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La Redazione

 

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Dal Neolitico a Marx- la storia di un sovvertimento di paradigma

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A cura di Zory Petzova
Il 8 Dicembre 2020
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di Zory Petzova

La storia remota del neolitico, vagamente ricostruita in base a reperti archeologici non facili da interpretare, appare un periodo estremamente affascinante, perché concede quel giusto margine di speculazione e congetture personalizzate, non estraneo nemmeno agli studiosi più rigorosi. In modo erroneo la narrazione ufficiale ha assegnato l’inizio della civiltà alla datazione delle prime fonti scritte, perché considera la scrittura un criterio primario di civilizzazione, legato all’economia di mercato e al controllo burocratico centralizzato, ma la mancanza di scrittura non testimonia un grado più basso di organizzazione sociale, anzi – essa può essere compensata da forme di relazionalità molto più creative e vitali. Ritrovamenti archeologici di periodi preistorici continuano a far emergere l’esistenza di società complesse, non prive di urbanizzazione, dotate di magnificenza ritualistica e sofisticate tradizioni artistiche (Perù, Messico, Mesopotamia, Valle dell’Indo, il bacino di Moravia, i Balcani ): società configurate a un ordine matrilineare, ossia organizzate in modo prevalentemente egualitario, senza tracce di gerarchie permanenti, di guerre e mezzi di coercizione. La parte più enigmatica del neolitico rimangono senz’altro i siti megalitici, in gran parte collocati sul territorio europeo – una prova della ‘superiorità’ di tutte quelle popolazioni, dovuta al semplice fatto di aver lasciato tante domande senza risposta.

In ogni caso, la mancanza di fonti scritte rafforza la componente suggestiva della visione del neolitico, richiama un po’ quell’eterna nostalgia alla Jean-Jacques Rousseau dell’innocenza primordiale, ma forse è proprio questo che Jung aveva chiamato “inconscio collettivo” – quella dimensione immateriale ma presente, dove ‘abitano’ i caratteri archetipici che strutturano tutt’oggi le varie personalità e profili psicologici dell’uomo moderno. Non per caso questa realtà, sicuramente più intuita che storicamente accertata, ha trovato risuono nelle teorie utopiste di comunismo sociale – a partire da Platone per arrivare a Fourier e Marx, fino al femminismo moderno di Simone de Beauvoir, attraversando con il leitmotiv dell’utopismo al femminile buona parte della produzione letteraria degli ultimi secoli.

Riferendosi alla preistoria, bisogna fare sempre la premessa che, nella ricerca del “grande quadro”, la tendenza a finire in costruzioni ipotetiche è inevitabile, ma ciò non toglie la capacità di illustrare la natura delle cose, più che la loro storia, basandosi sulle prove empiriche. Dal neolitico è stata ricavata una sufficiente quantità di reperti archeologici, molti dei quali trovati negli ultimi 50 anni, che dimostrano che la cultura patriarcale è recente e comincia ad emergere solo intorno al 5000 a.C., impiegando dei millenni per stabilizzarsi definitivamente. Quindi, se l’età dell’Homo sapiens dovesse essere rappresentata con il quadrante di un orologio, solo gli ultimi 5 minuti sono percorsi dalla fase gerarchico-patriarcale, o dal paradigma fallocratico, quello dei leader, dei guerrieri e degli imperatori, essendo questo ordine preceduto da decine di migliaia di anni di forme di organizzazione basate sulla centralità femminile, o quanto meno su una versatilità sociale, con periodi alternanti, spesso a ciclo stagionale, fra leadership maschili e femminili, che possiamo chiamare società di modello paritario o matrilineare (con linea di discendenza femminile): un lunghissimo periodo in cui gli uomini sono stati consacrati a culti, valori e credenze ispirati alla figura della Grande Madre e all’adorazione di tutto ciò che genera vita, il culto verso la terra e la sua generosità, da cui dipende tutta l’esistenza.

