Se a pagare è sempre il mondo del lavoro

LE MULTINAZIONALI DETTANO LA LINEA, I GOVERNI CHINANO LA TESTA E A PAGARE SONO SEMPRE I LAVORATORI, E SOPRATTUTTO LE LAVORATRICI

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Di Emilia Accomando, lafionda.org

Le Multinazionali stanno dettando da tempo la linea con la loro presenza nei Trattati di libero commercio e rappresentano quasi un terzo e oscuro convitato tra i due soggetti stipulanti.  I grandi Gruppi operano nelle segrete stanze del potere e stravolgono le politiche pubbliche, con un’azione civilmente dolosa e sono onnipresenti in tutte le attività economiche legate alla vita dei cittadini.

Tutto diventa un business, la salute delle persone, la natura, l’ambiente; si afferma la rapina dei territori e vengono calpestati i diritti dei lavoratori e soprattutto delle lavoratici.

1.In seguito al processo di internalizzazione dell’economia dagli anni ’90, la liberalizzazione dei mercati ha favorito la concentrazione del mercato nelle mani di pochi, le grandi compagnie transnazionali, un nuovo soggetto politico che, tramite i Trattati di libero commercio, travolge le politiche economiche pubbliche e tutela invece gli interessi dei grandi investitori. Le grandi multinazionali esercitano una forte attrattiva nei confronti degli Stati proprio per la loro capacità di investimenti, hanno utili crescenti e bilanci superiori agli Stati, ma i loro interessi non coincidono con quelli delle persone, di noi comuni cittadini: si fanno Stato e sottraggono sovranità alle nostre istituzioni.

Viene annullato quasi proditoriamente, con la firma degli accordi di libero commercio, il principio di precauzione, una tutela della salute per i cittadini europei, visto che ogni prodotto e ogni attività in Europa, non certo in Usa o in Canada o in Brasile, deve essere controllato a monte e non a valle.

E in questi Trattati vengono istituiti i Tribunali internazionali di arbitrato, Corti di una giustizia parallela, presso cui le Multinazionali possono citare in giudizio gli Stati che non garantiscono i profitti dei grandi gruppi: una privatizzazione della giustizia, supportata da studi internazionali di avvocati al servizio degli interessi dei grandi gruppi.

Vediamo qualche caso eclatante di “protezione” dei profitti per i più forti.

Un esempio eclatante, Westmoreland Canada Westmoreland Mining Holdings LLC contro Government of Canada

Danni richiesti, almeno $ 470 milioni di CAD (Canadian Dollar)

Stato Attivo, il Canada ha ricevuto l’avviso di arbitrato il 12 agosto 2019.

Regole arbitrali della Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale (UNCITRAL)

Il 20 agosto 2018, caso Westmoreland Coal Company, una società registrata nello Stato del Delaware negli Stati Uniti contro il Canada. La Westmoreland, che possiede Prairie Mines & Royalty ULC ed è incorporata in Alberta, dove è proprietaria e gestore di miniere di carbone, presenta una richiesta di arbitrato, il Notice of Arbitration (NOA) avviando il processo di arbitrato NAFTA (ambito del Trattato USA, Canada) il 12 agosto 2019.

Westmoreland accusa il Climate Leadership Plan (CLP) della Provincia di Alberta, che ha programmato di eliminare gradualmente tutta l’elettricità generata dal carbone entro il 2030; di conseguenza, è stata ridotta la durata della vita delle miniere di Westmoreland in Alberta e Westmoreland si è sentita trattata ingiustamente. Non si conosce l’esito della citazione.

Anche l’Italia è stata di frequente citata in cause arbitrali. In uno dei casi che ha coinvolto l’Italia, la condanna è arrivata per il taglio retroattivo agli incentivi sul fotovoltaico che l’allora governo Renzi effettuò con il decreto Spalma Incentivi. CEF Energia BV, società olandese, aveva investito nel nostro Paese in tre distinti progetti fotovoltaici (“Megasol”, “Enersol” e “Phoenix”), che hanno beneficiato di alcune agevolazioni. Il decreto Spalma Incentivi avrebbe ridotto il sussidio del 6-8%. Mentre decine di imprese italiane colpite dalla stessa misura hanno potuto fare ricorso soltanto alle corti nazionali, la società olandese ha potuto beneficiare dell’arbitrato, riservato agli investitori esteri. Nel 2015 ha sporto denuncia e nel gennaio 2019 è arrivata la condanna per l’Italia, sono stati pagati 10,6 milioni di euro

