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Di Alessandro Guardamagna e Swordfish

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Agenti di polizia in tenuta anti sommossa caricano e buttano per terra una manifestante durante le proteste per la morte di George Floyd, Washington, D.C., 31 Maggio 2020

George Floyd è morto lo scorso 25 Maggio mentre era in custodia della polizia di Minneapolis. Afroamericano di 46 anni, Floyd era stato inizialmente fermato sotto l’effetto di sostanze stupefacenti in seguito ad una segnalazione per uso di banconote false fatto da due commessi di un negozio dove Floyd aveva comprato sigarette. Nella segnalazione Floyd era stato decritto come visibilmente “ubriaco” e “fuori controllo”. Trovato nella sua auto l’uomo è stato trascinato fuori e ammanettato. Lo si vede in un video che cammina a fatica mentre un poliziotto lo fa appoggiare ad un muro. Successivamente è inquadrato sdraiato per terra con un agente che per 8 minuti e 46 secondi gli teneva le ginocchia sul collo e sulla schiena; dopo aver ripetutamente implorato perché non riusciva a respirare alla fine perde il controllo delle sue funzioni corporali e il suo cuore cede. Ormai esanime, verrà caricato su una barella. Un’autopsia preliminare ha rilevato che Floyd non sarebbe morto per strangolamento o asfissia, ma per una serie di concause. L’essere trattenuto forzatamente, combinato alla cardiopatia ipertensiva di cui soffriva e all’uso di sostanze intossicanti avrebbe determinato un collasso cardiocircolatorio che lo porta alla morte. Il video che ne ritrae l’arresto e la morte ha fatto il giro del mondo.

Il 27 Luglio 2014 Eric Garner, afroamericano di 44 anni, arrestato più di 30 volte dal 1980 per furto e vendita illegale di sigarette fu fermato dalla polizia a Staten Island per un controllo. Ne scaturì un alterco dove Garner venne immobilizzato al collo da un agente. Mentre si trovava sul marciapiede a faccia in giù con più agenti che lo trattenevano, Garner ripeté ben 11 volte “Non riesco a respirare!” prima di perdere conoscenza. Gli agenti lo voltarono allora per facilitare la respirazione e altri sette minuti passarono prima dell’arrivo di un’ambulanza. Verrà dichiarato morto in ospedale circa un’ora dopo. Le modalità che portarono alla sua morte sono molto simili a quanto accaduto a Floyd. Fra i poliziotti che fermarono Garner vi era un sergente di polizia di origine afroamericana e un altro agente non bianco.

Il 9 Agosto 2014 Michael Brown viene raggiunto da sei colpi di arma da fuoco sparati da un agente di polizia a Ferguson, Missouri, un sobborgo di Saint Louis. Brown, afroamericano di 18 anni, era sospettato di un furto commesso pochi minuti prima che la polizia lo intercettasse insieme ad un amico. Dal momento in cui Brown fu fermato e tentò di resistere all’arresto fino all’inseguimento che si concluse nel tragico epilogo trascorsero in tutto 90 secondi. La colpevolezza di Brown nel furto segnalato sarà successivamente confermata. 

Il 18 gennaio 2016, Daniel Shaver, bianco di 26 anni, venne freddato da una scarica di AR15 da un agente di polizia in un hotel a Mesa, Arizona. Gli agenti durante una perquisizione alla ricerca di un fucile, che si scoprirà successivamente essere ad aria compressa ed utilizzato in operazioni di pest control fanno irruzione nella stanza di Shaver, incensurato, che in breve si ritrova a carponi nel corridoio. Il suo tentativo di aggiustarsi la cintura viene preso come una mossa per raggiungere un’arma che non ha da un agente che gli spara una raffica di 5 colpi uccidendolo sul colpo. L’intera sequenza è ripresa in un video. Successivamente l’agente Philip Brailsford sarà prosciolto dall’accusa di omicidio. 

Il 25 Giugno 2016 la polizia di Fresno, California, spara e uccide Dylan Noble, bianco di 19 anni. Il ragazzo viene fermato e scende dal suo pick-up ad una stazione di benzina. Avanza verso i poliziotti che gli puntano contro le armi spianate e tiene una mano dietro la schiena. A quel punto un agente gli spara quattro volte uccidendolo. Anche l’uccisione di Noble viene filmata in un video molto chiaro. In seguito si scoprì che il ragazzo era disarmato.