Anche il campo dell’antropologia (D. Graeber) conferma l’esistenza delle società paritarie durante il neolitico, ammettendo la non omogeneità della loro diffusione, il che però è ben diverso da doverle considerare una fantapolitica o miraggio metafisico. Anche perché fra le centinaia di reperti neolitici, ritrovati in diverse parti del globo, nessuno riporta un simbolo raffigurante la virilità maschile. Tutte le figure e statue parlano esplicitamente del culto verso il femminino, glorificato come unica fonte di vita; reperti da siti archeologici- dai Balcani alla Mesopotamia (incluso il ‘recente’ Gobekli Tepe), rappresentano la dea madre in un modo abbastanza simile: con fianchi larghissimi e seni appesantiti dalla gravità, accompagnata da una serie di simboli figurativi e di animali (con la prevalente presenza del serpente), funzionali al suo incontrastato potere, potere inteso non come dominio, ma come capacità di generare vita e abbondanza, in sovrapposizione con il potere della natura.

Diversi studiosi sostengono che nelle società matrilineari non esisteva la figura del padre, in quanto contava solo il legame biologico con la madre, e che l’assenza di simboli maschili come oggetto di culto si lega al fatto che non esisteva la proprietà privata, né la famiglia come istituzione, e né le gerarchie ereditarie: la comunanza dei beni e delle cose ha determinato la mentalità egualitaria, che a sua volta garantiva una convivenza pacifica e inclusiva (comunismo arcaico), il che rendeva superfluo praticare la guerra e la violenza, se non in rari casi di necessità. Non esisteva la separazione fra beni personali e beni comuni, così come non esisteva la differenza concettuale fra diritto e dovere, fra privilegio e servitù, in quanto i ruoli venivano contestualizzati e non cristallizzati: quello che oggi si chiamerebbe una società anarchica, o una società fluida.

Su scala strutturale le società erano organizzate in piccoli clan, tribù o domini (chiefdoms); a livello organizzativo avevano come referente per le controversie e le questioni private il membro più anziano della comunità (giustizia commutativa); tutte le decisioni di natura pubblica venivano prese collettivamente dalle donne che allevavano i figli (democrazia diretta). I figli venivano educati nella percezione sensitiva per tutto ciò che gli circonda. Sotto una tale educazione il cervello degli adolescenti veniva stimolato a sviluppare i neuroni specchio responsabili dell’empatia- il miglior strumento dell’altruismo sociale, le cellule celebrali venivano allenate alla produzione di alte quantità di dopamina, una potentissima droga naturale che potenzia la coscienza e porta in uno stato di estasi protratta, spesso praticato in sedute collettive. Dinamiche comportamentali del tutto opposte alla rigidità e alla contrazione psicologica causate dall’inibizione delle emozioni, che ha contraddistinto il sopravvenuto ordine patriarcale. Con l’imposizione del dominio della figura maschile viene abbassata notevolmente la sensibilità verso gli esseri umani e verso la natura, il che ha aperto il divario dell’alienazione, dove ha trovato terreno la nevrosi del potere: un fattore determinante nella selezione sociale che premia la propensione di rischiare la vita per ottenere riconoscimento individuale, e quindi premia la prassi bellica, con la rispettiva riduzione in schiavitù dei prigionieri di guerra, ossia – le origini della diseguaglianza sociale.

La dea madre, presente come culto in tutte le società a partire dal paleolitico fino all’età classica, era simbolo dell’unità di tutte le forze esistenti in natura e delle sue fondamentali funzioni: fecondità e generazione di vita, custodia e cura della vita stessa, trasformazione dell’energia dal basso verso l’alto, rigenerazione dello spirito attraverso il movimento ciclico fra nascita e morte. Era la mediatrice fra il genere umano e l’universo. Nel paganesimo la dea madre trasformava la materia in qualcosa che sostava su un piano più elevato, un piano spirituale, come una specie di distillato ottenuto dal substrato della materia: in tal senso la figura femminile era un’alchimista connaturata, una operatrice esoterica a beneficio della comunità.

In base di reperti e narrazioni antiche è evidente che, dovunque sulla terra, alla donna arcaica erano attribuiti dei poteri magici spesso in antitesi fra di loro: donna sacerdotessa, ma anche strega malefica; sciamanna, vigente e portatrice di saggezza (saggezza impressa dall’esperienza e non un sapere astratto), ma anche la somministratrice di veleni e di sostanze inebrianti, del filtro magico, la pozione d’amore, l’elisir del sonno, così come della pozione della morte. Tramite formule segrete e riti magici la donna elevava l’energia maschile a un livello di esistenza sublimata, iniziandolo al potere della creatività. Ma la figura femminile non era solo una trasformatrice verso la luce e l’amore, aveva anche un lato oscuro, quello di essere distruttiva e di poter divorare sia i propri figli che gli amanti, in sintonia con l’ambiguità della natura che a volte distrugge cecamente la vita, per ricrearla di nuovo in un ciclo senza fine.