•        L’Italia ha provato a difendersi: una  sentenza della Corte di Giustizia Europea, infatti, aveva stabilito che l’arbitrato fra Stati membri era incompatibile con il diritto dell’Unione. Ma gli arbitri della causa CEF Energia BV vs Italia hanno fatto orecchie da mercante perché l’oggetto del contendere, in questo caso, non era il diritto dell’Unione ma una legge nazionale. Una interpretazione al limite e non condivisa da tutti e tre gli arbitri. Un’interpretazione che però rischia di fare letteratura, proprio quando si è avuto l’epilogo di un altro pericoloso caso ISDS, intentato contro il nostro paese ai sensi del Trattato sulla Carta dell’Energia: quello che ha visto la società petrolifera britannica Rockhopper chiedere fino a 350 milioni di euro all’Italia per averle vietato di trivellare entro le 12 miglia marine, ambito il Trattato sull’Energia. L’Italia ha salvato poi le coste per le proteste dei cittadini, ma ha dovuto pagare, conclusione agosto del 2021.

•        Dopo la Spagna, il nostro è il paese più colpito da una scarica di arbitrati internazionali nell’ambito del Trattato sulla Carta dell’Energia e sul finire del 2018 ha perso la causa: 7,4 milioni di euro da sborsare alla danese Greentech Energy Systems (ex Athena Investments) per aver cambiato la normativa sugli incentivi alle rinnovabili nel 2014. La Carta dell’Energia è in vigore dal 1998 ed oggi conta 48 paesi firmatari in tutto il mondo, più l’Unione europea e la Comunità europea dell’energia atomica. Secondo i dati ufficiali, per 11 volte l’Italia è stata bersaglio di investitori scontenti delle politiche pubbliche, pronti a recuperare denaro grazie alla clausola ISDS contenuta nel trattato.

2. Le grandi Società si fanno avanti in modo spregiudicato e non rinunciano all’idea di incamerare profitti, tanto più durante l’odierna pandemia. Il Covid-19 ha creato ulteriore ricchezza per i grandi gruppi e ulteriore miseria per i poveri. Solo negli Stati Uniti, dal 18 marzo al 15 settembre, la ricchezza di 643 soggetti è cresciuta complessivamente di 845 miliardi di dollari, mentre 50 milioni di lavoratori hanno perso il lavoro.

Prima tra le Multinazionaliguadagna Amazon, che ha avuto un aumento del 70% dei profitti da marzo a oggi, arrivando a contare 192 miliardi di dollari, profitto ottenuto con lo sfruttamento dei lavoratori impegnati nelle consegne, pagati in modo indecoroso. Circa 700 euro al mese.

Secondo due Ong che monìtorano le Multinazionali (Global Health Advocates e Corporate Europe Observatory), Big Pharma tre anni fa ha rifiutato la proposta dell’Unione Europea di lavorare ai vaccini contro agenti patogeni come il coronavirus, prima che la situazione esplodesse. Le due Ong sostengono che le multinazionali dei farmaci controllano miliardi della UE nella ricerca e relegano in secondo piano l’interesse pubblicoL’Efpia, la potente lobby dell’industria farmaceutica, ha sottovalutato l’impegno sulle pandemie e, già dal 2017, ha addirittura sconsigliato l’IMI, un partenariato pubblico privato, nel cui Consiglio di Amministrazione siedono funzionari della Commissione e rappresentanti delle case farmaceutiche, a finanziare progetti su preparazioni biologiche utili per combattere eventuali pandemie. Sempre pensando alla salute, la ricerca viene finanziata in gran parte dal pubblico, ma poi di fatto è commercializzata dalle Multinazionali del settore che, come abbiamo segnalato più volte, vogliono mantenere la proprietà del brevetto dei farmaci e i relativi introiti. Gravi le conseguenze non solo sul prezzo ma anche sulla disponibilità dei vaccini sul mercato.