Affermare che uno, il cui collo è stato schiacciato per 8 minuti, muore non per asfissia, ma per un collasso cardiocircolatorio non significa niente in un contesto come quello che ha portato al decesso di Floyd. E non significa niente perché anche se ti sparo ti posso causare un collasso cardiocircolatorio che normalmente non avresti. Quindi è ovvio che Floyd può ben essere morto per una serie di concause, ma è altresì innegabile che se non vi fosse stato l’agente Derek Chauvin a schiacciargli con le sue ginocchia il collo per 8 minuti, la serie di concause non ne avrebbe determinato la morte.

Altra cosa che si osserva è che le uccisioni di afroamericani, con esclusione inizialmente del caso di Garner, portarono da subito la rivolta nelle strade e il saccheggio, mentre quelle dei bianchi no. Eppure le morti di Shaver e Noble, riprese in video, sono state non meno crudeli, violente e gratuite di quelle di Floyd o Brown, che aveva comunque commesso un crimine e cercava di farla franca. Shaver e Noble erano giovani incensurati, disarmati, che sono stati fermati e uccisi a colpi di fucile automatico, senza che avessero opposto resistenza, a differenza degli afroamericani con l’eccezione di Floyd.

Il video della morte di Shaver fa rabbrividire. Falciato da una raffica di AR15 mentre a carponi implora “Non sparate!” (“Don’t shoot!”), la stessa frase che avrebbe pronunciato il giovane Brown e divenuta uno dei motti del movimento Black Lives Matter. Curioso che non vi siano testimoni che abbiano confermato che Brown pronunciò tali parole prima di essere colpito, per altro normali date le circostanze. Shaver ha bevuto e forse per questo, anche se risponde prontamente, fatica ad eseguire gli ordini che gli vengono urlati come presa in giro da poliziotti bianchi. La prima cosa che costoro gli dicono in modo perentorio è “C’è un’alta probabilità che ti spareremo”, e lo minacciano diverse volte. Alla fine, mentre è impotente al suolo e non potrebbe far male neppure se volesse, uno gli spara. E’ un’esecuzione.

Pochi giorni dopo l’uccisione di Noble, i cui amici vennero irrisi dai media perché ricordando la morte del giovane dissero che anche le vite dei bianchi contano (“White lives matter”), l’America conosce una nuova serie di proteste nelle strade e si leva un’ondata di sdegno quando il 5 Luglio a Baton Rouge la polizia uccide un afroamericano, armato e sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Il giorno dopo a Falcon Heights nel Minnesota un poliziotto di origine ispanica fredda con 5 colpi di pistola un altro afroamericano durante un controllo. L’uomo aveva un regolare porto d’armi e lo aveva dichiarato, mentre secondo l’agente stava tentando di prendere l’arma nonostante gli fosse stato intimato di non farlo. L’uccisione di Noble passa invece sotto silenzio, come niente fosse e come quella di Shaver rimane un episodio di secondo piano e sicuramente non destinato a suscitare l’indignazione di neri che minacciati dalla polizia reagiscono mettendo a soqquadro interi quartieri in compagnia di bianchi che solidarizzano con loro.

Quando la polizia spara e vi è una vittima di colore, si finisce per presumere che la morte sia stata determinata da motivi di discriminazione razziale. In realtà il presupposto dato per scontato che i poliziotti bianchi intendano deliberatamente uccidere i neri è privo di fondamento. Questo non toglie che vi siano anche poliziotti razzisti, ma la motivazione di sistematico odio razziale dove troverebbe un riscontro? In quali dichiarazioni, direttive o fatti? L’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee faceva osservare nel 2015 che quell’anno “la polizia ha sparato ed ucciso molti più bianchi che appartenenti ad altre minoranze”. E per affermarlo era sufficiente guardare i dati.