Sul piano pratico e lavorativo, in un contesto combinato fra nomadismo e agricoltura sperimentale, la donna svolgeva un’infinità di funzioni, era il vero motore dell’economia arcaica perché si occupava di ogni aspetto della vita: generava e allevava i figli, ma si occupava anche del cibo, della casa e del focolaio domestico, della preparazione del vestiario, della semina delle colture, della raccolta dei frutti e delle erbe curative; coltivava delle arti, ma era anche un’abile allevatrice. Sul ricco panorama di tutte queste attività femminili, la figura maschile vantava meno funzioni indispensabili- quella della caccia e della pastorizia, dell’accoppiamento e dei lavori che richiedevano maggiore forza fisica.

A questo punto viene spontaneo chiedersi: nelle condizioni di un quadro sostenibile e vantaggioso per tutti, come quello delle società naturali, dove l’uomo era ‘servito e riverito’ senza farsi un gran carico delle necessità della comunità, cosa è che ha suscitato in lui la volontà di rivalsa nei confronti dell’ordine naturale, cosa è che ha messo in azione quel processo lento ma determinato di capovolgimento di un paradigma di società olistica, proficua ed equilibrata per instaurare un paradigma di dominio patriarcale alienato dalla natura, insediato nelle città e propenso alla violenza e alla guerra? Ma oltre tutto a una rappresentazione distorta e insofferente dell’esistenza, dove l’innato impulso alla libertà ha portato a una sempre crescente diseguaglianza sociale, che sorta una volta, non è stato più possibile sradicare.

Quel passaggio in realtà è durato diversi millenni, il che dimostra la solidità del modello matrilineare e il fatto che sia stato difeso anche dagli uomini, ma nelle dinamiche sociali è sufficiente l’innesco iniziale di un piccolo nucleo sovversivo perché esso si propagasse e a macchia di leopardo conquistasse dimensioni sempre più vaste. Da dove sarà partito quel nucleo, quell’incipit che ha riprogrammato il paradigma sociale delle popolazioni europee?

Una delle risposte dovrebbe essere cercata nell’avvento della civiltà sumerica di tipo urbano e delle sue ramificazioni, una civiltà che segna una specie di spartiacque sia per l’introduzione della scrittura e dell’amministrazione centralizzata, che per le acquisizioni tecnologiche e le conoscenze scientifiche in notevole discontinuità con l’evoluzione agraria e olistica delle società naturali. Culturalmente quasi tutte le civiltà del Mediterraneo hanno avuto la loro radice, o una forte influenza, nella civiltà sumerica, e nella maggior parte di esse si denota la presenza di una gerarchia verticale del potere, dove il dominio maschile convive con quello femminile, e dove, anche nelle tradizioni di culto, c’è una paritaria presenza di divinità di entrambi i generi. Non solo, ma nella cultura ellenica (e per riflesso anche in quella romana) tante delle abilità ritenute oggi esclusivamente maschili erano personificate da divinità femminili (Artemide- la dea della caccia, Atene- la dea della conoscenza, della guerra e delle arti, Sofia- la dea della saggezza e della spiritualità). Allo stesso tempo però nella cultura ellenica fa ingresso una tipologia di divinità che nella preistoria non esisteva.

Si potrebbe dire che fa apparizione una caratteristica nuova- quella della verginità, della purezza femminile intesa come castità, che si pone quasi in antitesi con la fecondità poliedrica della dea madre delle origini, ma allo stesso tempo tale verginità viene associata alla maternità, anzi- ne diventa la condizione. (Atene e Artemide sono vergini, simboli della purezza, e allo stesso tempo madri.) I greci non solo separano le due funzioni- quella di madre e di amante, ma le rendono antitetiche. Questa caratteristica trapasserà successivamente nel cristianesimo attraverso la figura della Vergine Maria. (In realtà, il culto cristiano nasce come un impianto polimorfo che si impossessa di tutti i simboli, riti e festività matriarcali e pagani preesistenti, inclusi quelle indoeuropee, e, al contempo, di tanti concetti spirituali e metafisici originati dalla cultura ellenica, incluso quello di maternità verginale.)