E’stato più volte ripetuto il concetto di «global public good», di «bene pubblico mondiale», ma siamo ancora solo nel campo delle promesse. La salute della popolazione mondiale viene pertanto sacrificata sull’altare del profitto, mentre dovrebbe essere esercitato il principio della responsabilità da parte di chi occupa sedi istituzionali.

Le ricadute del Covid, oltre che sulla salute, appaiono sempre più di tipo economico e sociale. C’è chi diventa sempre più ricco. A dirlo l’ultimo rapporto pubblicato da Oxfam “La pandemia della disuguaglianza”, diffusa in occasione dell’apertura dei lavori del World Economic Forum di Davos.

Nei primi 2 anni di pandemia i 10 uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, passati da 700 a 1.500 miliardi di dollari, al ritmo di 15mila dollari al secondo, 1,3 miliardi di dollari al giorno. Nello stesso periodo si stima che 163 milioni di persone siano cadute in povertà a causa della pandemia. «Già in questo momento i 10 super-ricchi detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione mondiale, composto da 3,1 miliardi di persone. Se anche vedessero ridotto del 99,993% il valore delle proprie fortune, i super ricchi resterebbero comunque membri titolati del top-1% globale» osserva Gabriela Bucher, direttrice di Oxfam International, commentando i dati che emergono da “La pandemia della disuguaglianza”

Disuguaglianza e povertà non sono certo un tragico frutto di uno sventurato destino ma frutto di errate politiche pubbliche.

Dall’inizio dell’emergenza Covid-19, ogni 26 ore un nuovo miliardario si è unito ad un’élite composta da oltre 2.600 super-ricchi le cui fortune sono aumentate di ben 5 mila miliardi di dollari in termini reali, tra marzo 2020 e novembre 2021. Il surplus patrimoniale del solo Jeff Bezos nei primi 21 mesi della pandemia (+81,5 miliardi di dollari) equivale al costo completo stimato della vaccinazione (due dosi e booster) per l’intera popolazione mondiale.

3. Le Multinazionali sono poi presenti nei grandi progetti legati allo sfruttamento dei territori con l’appropriazione dei beni comuni, soprattutto l’acqua.

Ci si infiamma della realizzazione delle grandi opere come il  Tap, la strada del gas dall’Azerbaijan a Melendugno (in Puglia), ma si rimuovono i costi del danno ambientale indotto in Puglia, si ignora poi  il fatto che i profitti saranno della  Tap Ag, una società svizzera, oggi controllata da alcune multinazionali dell’energia, l’inglese Bp, la belga Fluxys, la spagnola Enagas, l’azera Az-tap e l’italiana Snam, per non dimenticare l’entrata di grandi gruppi  anche nella gestione del settore portuale: il porto di Trieste che ha visto l’ingresso di  una società tedesca, quello di Vado ligure una cinese e quello di Taranto che altrettanto probabilmente verrà affidato alla Cina.  Svendere il territorio sembra essere uno sport privilegiato da una classe politica senza responsabilità.

Per quanto riguarda il nostro bene comune primario, l’acqua, questa è sotto attenzione delle multinazionali del settore, stavolta prevalentemente nazionali. Stando agli ultimi dati disponibili, in Italia sono 307 le concessioni per fonti di acqua minerale, distribuite variamente su tutto il territorio. Di queste, se ne contano 113 solo tra Piemonte, Lazio e Lombardia. Il maggior numero di imprese è distribuito tra Centro, Meridione e Isole, ma sono le aziende del Nord a fatturare maggiormente, con incassi intorno ai due miliardi di euro. La quota di esportazione complessiva costituisce quasi il 33% del fatturato (1,3 miliardi, contro i 2,5 miliardi del mercato domestico). Con numeri di questo genere, l’Italia costituisce il nono mercato al mondo e il terzo per esportazione, contando su prezzi dell’acqua al litro tra i più bassi che esistano. Sono i numeri che emergono da un rapporto stilato da Mediobanca, che aggrega i dati economici e finanziari del triennio 2017-2019 delle aziende nazionali che nel 2019 superavano il milione di euro di fatturato, 82 in tutto. Le cinque aziende in cima alla lista costituiscono da sole il 66% del fatturato totale, mentre le sei imprese a controllo straniero valgono un fatturato di 1,5 miliardi di euro.

