di Gessica Boncompagni
In occasione della recente pubblicazione per Einaudi del saggio “Il declino del desiderio”, Repubblica dedica allo psicoanalista junghiano Luigi Zoja un’intervista destinata a farci ragionare. E’ anzitutto interessante che Repubblica dia spazio al fatto che l’occidente è stanco del sesso: è, anche per la testata veicolo delle idee più progressiste della sinistra transgenica, quasi l’ammissione di una sconfitta.
Ma come? Abbiamo tanto lottato per liberare l’uomo da ogni vincolo e pastoia, vergogna e pudicizia in tema di sessualità, che adesso della libertà che abbiamo non sappiamo cosa farcene? Forse ci siamo davvero illusi che bastasse essere “liberi da”, per essere “liberi di”.
Se è così, l’errore non può che esserci fatale, diremmo con il Fromm di “Fuga dalla libertà”: chi non abbia alle spalle un sofferto e appassionato percorso d’emancipazione personale, chi non abbia in sé quella “robustezza del carattere” che si consegue solo all’indomani di una specializzata assistenza genitoriale prima, di una ricerca in autonomia a partire dall’adolescenza poi, di fronte alla libertà non può che fuggire terrorizzato. Il percorso di cui sopra, che i tecnici della psiche una volta chiamavano “dell’identità” (prima che il termine divenisse quasi interdetto), venne non a caso definito “psicosessuale” da Freud: a intendere che il conseguimento della maturità non può prescindere dall’integrazione della componente pulsionale radicata nel corpo.
Perveniamo, cioè, allo status di “adulti” solo avendo profondamento meditato sul senso e della destinazione delle sensazioni, delle emozioni, delle spinte pulsionali provenienti dal corpo, e solo dopo aver compiuto una molteplicità di operazioni psichiche al riguardo. Operazioni essenziali, che sfidano le angosce di morte che inevitabilmente s’incontrano in questo viaggio di scoperta: poiché esso implica, a volte un “mors tua, vita mea” nello scontro tra bisogni propri e altrui: “è la costellazione dell’Edipo, bellezza!”
A questo punto i lettori più progressisti obietteranno: “Ma Freud era figlio di un tempo in cui ancora i generi erano nettamente delimitati, il tempo del patriarcato: in esso la società ancora dettava norme schiaccianti che appiattivano la libertà d’ognuno sul genere d’appartenenza. Roba passata!” E hanno ragione: tuttavia… il sofisticato intrico tra sesso, genere e identità, che implica biologia metastorica e cultura, non si lascia semplicisticamente liquidare come vorrebbero i nostri desideri. Tant’è che, per un beffardo “ritorno del rimosso”, una società talmente avanzata da ripudiare persino il concetto di genere come significativo per l’identità si ritrova a fare i conti con un corpo denegato (dunque anche con profonde esigenze psichiche, che da esso scaturirebbero, denegate), che manifesta le sue bizze attraverso la mancanza del desiderio.
A ragione, nel suo libro Zoja asserisce: “La sessualità è uno degli indicatori della “società aperta”. Data la sua importanza, ci chiediamo se, di fronte alle aperture totali, l’uomo possa ritirarsi sgomento come uno scalatore che, arrivato in alto, si spaventa per l’abisso che proprio lui aveva voluto sfidare.”
L’abisso è rappresentato dai due fenomeni denunciati nell’intervista: nuove tecnologie che a un tempo assediano, dematerializzano, derealizzano il mondo interno e l’epocale cambiamento dei costumi e del modo d’intendere codici e norme relative alla sessualità di cui abbiamo già accennato, tra le quali sfavilla la fluidità di genere. Le prime forniscono panorami talmente fitti di modelli e di proposte, tra pornografia e cataloghi di potenziali partner amorosi su Tinder, in cui ci si perde, finendo per fare la fine dell’”asino di Buridano”. Come avverte Zoja, il mondo virtuale depaupera l’immaginario fornendo modelli vuoti e “ready to use”, tutti fondati sul primato dell’immagine esteriore, da vendere e consumare sul mercato sociale. La dimensione dell’interiorità, della profondità, della sedimentazione delle esperienze ne è esclusa, non foss’altro perché, in realtà, in rete non si fanno esperienze “reali”, ma si traffica con rappresentazioni del mondo che si suppone siano la realtà. Dalla rete è bandito il rapporto, in rete si hanno solo, nella migliore delle ipotesi, “relazioni”, cioè “traduzioni” in linguaggio di rapporti che potrebbero avvenire, ma non avvengono. Potremmo dire sia il rapporto il grande assente, il segreto motore ossessivamente ricercato in rete. La rete è forse così veloce perché, nutrendo gli internauti d’immagini o relazioni vuote, li affama sempre più e li costringe a una consultazione complusiva, come una droga.