Un fatto interessante è che nelle tradizioni orientali, compresa quella semita, non è mai esistito il culto della verginità; in tutte queste culture la divinità femminile comprendeva il ruolo dell’amante, dispensatrice di piacere, ed è curioso che proprio i greci abbiano avuto per primi il bisogno di elevare la verginità a modello, motivo per cui possiamo ritenere questa novità quell’incipit di cambiamento di mentalità che influenzerà in modo determinante la cultura dell’Occidente nei secoli a venire. Il nuovo valore della purezza femminile fa sostituire la libertà e il permissivismo della sessualità, vigenti nelle società arcaiche, con la sua colpevolizzazione attraverso la codificazione dei peccati e delle punizioni, come la dannazione agli inferi (il mito di Persefone). In modo approssimativo possiamo desumere che la causa del cambiamento del modello culturale, e successivamente di quello sociale, si radica nell’età classica della civiltà greca.

Per quanto riguarda le cause geopolitiche del sovvertimento del modello matrilineare, esiste la teoria di una nota antropologa- Maria Gimbutas, che sostiene che la causa è da cercare nelle popolazioni antiche provenienti dall’Asia centrale chiamati Kurgan (antecedenti alla civiltà sumera) – tribù nomadi di matrice particolarmente aggressiva. Essi si distinguevano per la rigorosa gerarchia patriarcale che era dovuta alle difficili condizioni naturali da affrontare, dove la donna era considerata un peso da mantenere e per questo veniva tollerata esclusivamente per la sua funzione procreativa. Gimbutas presuppone che tali tribù, in ricerca di risorse, abbiano conquistato vasti territori, instaurando il loro modello patriarcale di stampo aggressivo e misogino. Si presuppone che le propagazioni dei Kurgan abbiano colpito fondamentalmente le zone della Russia, dell’Anatolia e dell’Iran, ma altri studiosi, basandosi su ricerche genetiche, affermano invece che i Kurgan non siano mai esistiti e che per quanto riguarda il patriarcato, non si tratta di una particolarità razziale o etnica, ma di un modello culturale indotto da cause eccezionali. In effetti, tante tribù nomadi, alcune delle quali conservatesi fino ad oggi, come i popoli del deserto Tuaregh, sono di ordine matriarcale, quindi le difficoltà del nomadismo non sono necessariamente associabili a una struttura patriarcale.

Nel quadro complessivo dell’evoluzione del genere umano, credo che la causa del sovvertimento culturale debba essere cercata nello sviluppo della ragione strumentale, ossia di quella capacità intellettiva razionale che si rende sempre più funzionale (e quindi dominante) allo sviluppo economico della società, sviluppo storicamente legato alla scoperta dei metalli e la loro lavorazione. Il sovvertimento di paradigma è dovuto all’avanzamento della componente tecnologica come trainante economico e di standard di vita, e quindi evolutivo, che è di appannaggio prevalentemente maschile. Il matriarcato tramonta definitivamente con l’avvento dell’età del ferro (1200 a.C.). Ne forniscono una prova illustrativa lo studio e la conoscenza della civiltà etrusca.

Gli etruschi, insediatisi nelle zone di Lazio e di Toscana circa nel IX sec. a.C., hanno lasciato dei reperti archeologici che dimostrano in modo evidente il passaggio dal modello di società paritaria, quindi matrilineare- senza governo centrale, senza difesa degli insediamenti e senza tracce di guerra, verso un’organizzazione sempre più differenziata socialmente, con emergenti aristocrazie che traggono il loro rango superiore dall’accumulo di ricchezza fondata sulla proprietà privata della terra e sulle implicite strategie belliche, ma a loro volta le azioni belliche sono connesse alla scoperta del ferro e alla sua lavorazione a fini bellici. Gli etruschi sono l’ultimo popolo del Mediterraneo che ha adorato la Grande Madre arcaica, prima di entrare nella fase dell’appropriazione della terra e dell’azione bellica per la conquista di nuovi territori e risorse. Nel momento in cui la terra viene alienata dalla natura per diventare un bene di possesso, parallelamente all’accumulo di oggetti preziosi provenienti dal Medio Oriente (i primi scambi commerciali), lo diventa un bene di possesso anche la donna, sempre più inferiore socialmente e soggetta all’arbitrario dell’uomo.