In testa il gruppo Nestlè (proprietario di Sanpellegrino) e il gruppo San Benedetto (cui fanno capo Nepi, San Benedetto, Guizza e diversi altri marchi) a dominare il mercato dei produttori, costituendo da soli ben un terzo della produzione italiana.

Un business da capogiro, maturato sulla commercializzazione di un bene fondamentale e naturalmente presente sul territorio, quindi di teorica proprietà della comunità. A ricavarne beneficio, tuttavia, sono ancora una volta solamente le multinazionali.

4. Gravi i condizionamenti riguardanti i diritti del lavoro, e in particolare il lavoro delle donne  

Lavoratori strozzati dal ricatto delle Multinazionali che vogliono mantenere immutati i propri profitti, con Confindustria che utilizza cifre enormi di denaro pubblico riducendo i costi del lavoro per aumentare i profitti. Evidente la mancanza di un ruolo dello Stato e del suo rapporto con il privato; ricordiamo che la Costituzione parla di una funzione sociale della proprietà privata, mentre noi assistiamo   ad un inaccettabile capitalismo predatorio.

Vedi, per esempio, le vicende GKN, con il fondo Melrose che acquisiva siti produttivi, li ammodernava con capitali pubblici e li rivendeva senza tutela per i lavoratori. Proprio la situazione gravissima della GKN, che prevedeva 347 operai gettati su una strada, è stata però esempio di una accanita resistenza dei lavoratori che hanno inventato modalità “forti” nella loro disperazione e sono, ben venga per almeno qualche caso sporadico, riusciti a mantenere il lavoro. Con la partecipazione del 74% degli aventi diritto al voto, 262 voti favorevoli, 2 contrari e una scheda nulla, è passato quasi all’unanimità l’accordo quadro raggiunto al Mise; un accordo sindacale avanzato e molto importante, raggiunto in un contesto politico sociale ostile, dove i rapporti di forza sono stati per anni (e sono ancora) a svantaggio dei diritti del lavoro.

L’elemento forte di questa risoluzione della vertenza è stata la vera democrazia partecipativa. Una comunità che per mesi si riunita in assemblea, si è autodeterminata, ha deciso, senza nessuna gerarchia, con una modalità collettiva e comunitaria, anche se ora non tutto è rose e fiori, dato che la reindustrializzazione comporterà lo svuotamento della fabbrica con ancora notevoli incertezze.

A subire gli impatti economici della pandemia sono soprattutto le donne che hanno perso complessivamente 800 miliardi di dollari di redditi nel 2020, un ammontare superiore al Pil combinato di 98 Paesi, e stanno affrontando sia pesanti rischi nella perdita del lavoro sia un aumento significativo del lavoro di cura non retribuito, che ancora oggi ricade prevalentemente su di loro. Mentre l’occupazione maschile dà segnali di ripresa, si stimano per il 2021 tredici milioni di donne occupate in meno rispetto al 2019.

5. E le multinazionali riescono ad ottenere accordi fiscali favorevoli dalle Organizzazioni internazionali, come denunciato da OXFAM

Nell’ottobre scorso, così come denunciato da OXFAM, nel corso del negoziato sulle nuove regole di tassazione delle multinazionali in ambito OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico), è stato stilato un documento che concede ai Paesi in cui le corporation più grandi e redditizie realizzano vendite, il diritto di tassare una quota dei loro extra-profitti, documento siglato da 136 tra i 140 Paesi partecipanti.

La concessione per i Paesi in cui sono presenti le Grandi società rappresenta un apprezzabile passo in avanti verso un modello di tassazione unitaria delle multinazionali.

 Ma l’aliquota minima cui assoggettare la base imponibile, ridotta da generose deduzioni per 10 anni, è infatti fissata ad appena il 15%. Un livello insufficiente – rispetto alle richieste di considerare un’aliquota nel range 21%-25%. Il misero 15%, se da un lato colpisce i Paesi come Bermuda senza imposte sui redditi societari, dall’altro normalizza il livello di tassazione in paradisi fiscali societari come l’Irlanda e Singapore.