Nel 2015, il Washington Post, sulla scia della morte del giovane Michael Brown, inaugurò un programma finalizzato a tenere traccia delle sparatorie della polizia americana in cui vi erano state vittime. I casi riportati includono sia i semplici fermi, che le operazioni vere proprie tese ad impedire un crimine o ad arrestarne i responsabili.

Il quadro che emerge può essere criticabile in quanto un giornale appartiene ad un padrone, in questo caso Jeff Bezos, amministratore delegato di Amazon, uno degli uomini più ricchi d’America e non necessariamente sostenitore dell’attuale amministrazione della Casa Bianca. E’ quindi naturale presumere che l’indagine cerchi di fornire una precisa visione degli eventi e non i semplici fatti, ma la ricerca rimane indicativa di una realtà che stride con quella che viene presentata in questi giorni dai media mainstream.

In primis le sparatorie avvengono in ogni stato e si verificano più frequentemente nelle città in cui la popolazione è concentrata. Gli Stati con i più alti tassi di sparatorie sono il New Mexico, l’Alaska e l’Oklahoma. I dati raccolti, tratti principalmente da notizie, post sui social media e rapporti di polizia, rivelano che il numero e le circostanze delle sparatorie mortali e la demografia generale delle vittime sono rimasti sostanzialmente costanti negli anni.

La polizia ha ucciso circa un migliaio di persone ogni anno e i dati da quando Trump è diventato presidente non differiscono sostanzialmente da quelli dell’era Obama. Questo può essere spiegato logicamente se si considera che l’accadimento di determinati eventi in una data popolazione tenderà a rimanere stabile in assenza di importanti cambiamenti sociali, come una trasformazione fondamentale nel modo in cui operano le forze dell’ordine, o l’introduzione di restrizioni sul possesso ed utilizzo delle armi da fuoco.

Un altro aspetto che emerge dai dati è che sebbene la metà delle persone colpite e uccise dalla polizia siano bianche, le vittime di colore sono ad un livello sproporzionato rispetto alla popolazione nera degli USA. Infatti i neri uccisi dalla polizia sono in percentuale il doppio rispetto agli americani bianchi, anche se rappresentano meno del 13% della popolazione degli Stati Uniti.

Alcuni dati:

994 persone uccise nel 2015. 497 bianchi, di cui 32 disarmati. 258 neri, di cui 38 disarmati.

962 persone uccise nel 2016. 465 bianchi, di cui 22 disarmati. 234 neri, di cui 19 disarmati.

986 persone uccise nel 2017. 459 bianchi, di cui 31 disarmati. 224 neri, di cui 22 disarmati.

992 persone uccise nel 2018. 451 bianchi, di cui 23 disarmati. 229 neri, di cui 17 disarmati.

1004 persone uccise nel 2019. 371 bianchi, di cui 20 disarmati. 236 neri, di cui 10 disarmati.

429 persone uccise fino al 2 Giugno 2020. 173 bianchi, di cui 10 disarmati. 84 neri, di cui 3 disarmati.

Quello che invece i dati non dicono – le cause – lo si può comprendere guardando le condizioni di vita della popolazione di colore.

Gli afroamericani oggi sono molto più istruiti di quanto non fossero 50 anni fa, ma lo sono complessivamente meno rispetto ai bianchi.

Oltre il 90% degli afroamericani ha oggi un diploma di scuola superiore, una percentuale doppia rispetto al 1968, il che significa che è stato quasi colmato il divario che li separava dai bianchi nell’accedere e completare l’istruzione superiore. Nonostante un nero abbia oggi il doppio di probabilità di avere una laurea rispetto ad un suo coetaneo nel 1968, ha molte meno probabilità di ottenere una laurea rispetto ai suoi coetanei bianchi.

I progressi sostanziali nel livello dell’istruzione degli afroamericani sono stati accompagnati anche da significativi miglioramenti nelle retribuzioni, nel reddito e nelle condizioni di salute rispetto al 1968. Tuttavia gli afroamericani hanno 2,5 volte probabilità maggiori di vivere in condizioni di povertà rispetto ai bianchi, e la famiglia bianca media è molto più ricca della famiglia nera media. A questo contribuisce anche il fatto che molto spesso le famiglie di colore vedono la presenza di un solo genitore. Nel 1965 il 24% dei neonati neri e il 3,1% dei neonati bianchi erano cresciuti da madri single. Nel 1990 i tassi erano saliti al 64% per i neonati neri, e al 18% per i bianchi. Nel 2014 la percentuale per gli afroamericani era del 72.5%. Ogni anno più di un milione di bambini nasce in famiglie senza padre e avere un solo genitore aumenta enormemente le probabilità di crescere e vivere in povertà.

