Di Diamante Nigro
A sentirlo raccontare sembrerebbe l’uovo di Colombo, la soluzione capace di mettere d’accordo la passione e la presenza affettiva dell’Altro (all’uopo scisso in molteplici altri) dopo oltre duemilacinquecento anni di storia amorosa dell’occidente costellata di tentativi insoddisfacenti. “Passione” e “presenza affettiva” accostati costituiscono l’ossimoro che da sempre l’amore romantico cerca di coniugare, trovando in questo il suo “ubi consistam”. Oggi il poliamore, praticato dal 3,5 – 4% delle persone che si autodefiniscono poliamorose, cerca di risolvere in maniera nuova l’anelito a queste due dimensioni “decostruendo creativamente l’amore romantico, sabotando il patriarcato, mettendo al centro il desiderio nella non-monogamia etica, apertamente dichiarata ai partner”. Quel che si vuole è avere più partner da amare, passionalmente ma anche affettivamente, ed essere “corretti”: dichiararlo apertamente. Cioè, raccontare magari al partner reputato gerarchicamente più “legato a sé” rispetto agli altri ogni dettaglio delle proprie avventure.
Ma procediamo con ordine. Nell’amore romantico classico, i due termini passione e sostegno affettivo dell’altro convivevano per paradosso, cercando di convogliarne la realizzazione verso un unico partner e di concretare con lui un progetto attorno a cui si imperniava un’intera esistenza. Dedizione, impegno, idee, progetti per la vita personale e della famiglia venivano tutti basati su di un partner. Impresa pressoché utopica…
Il primo polo dell’amore romantico, la passione, come da etimologia si consuma solo nel pathos. Essa ha come radice il patire una mancanza, un’impossibilità al possesso dell’altro, un non averlo; la prima esperienza che ne facciamo nella vita è durante la costellazione edipica, quando ci viene interdetto il possesso dell’amatissimo genitore dell’altro sesso. La passione tende a placarsi quando subentra l’appagamento, “l’abitudine” tanto vituperata a suo tempo dal cantautore Giorgio Gaber; cioè, quando l’altro che ci sta accanto è talmente “nostro” da sembrare un libro di cui conosciamo ogni frase… e allora occorrerebbe un salto per farci uscire dal cliché: un tradimento? Una fuga?
“La sfioro teneramente
con due baci indiscreti
poi mi domando se sian baci
o inadeguatamente i miei gesti consueti.
L’abitudine, l’abitudine…”
“Versi” oramai antichi, questi di Gaber negli anni Novanta, alla luce dei nuovi modelli di oggi. Pregni d’antiche schiavitù, dubbi, pudori, paure, vuoti di creatività, essi raccontano la difficoltà di vedere nell’altro conosciuto il mistero che gli è proprio… di recuperare per lui lo sguardo del poeta, per cui ogni istante dell’Altro è storia nuova, come nel primo giorno.
La difficoltà era quella di sentirsi all’altezza dell’ideale culturale sovrumano dell’”amore eterno”. Sovrumano, sì, ma in esso, così come in ogni ideale “sovrumano”, si cela la nostra possibilità d’essere pienamente uomini. Cioè, altro rispetto a ciò che imporrebbe il determinismo biologico animale.
Il secondo polo dell’amore romantico è il sostegno affettivo: esso si dà nel quotidiano esercizio del tifare l’uno per l’altro, del raccontarsi, dell’accogliersi… “finché morte non ci separi”… E’ di conferme, spiega lo psicoanalista teorico del narcisismo Hainz Kohut, che anche il soggetto adulto non può fare a meno, così come di una mutua appartenenza che fa di noi “cosa dell’altro” (“oggetto-Sé”) e viceversa. Siamo sempre oggetti, prima ancora che soggetti: questo è un concetto inaccettabile per ogni narcisista. Inoltre, egli non tollera la sofferenza che sempre dà il dipendere dall’altro: dimensione dalla quale il soggetto maturo entra ed esce con serenità, alternando quote di dipendenza dall’amato a momenti d’insopprimibile affermazione di sé.
