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A cura di Redazione CDC
Il 20 Settembre 2024
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Di Alceste

Roma, 18 settembre 2024

Per comprendere il futuro ho sostituito la palla di vetro con la pubblicità delle multinazionali. Si tratta di confessioni più che di propaganda. Al sacrificando, id est: noi tutti, si mostrano gli strumenti della tortura e dell’annientamento cioè la verità. La vittima, svuotata d’ogni anelito di sopravvivenza, il volto che s’apre alla riconoscenza, approva. Approva il proprio sacrificio. Quindi il Phersu scioglie le fiere della damnatio ad bestias del condannato oppure cala il coltello di ossidiana spaccandogli il cuore. Qualcuno provvederà a sbarazzarsi dei corpi. Tutto qua.
L’ultimo consiglio per gli acquisti di Amazon Prime (Concrete jungle ovvero Giungla di cemento) dura circa un minuto, trenta secondi in Italia. Esso mostra, appunto, una prigioniera, condannata all’esecuzione capitale e però felice di esserlo.
Il video è virato su toni freddi, grigio-azzurri, depressivo-scandinavi: beninteso, di quel nord liofilizzato, anemico e anomico che oggi impone il galateo del Nulla a tutta Europa. La protagonista è una ragazzetta di circa trent’anni, viso regolare dai tratti esotici, graziosa seppur non bella, di quella leggiadria esangue che si è fatta seriale in Occidente. Ella arriva in metropolitana, sola; e sola rimarrà; è nuova alla città tentacolare, dagli opprimenti skyscrapers, straniera in una terra ostile come l’agrimensore K. ne Il castello. Entra nel cubicolo, disadorno e abbuiato; il sole pare non esistere; l’unica fonte di luce è il visore che trasmette una serie americana del 2019, Good omens, in cui un angelo e un demone di nome Crowley stringono alleanza per scongiurare l’Apocalisse e la Fine dei Tempi, e imporre, forse, una Pace Eterna; ella mangia velocemente del cibo da asporto, scongiurate formalità come tovaglie, posate e bicchieri; disfa il letto, un giaciglio mascherato da divanetto; poi le dita scivolano sul visore i-phone: ordina dei vasi, del terriccio, delle piante, a comporre una minuscola serra. La condannata, infatti, crede che le piantine, simulacro della vita che non le sarà mai concessa, allevieranno l’ansia da cubicolo in cui l’oscurità s’annida negli angoli, minacciosa, come una bestia pronta ad aggredire; poi, sollevata più che lieta, si sporge dal balconcino micragnoso: la camera allarga l’inquadratura a mostrarci i parallelepipedi grigi, consunti dal kipple metropolitano,  rigati dalle colature acide di un cielo irredimibile.

Cosa notiamo qui? La pace, anzitutto, la pace eterna, entropica, le nozze fra cielo e inferno come buona novella, anzi come novella definitiva, una pietra tombale sulla vita. E poi la solitudine, inevitabile, ineliminabile, agognata, ma ritenuta, nel segreto del cuore, fonte dei più indicibili tormenti, orrenda. Il volto non tradisce questo conflitto interiore che la consuma, lento; anzi appare piacevole; ci accorgiamo, però, che solo la totale deresponsabilizzazione (lei avrà un lavoricchio nichilista e nessuna preoccupazione civile o politica) e l’assenza di retroterra storico e di gravidanze ne hanno preservato i lineamenti: che restano anonimi, seriali, come d’una neobambola Mattel.

Quale sottofondo musicale riconosceremo il Canone di Johann Pachelbel rimodulato, però, dalla scartina pansessuale Héloïse Adélaïde Letissier (Christine and the Queens). La trascinante melodia, quasi trionfale, simula un risarcimento fittizio: sì, ti do un cubicolo tetro e deprimente, ma questo in cambio di una completa de-responsabilizzazione epocale; in fondo ti ho liberata, come chiedevi!, dall’insostenibile peso d’una tradizione opprimente! Sotto un lirismo pop-barocco, quindi, si celano le sirene del disimpegno; ad accettare lo squallore, la meschinità monocolore, il nulla che risale gli eoni a nuovamente reificare l’uomo, a ridurlo a insetto d’alveare, a pietra, a microbo, a niente.

Quella ragazza avrà il coraggio di lanciarsi dall’alto per farla finita? Perché, noi pochi lo sappiamo, lei è già morta. “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”.
Non ha che da comprenderlo.
Prima o poi accadrà.

Una delusione, benché minuscola, magari una pianticella che muore, uno scippo sotto il palazzone in cui vegeta, l’hamburger di traverso che agevola una digestione depressiva … ai morti-in-vita basta una spintarella qualsivoglia … sono come foglie secche in autunno. Avrà il fegato di farlo? Oppure si rivolgerà alla Harpies Inc. per scivolare con dolcezza verso il nulla da cui ormai è invasa come da un cancro irrefrenabile? Sopprimere sé stessi, sì, questo sembrerà inevitabile, quotidiano, logico. Negare Dio equivale a negare la permanenza di sé stessi nel Creato; e negare, conseguentemente, il Creato stesso ci foggia quali individui fungibili, o cose, nello sterpaio infernale di un’esistenza insopportabile. Creare il Nulla da cui essere finalmente risucchiati: il capolavoro del progresso. E pensare che potrebbe essere stata felice, povera ranocchietta. Quanto amore avrebbe trovato appena più in là, dove i sortilegi e i malefici del Potere non hanno campo. Un luogo sublime e variopinto. E duro, certamente, violento, aspro, ingiusto eppure, proprio per questo, aperto alla vita, all’inesauribilità d’essa.