Il secondo fenomeno è quello dell’indebolimento dell’identità di genere, o della fluidità sessuale, che l’intervistatrice chiede non sia “una ventata di libertà, una spallata ai vecchi schemi patriarcali e maschilisti”. Zoja chiarisce che, nonostante la libertà di qualsiasi minoranza, ovviamente riferendosi a quella omosessuale, sia sempre una conquista, l’indebolimento dell’identità di genere sta creando un certo disorientamento. Tanto è vero che, accanto all’aumento delle richieste di transizione di sesso, assistiamo all’aumento delle richieste di de-transizioni.
Fino a qui mi trovo, sia come clinico che come studiosa di psicologia e psicoanalisi, in accordo con Zoja, anzi chiarirei ancor meglio il concetto: l’identità di genere è un complesso costrutto bio-psico-social-culturale che colloca, significa e valorizza istanze profonde biologiche e pulsionali nell’appartenenza a un dato sistema sociale. Il fatto che il modello tradizionale avesse problemi da superare non giustifica la completa ricusa, né l’avvilente svalorizzazione del maschile e del femminile cui assistiamo ora. So che sarò invisa a una moltitudine di lettori, ma lo dico: i ruoli, connotati dalla sessualità, avevano un loro fondamento e una possibilità di appagare chi li svolgesse.
Facciamo un esempio: la donna può dare la vita, solo lei può. Così come può allattare. Per trasposizione simbolica era divenuta nei secoli colei che nutriva, dunque si occupava di preparare i pasti, curare e sostenere la vita, fisica ed emotiva, della famiglia, e allevare i figli mediante un’assistenza pressoché continua nei loro primi anni. Fortunatamente la “palette” dei ruoli femminili si è ampliata a includere altre mansioni, ma la svalutazione di questi compiti “ancestrali” non sembra aver portato grandi soddisfazioni: manchiamo tutti di quel sostrato “materno” che ci avrebbe consentito di “toccar terra” (dunque di non volatilizzarci così facilmente nell’empireo dei mondi virtuali) e di conoscere noi stessi con maggior cognizione di causa, essendo invece stati affidati alle cure del personale degli asili nido. E le donne, le madri… raramente conoscono davvero i loro figli, poiché non hanno potuto assistere in prima persona la formarsi delle prime frasi, dei primi gesti ideosincratici, delle prime soluzioni di temperamento unico e irripetibile ai problemi della vita da parte del loro figlio. Poiché poi spesso non hanno un padre accanto e si trovano a dover svolgere anche mansioni paterne, avranno non poche difficoltà: come può la madre, che per definizione dev’essere accogliente e oblativa, accettante senza riserve il bambino dei primi anni, avere una qualche credibilità nel momento in cui si trova a porre limiti? Un tempo era il padre, esponente della realtà e del mondo estero, a farlo.
Esco dalla polemica, so che ne pagherò le conseguenze. Ad ogni modo un tempo l’uomo, che aveva una parte femminile, perché ognuno di noi che reca in sé maschile e femminile, affidava quella parte alla donna e la viveva in lei; la donna affidava all’uomo la sua parte maschile e la viveva in lui. Così, il “miracolo” dell’amore consentiva di viversi una completezza, come suggerito del mito dell’androgino. Il nuovo modello sociale dell’intercambiabilità dei partner, affidata al capriccio pulsionale, non consente nemmeno quest’esperienza, che per essere introiettata e goduta necessita dei tempi lunghi di un profondo scambio tra i partner.