Lo sappiamo, nella coppia “romantica” tendenzialmente monogama abbiamo freudianamente barattato la “felicità” pulsionale dell’orda primitiva, del centauro o del satiro per un po’ di sicurezza; ma forse l’abbiamo fatto nell’illusione di una felicità più grande, che gli antichi avrebbero denominato “gioia”. Che piccola, grande gioia è tornare a casa dopo giornate in cui a volte, travolti da qualche sconfitta – quelle sconfitte che arriviamo a concettualizzare, una volta superate, come solidi mattoni della nostra dignità – a volte, dicevo, ci risulta impagabile il tornare a casa e veder spuntare dietro la porta i volti adoranti, forse anch’essi un po’ obnubilati da stanchezza e ingenuità, di una moglie e di figli… per i quali noi siamo degli “eroi”, mentre il resto del mondo ci crede dei poveri stronzi. Olografie stucchevoli? Miracoli dell’idealizzazione e dell’affetto, sostenuti dall’ormone ossitocina? Certo. Ma anche frutto di decisione e tenacia nel sostenere l’altro a noi legato da un “patto per la vita”, patto che va oltre il ”qui ed ora” e inventa la grandezza, la durata, e osa il futuro. Per inciso, il “qui ed ora” sembra essere l’unica dimensione di cui questa contemporaneità è conscia, non avendo essa conseguito né la “costanza dell’oggetto” né la “continuità dell’esistere”, per citare due concetti cardine della psicoanalisi.
I nostri bisnonni risolvevano l’ambivalenza attraverso la “doppia morale”: la passione vissuta dall’uomo con la concubina o, in maniera scissa, nella casa di tolleranza, e la presenza costante accanto alla compagna di vita cui si dedicava il lavoro e si portava lo stipendio, ma con cui si dava avvio a qualcosa d’”eterno”. Lei diventava un po’ angelo, un po’ modello intoccabile per i figli… sacrificando gran parte del sé pulsionale. Era amore “per forza”, “per sempre”.
Grazie a maggiori benessere e cultura, i nostri nonni si cimentarono nel tentare d’unire i due poli dell’amore, l’avventura del corpo e della psiche, del sogno, della fantasia e il desiderio di progetto, complicità, quotidiana poesia. La fedeltà diventava un dono, un lusso, un’isola di santità in un mondo di profana follia. Anche la sessualità diventava qualcosa di diverso da quella che scaturiva dalla trasgressione: era il “compenetrarsi, il reciproco contenersi e accogliersi, il poter entrare l’uno dentro l’altro senza paura. All’emozione sessuale dell’“esser dentro” corrispondeva la possibilità emotiva di contenimento, in un senso di insieme corporeo e psicologico: potersi lasciare andare senza la paura di perdere se stessi per sempre, perché c’è un’altra persona capace di accoglierti e di contenere il tuo abbandono (Simona Argentieri).
I nonni più giovani, i cosiddetti boomers, andarono oltre questi vincoli e queste possibilità; alcuni sperimentando le “coppie aperte”, altri mettendo in crisi la coppia tradizionale, altri concedendosi, sia sul versante femminile che maschile, tradimenti per “portare fuori” dalla coppia di lunga durata alcune dimensioni di sé, complice la nuova possibilità del divorzio, introdotta in Italia nel 1970. La ricerca più profonda e “disperata” fu quella di un’autentica pariteticità che non smentisse il piacere dell’esser donna, dell’esser uomo: un dialogo aperto, senza gerarchie, rispettoso delle differenze e capace di celebrarle, nel recupero del messaggio del celeberrimo brano tratto da “Lettere a un giovane poeta” di Ranier Maria Rilke:
“Anche amare è bene: poiché l’amore è difficile. Volersi bene, da uomo a uomo: è forse questo il nostro compito più arduo, l’estremo, l’ultima prova e verifica, il lavoro che ogni altro lavoro non fa che preparare. Per questo i giovani, che sono principianti in tutto, ancora non sanno l’amore; lo devono imparare… Se resistiamo e prendiamo su di noi questo amore come fardello e tirocinio, invece di perderci in tutto quel gioco frivolo e lieve … allora forse un piccolo progresso e un certo sollievo saranno percettibili a coloro che verranno molto dopo di noi. E questo amore più umano somiglierà a quello che noi lottando con fatica andiamo preparando, l’amore che consiste in questo: che due solitudini si proteggano, si limitino e si inchinino l’una innanzi all’altra.”
Il nuovo modello poliamoroso di oggi non tollera la lentezza dell’apprendistato, il quale ha chiara la dimensione progettuale e irreversibile del tempo, che il poliamore vuole invece fermare in una sequela d’istanti sempre diversi ma non progettuali, un “present continuous” non scevro d’attimi di numinoso incantamento. Il poliamore non trova un senso alle cose difficili e dolorose come l’amore romantico, con tutte le sue ambiguità, i chiaroscuri, le ambivalenze, i tumulti del cuore, le bugie… i sotterfugi. Esso non è per lui, che edonisticamente non vuole soffrire, poiché alla sopportazione della sofferenza non è attrezzato, mentre di tutto vuole godere.