Per quanto riguarda invece la proprietà della casa, la disoccupazione e l’incarcerazione, gli ultimi 50 anni non hanno visto miglioramenti per gli afroamericani. Qui la loro situazione in certi casi è peggiorata. Nel 2017 il tasso di disoccupazione nero era pari al 7,5%, in aumento rispetto al 6,7% del 1968, e pari circa al doppio del tasso di disoccupazione dei bianchi. Nel 2015 i neri che possedevano una casa di proprietà erano circa il 40%, come nel 1968. E’ invece quasi triplicata la percentuale di afroamericani detenuti tra il 1968 e il 2018 ed è attualmente più di sei volte superiore al tasso di detenzione dei bianchi. A questo punto verrebbe da chiedersi se in tutti gli stati vi siano giurie razziste a condannare i neri a pene detentive, oppure se a portarli in cella non sia un maggiore tasso di criminalità presente nelle comunità di colore per motivi legati alle condizioni di vita, a povertà diffusa e a famiglie disgregate, e che risulta assai maggiore rispetto ai quello dei bianchi. Questo spiega il fatto di essere percentualmente coinvolti in reati più frequentemente dei bianchi, e di avere proporzionalmente un numero di vittime elevato negli scontri con la polizia.

La discriminazione di cui sarebbero vittima gli afroamericani sembra il continuum di quella denunciata ai tempi della guerra in Vietnam, quando il movimento che si opponeva al conflitto affermava che mandare “i negri in prima linea” era una decisione del governo bianco per ripulire i ghetti e liberarsi del radicalismo nero.

I neri rappresentavano circa l’11% della popolazione USA alla metà degli anni ’60 e tale percentuale era sostanzialmente rispecchiata nell’esercito. Nel 1966 i neri arruolati nell’esercito erano il 12,6%. Nel periodo 1965-1967 però il 23% dei caduti in Vietnam erano uomini di colore. Nell’atmosfera della lotta per i diritti civili e di fronte alla crescita del movimento per il Potere Nero il divario fra gli arruolamenti e le morti rafforzava in certi strati dell’opinione pubblica l’idea che la “guerra dell’uomo bianco” fosse combattuta sulla pelle dei neri. In realtà la questione non aveva niente a che vedere con pregiudizi razziali. La maggioranza dei neri americani riceveva allora solo un’istruzione approssimativa, e questo a causa sia della discriminazione che vigeva ancora in certi stati, che di una diffusa miseria che colpiva la popolazione di colore. Restava il fatto che poche reclute di colore erano in grado di superare gli addestramenti per entrare nei corpi specializzati e mediamente i ragazzi neri non avevano molte probabilità di accedere all’istruzione universitaria ed ottenere un rinvio alla chiamata alle armi. Come diretta conseguenza un numero sproporzionato di neri rispetto ai bianchi finiva nelle unità combattenti, dove le necessità di una specializzazione erano minori. Nel1967 il 20% dei soldati nelle unità combattenti erano di colore ed in alcune unità, come le truppe aviotrasportate, la percentuale arrivava al 45%. Così le perdite salivano in proporzione. L’ingiustizia sul campo di battaglia nasceva sulla scia di una ingiustizia sociale di vecchia data in patria, di difficoltà economiche, ma non da una volontà sistemica di discriminazione razziale.