Se ci pensate bene è la soluzione finale. Quella vera, intendo. Persuadere al Nulla. Nessun vento di conquista, nessun conducator, niente sbraiti dal palco, nemmeno una goccia di sangue. Ci si estingue, accettandolo con una naturalezza spaventosa. Come altre volte ho affermato, il suicidio avviene sotto varie forme. La più diffusa è il vivacchiare. Si dorme, ci si sveglia, si mangia, si urina, si deiettano rifiuti solidi. Cosa residua? Ricerca di coiti e di di-vertimenti, soprattutto. I primi sono l’effetto della cancellazione della civiltà. Quando una cattedrale viene spogliata di guglie, rosoni, strombature, archi, pilastrini, volte, marcapiani, affreschi, mosaici, marmi, dipinti e stucchi cosa rimane? La brutale parodia di un edificio qualunque. Se all’amore, finemente codificato, gratti via la civiltà ti ritrovi l’accoppiamento, men che giudizioso. Che delude. E allora ci si illude di trovarne subito un altro. E poi di variarne la perversione. Sino a cadere nell’imbuto della progressione aritmetica che reca al polimorfo; alla cui sommità è il Nulla. E poi i divertimenti, per dimenticare. Il nepente dei viaggi, delle vacanze, dell’esotico, della meta inarrivabile: ghiacciai, isole, strapiombi. Per tacere dei paradisi artificiali. Il divertimento reclama il divertimento, l’importante è obliare la propria insulsaggine. Sino allo sfinimento. Si torna dai Caraibi stralunati. “Mi devo pigliare le vacanze per riposarmi dalle vacanze” è più d’una confessione. Il postmoderno è l’abiura della civiltà, il ritrovarsi nudi e meschini senza uno scopo. Si gioca online per ore, si chatta per ore, si rubano le ore alla notte per seguire un incontro di tennis e poi sonnecchiare a mezzogiorno: una delle massime perversioni al contrario che costituivano, infatti, il vanto della Milano da bere o dei vacanzieri di Ibiza, su cui Eliot vanamente ci ammonì (“Io leggo gran parte della notte/e d’inverno vado nel Sud”). E allora cosa più ragionevole di un suicidio? A meno che non arrivi un turbocancro, un proliferare incontrollato delle cellule di quel corpo che i coglioni avevano eretto a unico tempio. Un tempio brutalista, a dir la verità. Sfatto come cera al fuoco, inabile a qualsiasi sforzo, fisico e mentale. Un pezzo di carne qualsiasi che ci si illude di definire correndo insensatamente per i parchi o sollevando a ripetizione dischi da venti chilogrammi.

Persino Shylock ha rinunciato alla libbra di carne. Troppo sangue, troppa ostentazione. Si è limitato allo Spirito. Annichilito quello, Antonio gli si consegnerà mani e piedi, tutto intero, senza troppi strepiti. Felice quasi, se non che tale aggettivo sempre maschera la disperazione nel regno delle ombre del mondo al contrario.

Predire il futuro può essere suggestivo e arduo, al pari della comprensione del presente. Il passato, però, non è meno indecifrabile e ama svelarsi solo quando cambiamo il punto di prospettiva, a volte del tutto involontariamente. Solo allora una matassa inestricabile di eventi (un gomitolo di concause, direbbe Gadda) finalmente si dipana, a mostrarci senza impacci la brevilinea verità, banale.
Questa estate, doveva probabilmente essere il 13 agosto, mi son guardato – un poco distrattamente – la commemorazione televisiva di Emilio Sereni (13 agosto 1907 – 20 marzo 1977) in onda su RAI Storia.
Partigiano, scrittore, storico dell’agricoltura (a lui è dedicato un istituto tecnico su via Prenestina a Roma), dottissimo nelle lingue, anche preterite, ebreo (era fratello del sionista Enzo), comunista integrale e integerrimo.
Di Sereni poco deve importare. A rilevare sono alcuni punti della sua esistenza che, dettati con la massima innocenza nella commemorazione anzidetta, molto ci sussurrano su alcuni attuali fatterelli.
Li enumero, ognuno li legherà col filo di sutura che preferisce.

– Quale comunista e antifascista ebbe quale teatro della sua azione Parigi e Milano.
– La militanza del togliattiano Sereni fu d’acciaio; tanto che, nel 1956, si schiererà decisamente a favore della repressione sovietica dei moti d’Ungheria.
– Ricoprì il ruolo di ministro dell’Assistenza Postbellica sotto il democristiano Alcide De Gasperi; forse sarà in tale ruolo che favorirà, su suggerimento americano, il passaggio dall’assistenza ospedaliera cattolica a una laica, civile, statale.
– Quando, al principiare degli anni Cinquanta, l’amata moglie Xenia Silberberg si ammalerà gravemente egli la recherà in un’esclusiva clinica privata di Losanna, Svizzera. Vanamente.

Riassumendo:

Parigi, Milano, Losanna
De Gasperi-Togliatti
URSS-USA
Piano quinquennale socialista-clinica privata

Contradditorie frantumaglie di un disegno unico che, riassemblate col senno dell’attualità odierna, compongono sotto i nostri occhi increduli (gli “ochi nostri tenebrosi”) lo specchio delle allodole di ieri.