A suo dire, soprattutto vuole abolire gli odiosi vincoli del patriarcato, che in questo caso imporrebbe di amare una e una sola persona per volta. E’ una lotta sempre curiosa agli occhi del profano, questa ubiquitariamente propugnata contro il patriarcato. Viviamo infatti in un mondo caratterizzato da una sorta di “matriarcato primitivo di ritorno”, in cui allo strapotere delle madri non si oppongono figure maschili, vuoi per via dell’evaporazione della figura paterna, della legge o delle verità, vigenti nella nostra cultura fin dagli anni Settanta e fin dall’estremo relativismo del pensiero debole postmoderno, vuoi per via dell’instabilità famigliare di oggi. La madre primigenia, il cui potere è “illimitato” (senza il “nomos” del padre o di una figura altra che ne riduca lo strapotere affettivo) non permette al figlio l’individuazione e la separazione da sé, riassorbe il figlio mantenendolo nel regno dell’indifferenziato, delle “vite non vissute”.
Nell’utopia d’abolire la sofferenza, il poliamore fa piazza pulita della necessità di coniugare gli opposti e vuol disegnare un mondo solare, aperto, sincero, etico che abolisce ogni limite che si opponga all’espressione della pulsionalità. E’ difficile esser fedeli? Aboliamo la fedeltà. Sono curioso di altri partner? Non mi vieterò l’esplorazione. Voglio “tradire” ma non sentire il peso della colpa? Abolirò il concetto di tradimento. Sento un po’ di colpa comunque? Racconterò la mia avventura sessuale al partner, che non potrà che consolarmi come avrebbe fatto una mamma e rassicurarmi che non ho colpe.
L’unico divieto morale è dire bugie al partner. Il motivo di questo curioso “diktat” in un’universo senza legge – anomia amorosa – è presto spiegato: il poliamore non è altro che la restaurazione di un regime di “contatto” che rassicura il soggetto, non pronto al “drammatico” incontro con l’altro reale, contenendolo grazie a momenti puntiformi di fusionalità indifferenziata; esso lo mantiene in una situazione protetta da una pseudoaffettività di marca materna, in cui non deve sceglier nulla che lo differenzi, non deve rinunciare a nulla, non deve dimostrare d’esser nessuno, non deve avere su alcun altro alcuna reale responsabilità. Si simula un’accettazione incondizionata dell’altro cui si perdona ogni comportamento, proprio come fa la madre oblativa con il bambino dei primi mesi di vita; gli si perdona persino che ti racconti come e quando è stato eroticamente e sentimentalmente con altri, tradendo te. Questo puer aeternus non dovrà nemmeno assumersi il peso del tradimento, cosa che invece faceva il seduttore di un tempo, che aveva il coraggio di osare e rischiare un’avventura privata per appagare un’istanza sua di scoperta e libertà, che non faceva certo scontare al partner. Se tradiva “era un problema suo” e se ne assumeva le conseguenze. Nel poliamore, perciò, si può fare di tutto, ma guai a non dirlo all’altro, la “mamma sostitutiva”. Pena la perdita della sua fittizia benevolenza indifferenziata.
Il poliamore non riesce tuttavia a risparmiare ai suoi adepti la profonda sofferenza dei mai amati, dei traditi, dei gelosi. Un dolore sordo buca la coltre di accettazione incondizionata, garantendo a tutti il ritorno di quell’infelicità che il modello poliamoroso voleva bandire.
In questa sorta di giardino d’infanzia perenne, dove la pretesa di fare ciò che si vuole ed esser comunque amati si scontra con la labilità della disponibilità dell’altro, si scopre presto un’amara verità: tentando d’amare tutti si finisce per non amare nessuno e per non essere, nessuno.
Nulla di male, per chi ha la sprezzatura del narciso o del seduttore edonista. Il modello comincia però a porre problemi a chi spererebbe di trovare in esso una realizzazione che vada al di là della moratoria psicosessuale giovanile: si può davvero crescere in profondità e grandezza, impegno, progetto, opere, donatività generativa di sé al mondo, in questo modo? Si può scriver storia, una storia con la “s” maiuscola? O si avrà soltanto una divertente e assai sofferta sequela di “incipit” promettenti, mai capaci di svilupparsi in una trama dotata di senso, quella trama arrischiante che si chiama vita?
Di Diamante Nigro