Oggi un numero di afroamericani proporzionalmente assai superiore ai bianchi è disoccupato, o coinvolto in attività criminali. Questo è ancora un retaggio della povertà che affligge molte comunità nere e che porta gli afroamericani a scontrarsi con le forze di polizia. E’ quindi inevitabile che gli afroamericani che si ritrovano vittime nelle sparatorie siano percentualmente più numerosi dei bianchi quando messi in relazione alla popolazione USA. Dalla sua nascita la società americana si è sempre fondata sul concetto di inclusione e di esclusione, di chi poteva chiamarsi americano e di chi non lo era, e coloro che più a lungo sono stati esclusi – i neri – sono quelli che maggiormente ne vengono colpiti. Questo, unito all’incapacità di fare il proprio lavoro e alla stupidità di coloro che hanno ammanettato e maltrattato Floyd fino a causarne la morte, sono spesso la causa delle morti degli afroamericani più di qualsiasi pregiudizio razziale che risiederebbe nella polizia come istituzione. Vi è invece da parte della polizia americana un uso eccessivo della forza. Ad esempio nei primi 24 giorni di Gennaio 2014 vi furono 59 incidenti con esiti mortali che coinvolsero le forze di polizia USA. Nel Galles e nell’Inghilterra se ne contarono 55 in un periodo di 24 anni dal 1990 al 2014. Questo è un altro aspetto del problema. Alcuni sostengono che vi sia una violenza endemica negli stati di più recente formazione, come USA ed Australia, ma il paragone non regge. In Australia, infatti, tutte le sparatorie della polizia sono soggette al monitoraggio nazionale per legge a differenza di quanto accade in USA, e mentre la popolazione degli Stati Uniti è quasi 14 volte quella dell’Australia gli Stati Uniti hanno un tasso di omicidio intenzionale pro-capite cinque volte superiore. In ogni caso l’uso eccessivo della forza non viene orientato contro i neri, ma investe tutti coloro che sono coinvolti in operazioni con le forze di polizia, indipendentemente dalla propria origine o colore.

Nella visione della riforma della giustizia promessa da Joe Biden, candidato democratico alle elezioni presidenziali di quest’anno, madri e padri di bambini di colore non dovranno più temere quando i loro figli “camminano per le strade d’America” – la presunta minaccia proverrebbe quindi dai poliziotti, non dai criminali. Anche l’ex-presidente Barack Obama ha affermato durante la cerimonia per commemorare i cinque poliziotti uccisi a Dallas nel 2016 da un assassino ispiratosi ai Black Lives Matter che i genitori neri avevano ragione a temere che i loro bambini potessero essere uccisi dalla polizia ogni volta che uscivano dalla porta di casa.

In realtà un recente studio – e non l’unico del genere – pubblicato negli Atti della National Academy of Sciences demolisce la narrativa politicamente “corretta” e di matrice democratica riguardante le sparatorie a sfondo razziale che vuole gli agenti bianchi coinvolti in un’endemica serie di azioni per uccidere uomini di colore. Si scopre che i poliziotti bianchi non hanno più probabilità di sparare e uccidere civili afroamericani di quanta ne abbiano poliziotti di colore. Infatti è il tasso di criminalità violenta di un gruppo razziale o etnico che determina episodi in cui viene coinvolta la polizia, non la razza o etnia di origine del poliziotto. Quello che accade è che negli USA quando agenti di polizia incontrano più frequentemente sospetti violenti di un determinato gruppo razziale, maggiore è la probabilità che i membri di quel gruppo razziale rimangano vittime durante un confronto che degenera. Questo ancora una volta conferma e completa il quadro tracciato dalla ricerca del Washington Post.

Ma noi viviamo in una società dove tutto viene spettacolarizzato, ed utilizzato per imporre una narrazione che parte dai fatti per creare visioni e consumi, non necessariamente per discutere e risolvere oggettivamente problemi o migliorare la vita di chi li affronta.

Ed ecco allora che il sindaco di San Francisco London Breed, afroamericana, dichiara pochi giorni fa ad una folla esultante “Sono arrabbiata. Sono ferita. Sono frustrata. Sono schifata e stanca di essere schifata e stanca. Non voglio vedere un altro uomo di colore morire per mano delle forze dell’ordine”. Il suo attacco alle istituzioni tralascia però che lei rappresenta le medesime istituzioni in una città dove i senza tetto di colore vivono a mucchi in strada da anni, e sono stati bellamente ignorati e spesso lasciati morire dove si trovavano nell’emergenza del coronavirus.