La Mostra del Cinema di Venezia, o meglio: La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica è sempre meno interessata al cinema e all’arte. Non le rimane che mostrare qualche divo bietolone o un’attricetta sventrata dalla chirurgia plastica o in fase di decolorazione a opera del politicamente corretto. Anche il divismo si fa nichilista, oltreumano. Oppure? Oppure mostrare le nuove pietanze ché i soldi, a livello infimo, muovono ancora gli scantinati italiani: le cucine della dissoluzione sono in azione a tutto fornello.
Ecco, quindi, lo sformato The brutalist, a magnificare l’architetto László Tóth, altro ebreo al contrario che abbindolò il solito goy persuadendolo a finanziare edifici suicidari. Oh, che genio! Oh, che storia! Ah, che interpretazione! I micchi e i critici di regime applaudono il film, poi, durante i TG, inorridiscono di fronte alle gesta della delinquenza minorile annidata nelle periferie metropolitane: che si forma, lo sappiamo, all’ombra del cemento povero (concrete jungle) e delle forme brutaliste dei palazzi della cintura. Ah, Scampia! Ah, Bastogi! Ah, Corviale!

Prima architettano orrori, poi si lamentano se nelle crepe d’essi strisciano fuori creature orrende.

E poi la tortina di zucca del vittorioso The room next door, di Pedrito Almodovar, abile a piagnucolare su una poveretta in agonia da cancro: un tumore alla cervice uterina, stavolta. L’attrice PolCor Tilda Swinton, già ricompensata con un Oscar per un filmucolo di second’ordine, sta crepando (tumore all’utero: simbolo, forse, di una auspicata sterilità della natura femminile?); Julianne Moore, altra pedina della correttezza apocalittica, si assumerà il ruolo di accabbadora, assistendola al suicidio. Lacrime. Tante lacrime autoriali. Brave! Che bel film! Un capolavoro, glielo dico io! È giusto, perdio, è giusto! Si ponga fine alle sofferenze! Ma no, è che noi in Italia siamo governati dal Vaticano! Basta, serve una legge! Tale il tenore delle notazioni a margine; cui posso aggiungerne una personale, onde rassicurare: non preoccupatevi! Se lo mostrano, alla Mostra, è proprio ciò che hanno in animo di fare! Suicidio, eutanasia, e di massa! Un massacro di massa! Ci sarà la fila ai sarcofagi del dottor Nitschke! Non spingete, una boccata d’azoto non si nega a nessuno!

I sarcofagi suicidari del dottor Philip Nitschke … non si dica che l’Avversario è privo di umorismo macabro.

Va di moda, pare, accapigliarsi per Matteo Salvini, uno dei tanti attori della inesistente politica italiana, oggi sotto processo a Palermo per sequestro di persona. Per citare il capitano Benjamin L. Willard, accusare qualcuno di sequestro di persona (sequestro di persona! In Italia, nel 2024!) è come fare contravvenzioni per eccesso di velocità alla 500 Miglia di Indianapolis. E qui termina la mia esigua difesa del grasso Salvini. Il quale, a sua onta, ha pure registrato un video in cui, emergendo da un fondale abbuiato e vittimista, si erge a paladino della Patria (io difesi i confini della Patria …). Il tizio che ha venduto gli Italiani con tutte le scarpe stava difendendo l’Italia … a suo dire … quando, invece, ben conscio che mai gli accadrà qualcosa di spiacevole, anzi: nulla che lo distragga di un micolo dagli agi sardanapaleschi di un’esistenza alla Nutella, non fa nient’altro che cercare di eccitare il tifo onde raccattare un pugno di voti. Voti liberaldemocratici, voti di poveri mentecatti. I quali ultimi, i mentecatti, intendo, pare che ci cadano con gusto; al pari degli antisalviniani, i più stupidi allocchi totius orbis. Insomma qui ci si divide ancora fra destra e sinistra, come se tali categorie fossero provviste di un grado ontologico effettivo e non siano dolose mascherature di naturali impulsi umani. Ognuno di noi nasce con precise complessioni fisiche e spirituali che si affinano nella comunità istituzionale di riferimento, familiare, religiosa, corporativa. Credere che le due accozzaglie di tangheri (centro destra-centrosinistra, liberali-dirigisti, progressisti-conservatori) che affollano i Parlamenti siano l’epitome di tali delicatissime inclinazioni, raffinate nei millenni, equivale a credere nei talismani antimalocchio di Màrio Pacheco do Nascimiento.

I documentari sugli animali. Più si vedono tigri in TV, meno tigri vi sono al mondo. Così per monumenti e beni storici. Sino alla fine dell’Ottocento Roma e le immediate sue campagne si costituivano quale museo e pinacoteca. Il Grand Tour di Byron, Goethe e Andersen, lasciata la Città entro le mura, godeva di un vagabondaggio estatico nei luoghi più romiti dell’agro ove riposavano resti possenti, casali riedificati su villae romane, torri medioevali, arcuazioni d’acquedotto, osterie, castelli nobiliari, mundus catacombali. Un secolo e mezzo di progresso massonico ha dilapidato un’opulenza magnifica ereditata dai millenni. Di ciò nulla resta se non qualche rudere isolato che nessuno, neanche i passacarte delle Soprintendenze, riesce più a connettere alla pristina forma urbis.
Roma da acquasantiera è divenuta portacenere, sentenziò Luigi Pirandello.
La Bellezza, perciò, si è ritirata nelle riserve, come i Dakotas o gli Shoshoni dello Utah. Ridotta alle angustie di una teca o messa sottovuoto in qualche scantinato presidiato da igrometri, delimitata da sensori di movimento. Si paga un balzello, si entra nelle rotabili obbligate ribattezzate “percorsi museali tematici”, si adocchia, si esce. Il popolicchio midcult, quello che scambia la musica per la devozione ideologica a qualche strimpellatore di RAI3, ne parlerà soddisfatto a qualche cena etnica; gli studenti non ne parleranno affatto, incapaci persino alla comprensione dei testi declinati nella lingua materna. Le Guide Ufficiali della Grande Cultura Italiana, sempre premiata dalle Cariatidi Massime della sedicente Repubblica Liberaldemocratica, si aggirano onuste di talleri e privilegi fra queste testimonianze di una civiltà che più non è. Michelangelo, Pompei, Populonia, Palazzo Farnese: non ne sanno nulla, ma chiacchierano, a colpi di ovvietà, strabuzzando gli occhi rivolti al pubblico: guardate qua! Com’è bravo là! Che magnificenza di sotto, che splendore di sopra! E il pubblico: minchia, è vero, che bello! Ma è tutto un teatrino che dura lo spazio d’un attimo. Assolto l’obbligo della meraviglia, la Grande Guida Culturale a Gettone, così come l’italianuzzo, si disinteressano a ogni cosa, volando alle Seychelles (il primo) o riprendendo ad accanirsi sui visori, a tifare, a litigare, a dissipare l’esistenza questionando su sciocchezze o masturbandosi grazie alle innumeri perversioni digitali (i secondi).