Ma esiste anche un motivo di natura psicologica (che poi diventa di natura giuridico-morale) del superamento del modello matrilineare, che riguarda la questione della paternità e il diritto della sua rivendicazione da parte degli uomini. Nata come intuizione, questa mia ipotesi ha trovato conferma negli studi di alcuni antropologi che riguardano la scoperta della funzione del liquido seminale maschile (Bronislav Malinovski, Jacques Dupuis). Sembra che nell’epoca arcaica le donne fossero venerate perché venivano considerate le creatrici della vita dal nulla. Le donne non solo si accoppiavano liberamente con gli uomini, ma la società non dava alcuna importanza funzionale al liquido seminale maschile, affinché “da qualche parte” ne è arrivata la conoscenza che esso era ugualmente importante per la creazione quanto lo era l’organo riproduttivo femminile. Una volta divenuti consapevoli del proprio ruolo nel concepimento della vita, gli uomini hanno deciso di riprendersi il loro merito, e quindi hanno sviluppano il desiderio di dominio. La consapevolezza della loro virilità trova sublimazione nell’azione bellica come suo attributo e nell’aggressiva fermezza con la quale impongano alla donna regole di comportamento, fra quali il matrimonio e la fedeltà matrimoniale come garanzia della paternità biologica dei figli.

La stessa storia di Adamo ed Eva può essere interpretata come il racconto mitologico di questo passaggio, un passaggio legato all’acquisizione di una nuova consapevolezza (l’albero della conoscenza) che cambia totalmente la vita della popolazione adamitica – una conoscenza trasmessa da una figura presentata simbolicamente dal serpente che probabilmente riguardava il funzionamento degli organi sessuali, il che spiega il cambiamento del comportamento dei due protagonisti, i quali dopo la rivelazione coprono la loro nudità. Questo episodio ha permesso ai teologi cristiani di inserire successivamente nel racconto della Genesi l’elemento della mela come simbolo del peccato, in realtà simbolo dell’annunciato tramonto del matriarcato e l’inizio della condizione di sottomissione della donna, l’inizio di una prigione della stessa energia femminile. (La mela è interpretata come simbolo della prigione elettromagnetica intorno alla terra da parte dell’astrofisica Giuliana Conforto.) La storia di Adamo ed Eva segna simbolicamente la perdita dell’innocenza e della felicità, dopo di che ogni cosa sarà conquistata con “sudore, dolore e sangue”, nonché, in quanto inserita nella cronaca storica del popolo di Israele, segna l’avvento del monoteismo ebraico yahwista, che successivamente darà vita ai monoteismi cattolico ed islamico, monoteismi che priveranno la visione del mondo dal equilibrio dialettico degli elementi, sostituendolo con l’assolutismo di un ‘dio’ prepotente e ambizioso, portatore di sofferenza e di crudeltà, di cui le scritture anticotestamentari, e successivamente quelle del Corano, ne danno un abbondante numero di prove narrative. Ma il vecchio testamento cela anche delle tracce di nostalgia per un passato matriarcale. In Geremia (44,16-18) i giudei esprimano la loro avversione al dio Yahweh e dichiarano di non voler dargli ascolto, e di voler bruciare incenso alla Regina del cielo, come hanno fatto i loro padri, i loro re e i capi delle città… “Allora avevamo pane in abbondanza, eravamo felici e non vedevamo alcuna sventura; ma quando abbiamo cessato di bruciare incenso alla Regina del cielo…abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame.”