Tornando all’intervista, la denuncia delle difficoltà del modello dell’identità fluida condotta da Zoja mi trova pienamente d’accordo con lui. Non riesco invece a validare la sua asserzione relativa al fenomeno del “maschilismo di ritorno” cui si assisterebbe in questi anni. Il fatto che lo definisca “di ritorno” indica, e su questo concordo, che il modello orami dominante non sia più quello. Il vero indicatore dei tempi mi sembra infatti essere un maschile sotto attacco da tutti i fronti: temuto, svalorizzato, devitalizzato.
Se in passato, come indicò lo psiconalista Claudio Risé, che alla rivalutazione del maschile dedicò parecchio lavoro, vigeva la mitologia dell’uomo “pene-automobile-portafoglio”, un modello rigido e mortificante la ricchezza potenziale del sentire del maschio, cui venne contrapposta la categoria del “maschio soffice” a partire dagli anni Settanta, oggi si punta al “pari ruolo, pari mansioni”, quando non alla già citata fluidità. Si punta, cioè, all’irrilevanza per l’identità del genere d’appartenenza.
Premesso che proporre la fluidità di genere avrà come conseguenza l’ancor più lunga e difficile moratoria psicosociale degli adolescenti, che oggi dura già fino a quasi trent’anni… lo svanire della valorizzazione del “bello di essere maschio” (così come quella del “bello di essere femmina”) costituisce un danno culturale. Ne sono comprova la difficoltà dei nostri ragazzi ad appropriarsi di tratti un tempo indicati come desiderabili nel “set” dell’uomo di valore come il coraggio, la forza d’animo, la capacità di mettersi a repentaglio per difendere un ideale, la generosità dedita, la statura morale, la resistenza alla fatica, l’etica del lavoro. Caratteristiche che, lo sappiamo, quando escono dal vocabolario che li indicava come valori diventano “lost in translation”, conquiste difficili da ottenere perché la cultura lascia i ragazzi soli nel conseguirle.
Anziché parlare di patriarcato come si va facendo oramai ossessivamente, io vedo invece un ubiquitario nuovo “matriarcato”, cioè un potere gestito dalle donne, in famiglie che giocoforza ad esse spesso si devono affidare, dati i tanti divorzi che ci sono, e in coppie paritarie dove invece, di fatto, è la madre ad assumere ruolo rispetto ai figli, circa i quali il padre comincia ad affidarsi parecchio alla sensibilità della partner per modellare un ruolo maschile sfumato che è culturalmente nuovo, “non più patriarcale”, dunque incerto.
La cultura stessa è divenuta “matriarcale”, ha obliterato i concetti più “paterni” del limite, del dovere, dell’esame di realtà. Il modello maschilista di ritorno viene visto come proposto, per Zoja, dalla pornografia che mostra maschi in perenne erezione e donne eternamente disponibili. Al netto della domanda che dovremmo porci circa la liceità di vedere ovunque e con estrema facilità questo tipo di contenuti, io mi chiedo cos’altro dovrebbe rappresentare un film di questo tipo: com’è il sesso dell’immaginario, delicato? La sessualità non avverrebbe affatto, qualora bandissimo da essa la componente aggressiva di entrambi i partner e quella passiva della disponibilità femminile. Di questo passo davvero arriveremo a censurare e magari proibire, poiché non “politically correct”, la stessa meccanica dell’atto sessuale, come peraltro preconizza il delizioso, sfrontato e geniale romanzo di fantascienza fresco di pubblicazione di Riccardo Paccosi “2051: incontri distanziati del quarto tipo”.