La Bellezza, nelle città, costituiva non solo l’arredo complementare al moderno, diffuso per decine di chilometri, ma sussurrava ancora all’orecchio degli abitanti di un passato che proseguiva entro le loro vene: i gesti degli Albo, dei Tarquini, delle Lucrezia e degli Acuzio si ripetevano all’ombra delle antiche città scomparse che col loro ossame sostenevano il presente.
Presto monumenti, lingue e retaggi che si credevano eterni svaniranno lentamente. Lo ius scholae, da approvare a breve nonostante le false e temporanee opposizioni, picconerà gli ultimi calcinacci, ché negri e bengalesi col Palazzo Farnese ci fanno la calce.

Lo stesso per la cucina italiana. The fork, wiki wiki eat, quattro ristoranti, bake off, dinner club, fatto in casa, cucine da incubo, be our chef, cooker girl; e poi l’insopportabile teoria di puristi, dal cacio di malga della Carnia al salume con tartufo di Norcia sin all’acciulleddi di Gallura, tutti infiocchettati e messi sotto vetro, a prezzi esorbitanti. Una farsa buona per il patriziato a venire dato che le legioni frequentano, in luogo dei quattro ristoranti, i quattro salti in padella mentre i teen non sanno friggere un uovo al tegamino. Per tacere della progressiva perdita di sapori: chi mangia più abitualmente fichi mandorle ciliegie cachi e castagne quale frutta di stagione? Meno parole, meno sapori, minore comprensione del reale. Anche questo è genocidio.

L’unico pregio di questo blog è che non invecchia troppo. L’attualità vi entra solo per confermare qualche ragionamento sub specie aeternitatis, maleche vada. O per qualche goliardata. Mai ci si impastoiò nelle guerricciole partitiche, o nella geopolitica che spiega al massimo sé stessa, o in alcuni pettegolezzi che tanto appassionano il miccame digitale. Perché qui domina il tifo, e il tifo è tutto tranne ragionamento. Scoraggiai, perciò, i partiti presi cercando di mostrare l’ineluttabilità del decorso delle democrazie rappresentative liberali, questi larghi imbuti che ogni passione e anelito accolgono per svuotarlo nella cisterna del pensiero unico. A volte m’infangai rimestando in qualche trogolo ove galleggiavano figuranti minori come gli attori parlamentari. E sapete perché? Perché la cinghia di trasmissione del potere ha comunque bisogno di queste scartine. Se un latifondista desidera alcune terre, briga per farle amministrare da rubagalline prezzolati che presto le recheranno alla rovina abbassando il prezzo e favorendo una compravendita senza sforzi. Se Amazon (per riprendere l’esempio) vuole investire nell’umanità da cubicolo prossimo venturo, il rubagalline di turno dovrà favorire questo decorso: magari con un leggina ad hoc sull’abitabilità locali da gnomi spacciata per astuta liberalizzazione e concessione ai padroncini. Il micco mangia l’esca, l’amo e il galleggiante aprendo le porte Scee al nemico, more solito. I rubagalline servono, come la serva di Totò. Anche qui fallì il vate Alberto Bagnai quando sentenziò: a cosa serve parlare di piccola politica, dell’onestà politica addirittura! Qui occorre rimuginare sugli squilibri macroeconomici! Sull’Europa! Sulla Germania che ci schiaccia! E invece tutti servono, anche gli gnomi del Senato e della Camera, il piccolo patriziato dei Comuni, delle Provincie e delle Regioni, tutti, poiché tutti al servizio dello stesso padrone. “Ci vuole un governo mondiale”, cicala uno; e un altro: “Nessuno può vincere questa guerra [russo-ucraina]” oppure “Nessuno ha mai detto che l’Ucraina potesse vincere questa guerra”. Tre dichiarazioni, tutte vere, da figurine di quinta fila dell’Ordine Unico Mondiale. E però son utili per avverare l’Ordine Unico Mondiale. E più stupidi, avidi, ottusi, inetti, marci sono, meglio è per l’Ordine Unico Mondiale.