Nel corso di tutto il medioevo occidentale, svoltosi sotto l’influenza teologica e dottrinale del cristianesimo, si osserva un’inversione di realtà, dove i protagonisti delle diverse sfere gerarchiche patriarcali cercano sistematicamente di cancellare tutte le tracce rimaste da antichi culti e tradizioni femminili per sostituirli con i simboli maschili: le pratiche esoteriche diventano di appannaggio maschile, plagiando in modo maldestro le antiche formule di donne curatrici e maghe, mentre la Santa Inquisizione persegue le donne che segretamente praticano conoscenze antiche, marcandole come figlie del demonio. Nei suoi simbolismi teologici il cristianesimo si appropria della trinità coniata al maschile del “padre, figlio e spirito santo”, presa ‘in prestito’ dalla trinità del culto femminile che esprimeva le tre fasi della vita della donna in sintonia con le tre fasi lunari, ma il colmo dell’appropriamento indebito è il travisamento semantico del concetto di sacro graal, attribuito dalle varie leggende medievali e movimenti esoterici al sangue di Gesù, quando nell’antichità questo concetto era riferito al ciclo mestruale della donna che rifletteva con matematica precisione la sua connessione con il movimento della Luna. Il sangue mestruale femminile, antico simbolo della vita, nei monoteismi assume l’accezione negativa di qualcosa di sporco, mentre, allo stesso tempo, nella dottrina cristiana la concezione del seme maschile assume il significato di qualcosa di divino, tanto da fornire un ulteriore motivo per considerare la donna solo una mera incubatrice.

Per lunghi secoli è stato totalmente ignorato il ruolo procreativo dell’ovulo femminile, divenuto noto solo nel 1827 grazie al biologo tedesco K. Ernst von Baer. Un sostenitore del culto del liquido maschile è stato Tommaso d’Aquino, ma le sue idee vengono riprese da Aristotele che nella “Politica” elogia il seme maschile come espressione della divina potenza creativa attribuita all’uomo, il che conferma la svolta maschilista del pensiero filosofico greco, che è una svolta del principio logico-razionale contro quello intuitivo-trascendentale. In realtà, oggi sappiamo che la buona riuscita della fecondazione dipende quasi esclusivamente dalla qualità dell’ovocita femminile, ed è sempre la donna il fattore primario della procreazione della vita, perché è sufficiente il seme di un uomo solo per fecondare cento donne, ma cento uomini non potranno mai avere figli da una solo donna. La non riconoscenza del primario ruolo creativo dell’elemento femminile è implicito nei monoteismi, a causa dei quali le donne subiscono nei secoli una sistematica discriminazione anche nella possibilità di accedere al sapere, all’arte, alla cultura, al pensiero libero e all’autonomia di decidere di sé e del proprio corpo.

Nel Seicento il Romanticismo segna una breccia nello stato di minorità e anonimato della donna grazie alla nascita del genere letterario romanzesco che valorizza la figura femminile come obbiettivo di aspirazione e conquista amorosa da parte dell’uomo (nobile e cavaliere), attingendo categorie archetipiche da mitologie e fiabe antiche. La letteratura e l’arte preparano l’emancipazione della donna anche su piano teorico, dove il filosofo francese Charles Fourier è il primo a concepire un’utopia al femminile, associando la liberazione della donna alla critica della società borghese e del capitalismo come sistema di produzione alienante e schiavista. Fourier è il primo pensatore che elabora il concetto di parità di diritto, applicandolo alla sessualità femminile come paritaria a quella maschile, e criticando la monogamia matrimoniale imposta prevalentemente alla donna. Le idee utopiche di Fourier vengono integrate da Marx nei suoi scritti di comunismo critico, ma è necessario ricordare che entrambi i filosofi si avvalgano dall’influenza culturale di Platone e della sua utopia femminista della città ideale della comunanza delle donne e dei figli (l’unico modo per evitare gelosie ed egoismi), contenuta nel quinto libro della Repubblica. Purtroppo quello di Platone è un punto di vista piuttosto maschile che strumentalizza, invece di emancipare, la donna, rendendola soggetto e non parte attiva della comunanza, una contraddizione che viene annotata anche in Marx, non risparmiandogli critiche perfino da parte dei comunisti più radicali. Con astuta retorica Marx riesce a sottrarsi alle critiche, sottolineando l’ipocrisia e il perbenismo del matrimonio borghese, e affermando che anch’esso realizza una comunanza di donne, solo che cattiva, perché donne assoggettate (le mogli e le proletarie da sfruttare), a differenza della comunanza buona del comunismo che emanciperà la donna dalla proprietà privata e dal matrimonio, considerato da Marx una forma di prostituzione ufficiale.