L’altra asserzione da prendere in esame criticamente è quando si sostiene che “il neopopulismo stile Trump, Bolsonaro, Putin si sovrappone a questo maschilismo piuttosto rozzo. Il crollo delle sinistre si può leggere anche in quest’ottica.” Il popolo italiano avrebbe dunque a destra perché nostalgico di una maschilità “rozza”? O ancora: “Ha indebolito il gradimento della sinistra agli occhi del popolo la difesa dei trans, degli omosessuali. Si tratta di attacchi pretestuosi e la società non è certo minacciata da minoranze che restano a percentualmente a tutt’oggi irrilevanti ”. Condivido, la società non è certo minacciata da questa come da altre minoranze. Ma credo che, perlomeno dal mio osservatorio, essa non si senta affatto tale: il problema stesso della “paventata minaccia” è una montatura, ben pochi siano coloro che oggigiorno vedono ancora negli omosessuali “il nemico”. Ciò che invece spaventa è l’ideologia che, fingendo di difendere gli omosessuali (che vanno senza dubbio difesi) sta demolendo le categorie stesse del femminile e del maschile, destrutturando talmente a fondo il concetto stesso di incontro con l’altro alla base della sessualità e della generatività da svaporarne il significato. Con l’ovvio risultato del calo del desiderio denunciato da Zoja stesso.
L’ideologia dominante vorrebbe eradicare eros dalla terra, e con la falsa scusa di difendere i deboli giunge a legittimare il trionfo della tecnica sui corpi, sulla generazione, sulla nascita, sulla discendenza… sino a brevettare i suoi nuovi uomini, non nati da rapporto sessuale. Metter mano alle logiche sottese all’amore significa impadronirsi delle logiche sottese alla vita stessa. “OGM anche noi, perché no?”.
“Non c’è il rischio che i reazionari cavalchino questi argomenti?”, chiede la giornalista. E Zoja risponde che sì, il rischio c’è. “Alle origini del nazismo e della repubblica di Weimar c’è anche il rifiuto di una libertà percepita come eccessiva e decadente”.
Questa frase è vittima di un errore che non aiuta, ma limita il pensiero di chi legge, lo paralizza e lo chiude, convincendolo che la reazione al libertarismo debba giocoforza essere un nuovo totalitarismo. Sarebbe cioè la paura, a muovere la nascita di “nuovi nazisti”.
In realtà, aiuterebbe di più allargare lo sguardo: quale società è, quella di cui questi “fascisti” avrebbero terrore? E’ davvero la libertà, che essi rifiuterebbero, rifugiandosi in un ripudio della democrazia?
Mi piacerebbe, una volta tanto, riuscire a sottrarmi dal pensiero dicotomico “attacco/fuga”, paura/reazione, nemico/amico. Forse, il problema della nostra “società in decadenza”, non è nemmeno quello dell’eccesso di libertà; magari si tratta invece di uno scardinamento delle logiche che hanno sorretto l’aggregazione umana nei secoli, cui non siamo emotivamente né biologicamente attrezzati: una “pseduospeciazione” i cui frutti non sono prevedibili, poiché trattasi di “ingegneria sociale” al servizio, tanto per cambiare, di interessi economici e di potere troppo più grandi di noi. Auspicabilmente, gli “apocalittici” potrebbero, anziché divenir nazisti, diventare ideatori di principi, norme e valori d’orientamento e devozione al servizio di una vita meno alienata, più vicina alle reali necessità dell’uomo e rispettosa della sua natura profonda.
Tra le cause della disaffezione all’eros, Zoja denuncia a ragione l’irreversibile “desacralizzazione del mondo”. L’eros non ha più la maiuscola del dio cui era intitolato, ecco perché per gli uomini non significa più niente.
Ritrovare la sacralità di eros non è in realtà impresa impossibile, nemmeno per un laico. Qualora si tornasse a investire d’emozione la vita, a rispettarla nel suo irriducibile mistero, allora ci si potrebbe anche stupire per il trionfo sulla morte che costituiscono la bellezza di una donna, di un uomo.
Ma fino a quando i corpi e le menti saranno ridotti a territorio di dominio per la tecnica, il senso del sacro, e con esso il rispetto per la sacralità inviolabile del corpo e dei suoi limiti, saranno irrimediabilmente perduti.
Gessica Boncompagni
FONTE: https://www.sollevazione.it/2022/11/stanchi-del-sesso-estranei-alla-vita-di-gessica-boncompagni.html