Può darsi che i rubagalline neanche si accorgano di dirla, la verità. A esempio, che il conflitto russo-ucraino ha il compito di distruggere la Russia, di cui fa parte l’Ucraina, e di uccidere quanto più russi possibili. Una bazza per la Monarchia Universale poiché i massacri insensati, aizzati e inscenati contro la natura stessa dei popoli, sfiancano i popoli stessi. Dopo il milione di morti della Prima Guerra, dopo i cento tradimenti, l’Italia non è stata più la stessa. Si acconciò, quindi, a essere qualsiasi cosa, agita come un pupazzo da teatrino. Il 1940-43, infarcito anch’esso di tradimenti, fu un colpo di grazia più che una reazione. Il sangue versato contro natura si paga. E così accadrà per i residui fortilizi spirituali: Gerusalemme e la Persia, ormai istradati alla vicendevole devastazione. Anche loro per mezzo di statisti? Macché, di rubagalline. Venduti, fanatici, citrulli, laidi: perfetti, quindi, un po’ come la carta di identità di Mohamed Atta rinvenuta sotto le migliaia di tonnellate dei fumanti detriti delle Twin Towers. Dopo non rimarrà nulla.

La civiltà umana procede dappertutto allo stesso modo. Si forma preservando l’istituzione, qualunque essa sia. L’istituzione, a sua volta, preserva chi vi si affida poiché ne fa parte ab immemorabili. Improvvisamente un’impurità o uno scarto o un ribelle mettono a rischio tale costruzione; che reagisce, duramente, e prende a occultare ferita e cicatrice con una forma più bella. Tale l’azione dell’ostrica: una scoria imprevista, o un parassita o addirittura un malfunzionamento che mettono a rischio la vita del mollusco; la reazione al pericolo o alla malattia consiste nell’avvolgere continuamente l’intruso in una serie di sfoglie di madreperla; sanare l’imprevisto equivale a renderlo più bello, accettabile. Questa la civiltà. Quando il moto di sopravvivenza è stato sconfitto, dalla perfezione sferica della perla si è andati a ritroso, sino al pericolo e alla malattia; e alla scoria, dilavando quella pellicola mirabile che la occultava alla nostra vista. La moderna psicologia, la critica, l’erosione costante della pellicola sovrannaturale ci hanno resi, perciò, in-civili. Ci dibattiamo nella spazzatura morale e interiore, nelle scorie, cancerosi, privi di vitalità, disseccati. Ciò che si riteneva un “di più” era, in realtà, l’essenza madreperlacea che ci teneva in vita poiché la giustificava. La Bellezza, al solito, era indizio di Verità. Fermati, sei bello!, il grido di Faust, si rivela qui intimamente. Bello, giusto e, quindi, vero, di una verità che poteva fare a meno delle disquisizioni su sé stessa. E però … come arginare le rivendicazioni degli omiciattoli? Il crollo delle aristocrazie ha consegnato democraticamente intere plaghe dello Spirito a perfetti degenerati. Oggi si assiste al loro trionfo. Essi irrompono a legiferare sul Nulla, richiedendo incessantemente il Nulla, spacciato per eguaglianza e progresso. Il mondo al contrario dilaga sino a coincidere coll’intera realtà oggettiva e psicologica. Sbriciolate le mura, profanati i templi e i calici della vita, i colori più vivi sbiadiscono, sino alla scialbatura più estreme, al suicidio.

Leggo dal quarto volume della Storia confidenziale della letteratura italiana, di Giampaolo Dossena: “Dicendo poi concordanze si indica il repertorio alfabetico delle parole di un’opera, o di più opere di un autore, con indicazione dei luoghi relativi (per il Canzoniere di Francesco Petrarca, il numero della poesia e del verso) … Oggi è meno difficile di una volta trovare concordanze … Se, anziché una vecchia macchina da scrivere, usate un computer con un programma di scrittura decente, avete in casa le concordanze di quanto venite scrivendo. Io non ho ancora fatto il salto, ma ho visto amici miei che scrivono romanzi gialli schiacciare un tasto, e salta fuori l’elenco delle volte in cui è stato scritto per esempio ‘Eugenio’; schiacciando un altro tasto tutti gli ‘Eugenio’ possono diventare ‘Eduardo’, se così si è deciso.
Queste diavolerie progrediscono con una velocità alla  quale alcuni non credono. Da quando abbiamo a disposizione il CD ROM intitolato ‘La letteratura italiana’ … si possono fare più cose di quante uno sinora abbia potuto immaginare. Se ne scopriranno delle belle, se non arriva la fine del mondo”.