E il delirio globalista di matrice democratica non si ferma, come testimoniato la settimana scorsa quando l’Irish Times pubblica un articolo in cui i fatti di Minneapolis vengono accostati alla vicenda di Dominic Cummings, consulente di Boris Johnson e non eletto da nessuno, che ha ammesso di aver violato le regole del lockdown in due occasioni. Le azioni di Cummings sarebbero condizione moralmente necessaria e politicamente sufficiente perché l’intero esecutivo britannico si dimetta e con lui anche Trump. Infatti, sostiene l’autrice dell’articolo, “La tossicità nel cuore dell’America è il razzismo. È un paese pieno di bianchi che non hanno mai affrontato il fatto che le loro cosiddette “libertà” e il potere economico del loro paese fossero costruite sulla schiavitù”. Servirebbe ricordare all’autrice che il confronto sulla schiavitù in USA portò ad una guerra combattuta fra il 1861 e il 1865, e, per quanto imperfetto negli esiti, sia stato brutale e avvertito da tutti?

La buona notizia è che c’è una via d’uscita, continua. “Nel corso della storia, gli imperi cadono, le società implodono. Ma il processo di ricostruzione può avvenire solo se c’è un periodo di profonda auto riflessione, un riconoscimento reale e onesto di chi sei e perché”.

Questo “movimento” di rivendicazioni e principi, che vede manifestanti invocare giustizia con cartelli in cui troneggia la scritta Black Lives Matter mentre prendono d’assalto negozi nella 5th Avenue a New York, di ideale sembra in realtà avere assai poco. Se avesse a cuore le vite dei neri come afferma a tutto il mondo non è chiaro perché non sia mai sceso in piazza a protestare quando nei sobborghi di Chicago o Detroit le gang di colore si massacrano senza remore alcune.

Nel 2018 7.407 afroamericani sono stati vittime di omicidi negli USA. Se togliamo i 229 uccisi dalla polizia rimangono 7.178 persone che hanno perso la vita. Uno studio dell’Università di Harvard presentato nel 2015 dimostra come la maggioranza degli omicidi ha perpetratori che appartengono allo stesso gruppo etnico. 

Per i neri la percentuale di coloro che compiono omicidi all’interno delle proprie comunità risultava del 93% nel periodo 1980-2008 (p.6). Mantenendola costante – accostamento realistico se si considera che le caratteristiche della società americana non sono sostanzialmente cambiate nel frattempo – significa che 6.675 afroamericani sono stati uccisi nel 2018 da altri afroamericani, una percentuale quasi 30 volte superiore ai 229 morti causati da incidenti con la polizia nello stesso anno. Nessuno dei Black Lives Matter, delle celebrità di Hollywood, degli intellettuali o politici di estrazione democratica che ora si indignano senza posa per la morte di Floyd in patria e nel mondo o danno fuoco alla città americane, ha mai aperto bocca o acceso pubblicamente un cero per manifestare la sua solidarietà di fronte alle migliaia di morti afroamericani vittime della violenza omicida di altri afroamericani. Strano modo di considerare importanti le Black Lives.

Violenza a parte, per stile e coerenza i Black Lives Matter ricordano le sardine che parlano di antifascismo e finiscono per scendere in piazza per sostenere Soros e il globalismo, che non è guidato da filantropi democratici come alcuni amano credere. Chi ora indirizza la protesta nelle strade afferma di voler fermare lo shock dell’oltraggio dovuto all’ultima morte plateale di un afroamericano ucciso dalla polizia e ricostruire un nuovo sistema di giustizia, e lo fa invitandoci a guardarci allo specchio sullo sfondo dei bagliori degli edifici a cui è stato appiccato fuoco. Mentre lo facciamo dovremmo anche osservare che se muore un nero nei mesi che precedono le elezioni negli USA si mobilita il globalismo su input del partito democratico, mentre se sparano ad un bianco nessuno dice niente? Chissà perché?!

