma. Il test libanese è ampliabile, come è probabilmente ampliabile il ricorso alle contromisure da “cyber-minaccia”, simile al business degli antivirus creato dai virus informatici. Una prospettiva terrorizzante, perché sarebbe moltiplicata su scala incomparabilmente più estesa per ogni oggetto connesso alla Rete.
L’ossessione securitaria che a livello planetario iniziò dopo l’11 settembre 2001 creò un enorme proliferare di imprese e agenzie che promettono più sicurezza, ma che hanno divorato fette enormi dei bilanci con una tendenza a espandersi indefinitamente, erodendo la libertà dei cittadini. La maggior parte delle imprese nel settore della cyber-sicurezza di quale nazionalità è? Israeliana, ovviamente. Il ben dell’intelletto imporrebbe a Israele di ammettere che la sua vera forza deriverebbe non dagli armamenti ma dal consenso che otterrebbe dai suoi vicini se decidesse di ampliare la sua influenza nella regione con la sua capacità di creare lavoro e benessere. Le crescenti spese per la Difesa sottraggono a Tel Aviv risorse preziose per lo sviluppo e la modernizzazione del suo tessuto agricolo-industriale, che potrebbe essere allargato nella regione, infliggendo colpi alla legittimità di Hamas. Ma, a differenza di ciò che pensava Hegel, non sono i dettami della ragione a indirizzare la storia ma i brutali rapporti di forza. E il motivo per cui Israele non è messo di fronte alle sue responsabilità è che chiunque governi negli Usa garantisce a prescindere protezione indiscriminata al proprio avamposto in Medio Oriente. L’unica ragione (si fa per dire) per cui un genocidio di innocenti continua quotidianamente nel più totale spregio di ogni decenza etica minimale e di ogni diritto internazionale è che questo Stato canaglia è protetto dallo zio Sam.
Nel 1976 il segretario del Pci Enrico Berlinguer dichiarò al Corriere della Sera di sentirsi «più tutelato sotto l’ombrello della Nato». Aveva bevuto un bicchiere di troppo o stava male già allora?
Di Roberto Valtolina
21.09.2024
Roberto Valtolina. Classe ’87, scrittore e ricercatore, Valtolina ha collaborato con la firma del Corriere della Sera Ferruccio Pinotti a vari libri d’inchiesta: “Untold. La vera storia di Giangiacomo Feltrinelli”, “Attacco allo Stato” (sulle autobombe del 1993), “La ragazza che sapeva troppo” (caso Orlandi) e “Silvio ha fatto anche cose buone”. È autore con Maurizio Fiorentini di The masquerade e The masquerade reloaded, edito da Serradifalco Editore.