Dossena scrive queste cose nel 1994, o poco prima. Apprezzerete la naiveté con cui vengono accolte le prime commistioni fra studi umanistici e personal computer: le “diavolerie” che promettono chissà quali progressi, ancora una volta …
Cominciamo subito col dire che questa operina divulgativa è stata la miglior cosa mai scritta da decenni sulla oramai dimenticata letteratura italiana. Dossena ama sovvertire qualche gerarchia acquisita nelle scuole, mal sopporta le triadi che fanno di erbe di diversa qualità un unico fascio (Dante-Petrarca-Boccaccio, a esempio), va a pescare nelle province, gode dell’espressività dei dialetti, della cosiddetta letteratura minore, si appassiona alla antica topografia delle città. Distingue, scruta, giudica, valorizza, depreca.
Il computer applicato alle concordanze gli sembra buona cosa: “Se ne scopriranno delle belle”, egli dice; pur se aggiunge, col sesto senso della diffidenza che non l’abbandona: “Se non arriva la fine del mondo”.
Ma la fine del mondo è arrivata, pur diversa da quella che supponeva.
E come sempre, assai differente da quella hollywoodiana, assordante di esplosioni. Un a-sofa-lipse now. Un lento impigrirsi, un disfacimento casual; sino al crollo verticale nell’inazione. Un impudente chissenefrega. Sguaiato, compiaciuto.
No, il computer non c’ha fatto compiere progressi, il digitale, invece, ci ha liquidati del tutto.
Per un motivo assai semplice: quando allontani la materia dalla mano e dalla mente delegandola a Qualcosa d’Altro, quell’oggetto di studio che tanto amavi si allontana lentamente e irreversibilmente da te sino a costituirsi quale estraneo. Le concordanze con l’ausilio del PC potevano forse interessare i primi studiosi, ancora imbevuti di fuoco sacro; per quelli della Generation Z saranno un compitino come un altro, ammesso che ne ve siano di studenti e ricercatori in un prossimo futuro. Già oggi gliene frega poco e nulla poiché si è vaporizzata la passione che sempre si nutre dei cinque sensi: la familiarità fisica con il libro, la ricerca nelle biblioteche e negli archivi, i rapporti personali con gli insegnanti, la lezione, l’appunto scritto e rielaborato. Di tale mondo non rimangono, oggi, che alcuni monconi utili solo per la residua autoreferenzialità accademica e la forsennata ansia di pubblicazioni: monografie, saggetti, tesine. L’università s’è tramutata in una organizzazione a disinteressare irta di pdf, mail, curricula e powerpoint riuscendo a far odiare la materia stessa che si è scelta per inclinazione e affinità. Un poveretto esce quasi sempre stremato dal ciclo di studi; e se, per avventura, vuole perseverare, traverso master e dottorati, maturerà un vero e proprio disgusto verso ciò che amava e ch’egli ha visto scomparire gradualmente lasciando luogo a un doppelganger burocratico-digitale: incorporeo, respingente, alieno; da sfruttare per salire i gradi del cursus disonorum, ma di cui, smiagolata la pristina devozione, non importa più nulla.

A proposito della “fine del mondo” (leggi: finis Italiae), ancora Dossena, poche pagine più in là, basandosi su una ricerca dello statistico Antonio Golini, afferma: “Se la implosione demografica dovesse proseguire, prima del 2150 non ci saranno più Italiani, il che forse potrebbe essere un bene. Per quello che riguarda autore e lettori della presente storia, sempre che non arrivi la fine del mondo, l’Italiano sarà una lingua morta … le lingue e le culture muoiono, è una lingua morta il latino, sarà lingua morta anche l’Italiano”. Poi cita un “grande italianista”, il quale afferma: “Ormai ci si accosta a Petrarca e all’Ariosto come a Platone o a Menandro … Per un giovane d’oggi [1994] è altrettanto difficile leggere un Cavalcanti quanto un Bacchelli”.
Sono parole con cui potrei essere anche d’accordo se non per due punti. Il primo: non dovremo aspettare il 2150 e nemmeno il 2050; anzi, nel 1994, anno in cui vengono pubblicate tali parole, gli Italiani già non esistevano più, almeno quali punti di riferimento di una koiné culturale di livello europeo. La finis Italiae era fra noi. Il secondo: l’equivoco fra numero e aristocrazia intellettuale. L’Italiano, chiamiamolo così, per poter produrre opere degne dell’eternità dovette costituirsi in aristocrazia; e l’aristocrazia, per tramandarsi o essere compresa, ebbe sempre bisogno di educatori e alunni, maestri di bottega e allievi. Non è, quindi, un fenomeno inevitabile la decadenza e la scomparsa di una lingua e di un gusto, ma un sentiero che si è decisi a imboccare. Quando si abolisce la terza pagina, o vengono chiamati alle armi critiche un gruppo di sbandati casual, quando la scuola e le università statuiscono di “non” selezionare, quando cinema, teatro, ricerca storica e archeologica, sono finanziati direttamente dallo Stato (leggi: dai partiti) al fine di creare una cricca di obbedienti parassiti senz’arte né parte – allora siamo di fronte alla resa indecorosa allo Spirito dei Tempi.

Non ci saranno più Italiani, il che forse potrebbe essere un bene”. Tale affermazione una volta mi avrebbe scandalizzato. Una volta.

Così Ernst Jünger nell’incipit di Oltre la linea: “Nei passaggi iniziali della Volontà di potenza Nietzsche definisce se stesso come ‘il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso — che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé’. Subito dopo egli osserva che nella sua opera si annuncerebbe già un contromovimento che ‘in un qualche futuro’ prenderà il posto di quel perfetto nichilismo, benché lo presupponga come sua necessaria premessa. Anche se dal loro concepimento sono passati più di sessant’anni, questi pensieri continuano ad agire su di noi come uno stimolo, come proposizioni che hanno a che fare con il nostro destino. Nel frattempo si sono riempiti di sostanza, di vita vissuta, di azioni e di dolori. L’avventura intellettuale ha trovato conferma e si è replicata nella realtà.
Se rivolgiamo lo sguardo a quella dichiarazione dal punto di vista a cui ci siamo innalzati, sembra che in essa si esprima un ottimismo sconosciuto ad osservatori successivi. Il nichilismo non è visto come conclusione, ma piuttosto come fase di un processo spirituale che lo comprende in sé; una fase che non solo la civiltà nel suo corso storico, ma anche l’individuo nella sua esistenza personale può superare ed esaurire in sé medesimo, o magari coprire di nuova pelle come una cicatrice”.