Il tema del matrimonio e della condizione della donna nella società ritornano con forte impatto circa un secolo dopo nell’esistenzialismo di Simone de Beauvoir. Secondo il pensiero della filosofa francese, che potrebbe essere definita la pioniera del femminismo moderno, la visione che la società ha della donna è distorta, in quanto la donna viene considerata sempre in relazione all’uomo, e quindi del matrimonio. Motivo per cui de Beauvoir condanna il matrimonio, affermando che si tratta di un’istituzione perversa, corrosa alle fondamenta, dove il fallimento non è colpa degli uomini ma dell’istituzione stessa. Quello che viene preso di mira dalle femministe è sempre il matrimonio borghese, dove il pragmatismo dei bourgeois ha voluto unire in un unico spazio tutte le sfere vitali, non lasciando alla donna tempo ed energia per realizzarsi al di fuori di questo spazio. Il matrimonio è visto come un modo per domare l’esuberanza della donna e per assicurarsi che il suo eros non diventi né troppo spento, né troppo ingombrante, e dove la norma della monogamia serve a soddisfare solo il bisogno di mediocrità e il quieto vivere. De Beauvoir introduce nella filosofia esistenzialista il concetto di indeterminismo psicologico, di non identità sessuale alla nascita e dell’ambiguità ontologica che accompagna l’esistenza di ogni uomo. E in questo modo contribuisce a preparare il terreno teorico e ideologico del movimento LGBTQ.

Oggi siamo immersi in una società estremamente sincretistica, dove i monoteismi religiosi persistono come fattori culturali senza aver riportato alcuna revisione nel loro antiquato dogmatismo dottrinale, nonostante l’oramai secolare conquista dello stato laico, monoteismi che nella stessa società occidentale convivono con l’ideologia gender che si basa su principi opposti. I monoteismi continuano a consacrare le gerarchie maschili, vigenti sia nella politica che nei consigli d’amministrazione di aziende e corporazioni, dove la presenza di figure femminili non è un segno di cambio di paradigma, perché il dominio maschile non consiste nell’esclusione delle donne dal potere, bensì nella conversione della donna ai modelli mentali maschili. Modelli che promuovano la competizione e la scarsità, e non la solidarietà e l’abbondanza, per cui anche quando a titolo di propaganda politica vengono invocate idee socialiste e comuniste, questo testimonia solo l’ambizione degli uomini alla conquista del potere, e non una reale propensione alla giusta redistribuzione della ricchezza. Inoltre, a favore della mentalità maschile opera anche il crescente dominio della tecnologia, che coinvolge e omologa indistintamente tutti i componenti e tutte le energie psicofisiche della società.

Malgrado abbia creato un effetto polarizzante sul dibattito civile, bisogna riconoscere che il movimento femminista, che prende forma negli anni 60, è stato l’unica forza che su piano politico e legislativo è riuscita a ottenere risultati concreti e decisivi nel merito dell’emancipazione della donna. Oggi però il femminismo, insoddisfatto di sé, dichiara che l’emancipazione definitiva può avvenire solo mediante l’annullamento ideologico del corpo sessuato. Solo cancellando la diversità biologica si può giungere all’uguaglianza con l’uomo e, dunque, alla fine dell’intollerabile supremazia del maschio. Secondo i postulati femministi di ultimo grido lo sviluppo della realizzazione personale e sociale deve procedere senza essere condizionato e bloccato dall’identità sessuale. Alle cariche professionali e politiche deve accedere chi è all’altezza del compito, al di là della sua fisionomia biologica: la differenza sessuale è solo una definizione naturalistica che non contiene più uno spessore culturale e intellettuale, quindi solo eliminandola non si ricadrà più nei vecchi stereotipi.

Paradossalmente la liberazione della donna arriverà attraverso la destrutturazione della natura stessa. E ciò non dovrebbe sorprendere, perché conferma quanto siano state problematiche le relazioni fra i due mondi, con una antologia storico-culturale traumatica e indelebile, segnata da una profonda conflittualità reiterata che, anche se integrabile a livello individuale, socialmente non potrà essere superata senza l’omologazione bio-psico-fisca dei protagonisti. Ma d’altronde questo è il motore di quel costrutto dinamico chiamato umanità, quel laboratorio sociale dove è l’innaturalità a essere stata sempre il potente strumento dell’evoluzione, perché l’evoluzione della specie umana è sempre avvenuta contro natura, non si è mai curata dell’istinto di sopravvivenza e ha sempre scelto di essere altro da sé.

 

 

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