Quello che accade in questi giorni è la manipolazione di masse ad opera dei media che appagano alcuni istinti tesi all’autoassoluzione dell’inciviltà, vista come inevitabile e giusta conseguenza di un sistema creato dai bianchi che discrimina solo gli afroamericani. Questi ultimi vivono in USA da secoli, liberi dal 1865 negli stati del Sud, da oltre 50 anni hanno visto cadere gli ultimi baluardi della segregazione dovuta alle leggi di Jim Crow. Ma non basta. Coccolati dai media e giustificati nella violenza, per gli afroamericani si arriva a disquisire sul fatto che se non vi sono attori e attrici di colore candidati agli oscar è perché sono discriminati, e quindi la cerimonia degli Academy Awards viene boicottata come avvenne nel 2016 perché i premi e i candidati erano “troppo bianchi”. Dubito che gli Italo-americani possano arrivare con coscienza ad affermare che se Pacino, De Niro o Scorsese non ricevono una nomination è perché qualcuno li ha fatti oggetto di discriminazione razziale.

Spike Lee e qualche altro illuminato afroamericano invece può, viene ascoltato e la sua verità riverbera ovunque dagli ambienti dell’Academy al ghetto grazie ad una pubblicità capillare, come quella che in queste ora mi arriva via email da Change.org, Moda Operandi e Sweat. Potrei non sapere chi è Floyd, non guardare la TV, ma ci pensano lorsignori ad informarmi sul razzismo dilagante e sulla crociata per la giustizia planetaria chiedendomi di firmare petizioni, di comprare capi di stilisti neri, o di versare soldi in nome della business diversity. 

Quindi nella neo-narrazione mediatica globalista se gli afroamericani sono più spesso di altri vittime negli scontri con la polizia non vi è nessun fatto reale che lo spiega, e neppure serve che vi sia. E’ sufficiente richiamare l’atavico razzismo dei bianchi che si incarna nelle forze dell’ordine che (si noti bene, tutte compatte includendo gli agenti di colore e di altre minoranze) vogliono i neri americani morti: la responsabilità ultima è quindi sempre esterna, di qualcun altro, del razzismo e della schiavitù. Del resto la manipolazione dei media su cosa sia e non sia razzista non è nata la settimana scorsa. Basti pensare a come Muhammad Alì, aka Cassius Clay, fomentava il pubblico contro George Foreman ben prima dell’incontro per il titolo dei pesi massimi del 30 ottobre 1974 a Kinshasa, Zaire. Per Alì, e per i media che gli facevano eco, tutto era incentrato su una sua vittoria che avrebbe segnato il riscatto del popolo nero, come se fosse una lotta contro i bianchi. Il “riscatto” sarà scandito da quel grido ripetuto “Alì Boma ye!”, “Alì uccidilo!” con cui i 60.000 dello stadio Tata Raphael, dove si disputava il match, accompagnavano i colpi di Alì all’avversario. Gran bei sentimenti e principi di giustizia dietro a un “uccidilo!”, e dell’evidenza che anche Foreman fosse nero, come lui stesso faceva osservare, non fregava a nessuno.

E quindi è giusto scendere in strada ed incendiare l’incendiabile, rubare il rubabile e mentre facciamo quel che ci pare sperare che domani alla presidenza sia eletto Joe Biden, in politica da 50 anni e nei palazzi del potere di Washington dal 1972, innovativo come un cimelio e politicamente libero come Kunta Kinte in catene. Il suo programma sulla giustizia farà miracoli, fino al prossimo afroamericano morto. Ecco, al limite quello che stupisce, ma neppure più di tanto pensando alla storia, è vedere partiti che non esitano a fare a pezzi la stessa società che affermano di voler tutelare pur di arrivare al potere.

 

Alessandro Guardamagna e Swordfish

06.06.2020

Alessandro Guardamagna lavora come insegnante d’inglese e auditor qualità a Parma. In precedenza ha ottenuto un PhD in Storia e un Master in American Studies presso University College Dublin, in Irlanda, dove ha lavorato e vissuto per 10 anni. Da sempre sovranista, scrive articoli di politica e storia su ComeDonChisciotte dal 2017.

Swordfish ha lavorato come impiegato pubblico in Italia e in Norvegia, con esperienza in campo legale, penale, e dell’immigrazione. Dal 2015 si è auto-confinato sul Mare del Nord per dedicarsi alla nautica, falegnameria, caccia e pesca.

 

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