Nietzsche, ovviamente, sbagliava. Assieme a chiunque avesse tale speranza. Il nichilismo non è un momento dello Spirito, è necessariamente la fine della pista, la putrefazione o corificazione irreversibile dello Spirito e della civiltà. Per tale banale considerazione: non ho mai visto la viltà risalire la corrente dei secoli e ridivenire la “gran bontà de’ cavallieri antiqui”; o le sciroppose scolature dell’action painting risolversi nella grazia definitiva del Parmigianino; e nemmeno le frittate ricomporsi nelle uova.
Accade l’esatto contrario.
Solo a confrontare un Italiano di mezzo secolo fa siamo presi dalle vertigini. Sebbene fosse già coniato in una materia vile, quest’uomo osava addirittura opporsi! Riparava automobili e biciclette, si sposava, aveva figli, sapeva coltivare persino le zucchine. In pieno 2024 si espellono dagli uteri sempre più stanchi delle Italiane dei poveri esserini ben presto fiaccati e castrati dai norcini del bene … si cammina, si parla e, soprattutto, si scrive con circospezione, per timore di offendere qualcuno o qualcosa. Un cane, un uranista, un congolese o una delle innumeri entità teriomorfe prodotte dal diritto universale usurario … Che il dibattito politico supremo della presunta e sedicente maggior democrazia liberale del mondo verta su gatti, cani e haitiani la dice lunga sulle preoccupazioni etiche dell’omarino attuale … d’altra parte fu addomesticato per questo, sin dalle fasce … in luogo della carità e dell’agape abbiamo le lacrime per Fido, Rover e Miomiao, incolpevoli oggetti delle attenzioni morbose dell’umanità più randagia e rognosa. Gli omettini postmoderni rimangono sempre perplessi di fronte all’esiguo spazio dedicato dalle maggiori civiltà che formarono l’Italia verso gli animali domestici … per quanto compulsino buccheri, pitture murali e bassorilievi non si rinvengono raffigurazioni significative dei tesorucci … ben altro occupava la mente dei ragazzoni italici, greci o etruschi. La guerra, la celebrazione del valore e del sacrificio, la musica e la danza, la magnificenza come testimonianza della grandezza della gens, soprattutto la memoria … che nulla del passato andasse perduto.

Narra Plinio (Nat. Hist. XXXV, 2): “I ritratti che si potevano vedere negli atrii degli antenati … erano volti modellati in cera che venivano disposti in ordine in singole nicchie per avere immagini che accompagnassero i funerali gentilizi e a ogni nuovo morto era sempre presente la folla dei familiari vissuti in ogni tempo prima di lui … gli alberi genealogici si allargavano con le loro linee ramificate conducenti ai singoli ritratti dipinti … neanche al compratore era consentito staccarle, cosicché le case continuavano eternamente a trionfare anche mutando i padroni”. Aggiunge Polibio (Storie, VI, 53): “Dopo la sepoltura e le cerimonie di rito, l’immagine del morto viene posta nel luogo più in vista della casa, in un sacrario di legno. L’immagine è una maschera di cera molto somigliante al defunto nelle sembianze e nel colorito. In occasione dei sacrifici pubblici i Romani espongono queste immagini e le onorano solennemente; quando muore qualche altro personaggio illustre della famiglia, le fanno partecipare alle esequie ricoprendone persone simili al morto nella statura e in tutta la taglia del corpo … Non è possibile per un giovane dabbene e amante della fama assistere a uno spettacolo più nobile e splendido di questo; quale infatti potrebbe essere più bello del vedere tutte insieme, quasi vive e spiranti, le immagini degli uomini che hanno ottenuto fama col loro valore? Quale visione potrebbe essere più alta?”.

Fingiamo nella mente queste scene, assolutamente grandiose. Intere mura occupate dai volti di cera degli antenati collegati a formare una genealogia impressionante; oppure processioni funebri in cui i morti più insigni ritornavano in vita im-personati dagli elementi delle generazioni più giovani: a formare, plasticamente, di fronte alla Città, l’evidenza assoluta e orgogliosa della stirpe.

“Persona” (lat.) dall’etrusco “Phersu”, maschera. Personaggio (dal volto travisato) col ruolo di carnefice nei ludi gladiatori funebri. In evidenza soprattutto nella Tomba degli Àuguri, presso la necropoli di Tarquinia.

Nella fase ascendente d’una civiltà un essere umano non è mai solo. Egli rileva quale particola di un qualcosa di eternamente vivo, in cui i morti sono venerati nella loro grandezza e quali ombre ammonitrici. Siamo con voi, essi sussurrano; siate degni di noi, intimano; solo a tal prezzo potrete ambire all’eternità.
Da ciò seguivano l’eroismo, l’onta e la passione civile.
L’attacco alle formalità funebri da parte del Nuovo Potere vuole, perciò, ridurre ad unum. La cremazione casual, l’abolizione del compianto cimiteriale e persino della comune commemorazione, sostituita gradatamente da Halloween, hanno quale mira l’abolizione della memoria delle gentes; oltre alla meschina esaltazione del corpo quale unico patrimonio: fardello da cui liberarsi, quindi, allorché risulti meno efficiente o più non serva all’edonismo spicciolo. Una reductio all’hic et nunc che fa pendant con tutte le pagliacciate americane (leggi: universali) sull’adolescente che se ne va al campus e, quindi, si rende “indipendente” dalla famiglia; sul lavoro zingaresco e mai stanziale (devi essere pronto a sfruttare ogni occasione, ne lasci uno a Firenze e ne trovi un altro a Palermo!); sulla svalutazione della proprietà e dell’istituzione; sulla flessibilità continua come unica e auspicabile forma di esistenza. Truffe su cui hanno battuto per decenni giornali, TV e opinionisti prezzolati.

Sorella Morte, rettamente intesa, è, invece, fonte di vita. Per questo tale immane regione psicologica infonde ancora paura al Potere che briga per espellerla definitivamente dal Nuovo Spirito dei Tempi.