In un momento storico caratterizzato dall’esplosione della povertà e dall’accentuarsi delle disuguaglianze, l’accordo si presenta come profondamente iniquo. L’OCSE e il G20 devono garantire ai cittadini di tutto il mondo equità, non certamente privilegi per i già privilegiati, in questo caso le Multinazionali.

6. E gli incidenti sul lavoro aggravano ancor di più una situazione a dir poco esplosiva, anche in FVG, una spia crudele della mancata sicurezza dei lavoratori

Se guardiamo in Italia tra il gennaio e il settembre 2021, sono stati 677 i morti sul lavoro registrati dall’Inail e ben 312.762 gli infortuni ai quali si aggiungono 33.865 malattie riferibili alle attività professionali. Numeri da guerra continua di cui si parla poco e spesso in maniera superficiale considerando quasi inevitabile questa strage. Ma in realtà la cronaca ci racconta che spesso alla base degli infortuni ci sono gravi carenze nella prevenzione quando non addirittura comportamenti dolosi. Inascoltate, ad esempio in FVG, le richieste di alcuni consiglieri regionali di opposizione tra cui Furio Honsell, da sempre sensibile al tema. Ultimamente è stata depositata una mozione sul tema della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro allo scopo di aprire una discussione in seno al Consiglio regionale FVG sulle azioni da attivare. I dati, anche in Fvg, parlano chiaro: nel primo semestre 2021, i dati raccolti da INAIL e altri soggetti esterni come CGIL dimostrano un preoccupante incremento degli infortuni e morti sul lavoro, si parla infatti di oltre 7.700 denunce di infortunio nei primi sei mesi del 2021 rispetto alle oltre 6.300 dell’intero 2020 e di 12 infortuni mortali nei primi sei mesi del 2021 rispetto ai 7 infortuni mortali registrati nell’intero anno 2020. Inoltre, secondo un’elaborazione dell’Osservatorio sicurezza sul lavoro Vega Engineering, la nostra Regione si posiziona tra quelle nelle quali le “morti bianche” incidono maggiormente in rapporto alla popolazione occupata e, in particolare, la provincia di Udine si colloca al 18° posto in Italia per incidenza di casi di mortalità sul totale degli occupati con 7 casi totali su quasi 220mila occupati, in controtendenza con il dato nazionale. A questo si aggiunge il dramma del caporalato, forma moderna di schiavitù, emerso anche nella nostra regione, come evidenziato da diverse inchieste della magistratura, e del lavoro nero, entrambi fenomeni che statisticamente si accompagnano a maggiori rischi per la salute e la vita stessa dei lavoratori, unitamente a minori tutele e garanzie in caso di incidente, stante anche il clima di omertosa criminalità che li caratterizza.

Conclusioni

La nota frequentemente espressa dal neoliberismo imperante, anche in Italia, sottolinea l’importanza dell’attrazione di capitali stranieri, ma i capitalisti stranieri entrano furbescamente nei Paesi; certamente non per aiutare l’economia di quello Stato o per offrire posti di lavoro, ma per impossessarsi delle fonti di produzione di ricchezza di quel territorio.

Speriamo che gli Stati prima o poi, con un atto di responsabilità, riescano a capire come sia essenziale oggi difendere la ricchezza nazionale contro un’astuta e invisibile politica economica che avvantaggia le Corporation, e sappiano agire di conseguenza,

Non è certo una guerra armata quella cui assistiamo, non si vogliono certamente occupare territori, ma si punta a sottrarne beni con il violento sistema delle privatizzazioni, spogliando lo Stato della sua funzione primaria di politica economica, rispettosa della protezione dell’ambiente, delle risorse di un Paese, dei diritti dei lavoratori, abdicando alla propria sovranità.

Di Emilia Accomando, lafionda.org

FONTI

Micromega, il Manifesto, ilfattoquotidiano, Oxfam, Corporate Europe Observatory, Global Health Advocates, articoli di Paolo Maddalena e Francesco Gesualdi, la Campagna StopTTIP Italia e le pubblicazioni di Monica Di Sisto e Francesco Paniè, articoli di Alberto Zoratti.

10.03.2022
Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org
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