Il compianto dei vivi è il risarcimento dalla morte.
Scrive Emily Dickinson:

Questa polvere quieta fu signori e fu dame,
e giovani e fanciulle
fu riso, arte e sospiro
e bei vestiti e riccioli

E questo inerte luogo fu la dimora estiva
dove api e fiori
il loro ciclo orientale compirono,
poi anch’essi ebbero fine.

Un ciclo ne apre un altro, con fare inesausto, perché inesauribile è la Vita; Essa crea e rinnova non solo i corpi, bensì gli entusiasmi, il valore, la forza. Reprimere tale impeto, a rinchiuderlo in un bozzolo disseccato, questo ciò che si trama.

Inutile cercare dirette cause del disastro. Circoscrivibili. Il Potere si è affinato, non agisce in tal modo. Esso si limita a cambiare i fondali dell’esistenza. Laddove lo sguardo e la mente può arrivare – lì è immancabilmente presente l’innaturale. Il progetto è totalitario, non si sfugge. Serie TV, dichiarazioni giornalistiche, social, recensioni. Anche le apparenti oasi sono sature di parodie della normalità. Il presunto ribelle si specchia nel conformista. La costruzione di un nuovo e onnipresente ordine innaturale (fisico, tangibile) induce lentamente alla trasformazione degli impulsi atavici, dell’immaginario umano. Senza prediche, persecuzioni, vere e proprie pressioni. Come in Deserto d’acqua di Ballard l’ambiente induce alla mutazione dell’interiorità: “Si crede di agire; in realtà si è agiti dai fondali psicostorici dipinti dal sabba dei persuasori occulti“. La continua deformazione del reale costringe l’anima a torsioni mostruose.

I recenti e  cruenti avvenimenti di cronaca nera (Moussa Sangare, Paderno Dugnano) correvano il rischio di recare qualche com-mozione al popolicchio residuo, oramai mummificato psicologicamente in una sorta di afefobia cui ripugna l’analisi veridica del reale. Per tamponare, quindi, l’eventuale ondata di indignazione (che non ci sarebbe comunque stata, ci tengo a dirlo) sono state mobilitate alcune ragazze coccodé, sedicenti criminologhe, a ricondurre sotto l’ombrello politicamente corretto tali malinconici eventi. Ben tre (3) diverse in due serate di telegiornale, addirittura. Un pastone da assistenti sociali da discount con tocchi di femminismo generico-piagnone e languida nostalgia dei valori (vaga e lacrimosa anch’essa). Un temino da liceali anni Ottanta, non troppo svegli, buttato giù furbescamente giusto per scantonare un benevolo 6; peraltro ipocrita perché i cosiddetti valori li hanno azzerati proprio loro. Non è mancato, poi, il presbitero da cerimonia. A proposito del triplice omicida: “Ho trovato un ragazzo fragile … con un dolore profondo dentro di sé”.
E pensare che l’Italia aveva i migliori psicologi del mondo. I Padri della Chiesa, memori della Classicità, avevano definito la psyché con lucidità impressionante e, soprattutto, prescritto i rimedi alle sue eventuali malattie. Quei rimedi che, oggi, sono derisi quale eredità patriarcale. E così ci ritroviamo gli sradicati, i déracinées, gli smagnetizzati, senza Patria e verso, senza passato e direzione. E questi impazziscono, improvvisamente, come in uno shooter da PC. Sono atti di sangue vissuti senza emozione, privi di passione. Ci si aziona come sotto ipnosi, a uno schiocco di dita fatali, inudibili a chiunque, a cercare di possedere vanamente ciò che non è più possibile rinvenire in sé stessi.

Titolo d’una gazzetta sedicente alternativa: “Tony Effe vince in amore con Giulia De Lellis e tra i tormentoni con ‘Sesso e Samba’. Le radio sposano Annalisa e Tananai, ma la guastafeste è Anna”.

Incredibile come si voglia ancora fare affidamento sui social per l’azione. Cosa si spera, di com-muovere il popolo? Ma il popolo non intende com-muoversi, gli piace stare sul divano a mangiare e bere merda. Si sottovaluta pericolosamente il consenso all’inazione. E un punto fondamentale: il panino del fast food, appiccicoso di neoformaggi squagliaticci e senapi purulente, spancottato, laido di umori irriferibili, di cui si rintracciano avidamente le briciole macchiate nei piatti di plastica, il boccone migliore!, a ingoiarle sino all’ultima mica, proprio quello è l’oggetto del desiderio. Non comprendere l’apostasia verso il peggio equivale a ignorare come funziona la macchina psicologica della dissoluzione.

Perch’ì’ no spero di tornar giammai
ballatetta, in Toscana …
tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m’abbandona

Si tratta di una delle liriche più note del Duecento italiano e, perciò, dell’intera nostra letteratura. Guido Cavalcanti è fuori della sua patria, Firenze, e dispera di tornarvi. Per tale motivo, di lontano, manda alla donna amata questa sua piccola ballata avvertendola di non mischiarsi alle maldicenze dei nemici che potrebbero travisarla. Dove si trovava Cavalcanti in quel momento? Alcuni dicono in Francia, altri a Santiago di Compostela, in pellegrinaggio, talaltri a Sarzana, in esilio, luogo ove trovò la morte il 29 agosto del 1300. Gianfranco Contini esclude tale ultima ipotesi; le notazioni sulla propria imminente fine, infatti, le riconduce alla personale poetica d’amore. Per Guido, infatti, l’amore non corrisposto reifica l’uomo annientandone l’anima sensitiva e vegetativa: in quel momento egli è un morto-in-vita, uno zombi:

Tu m’hai sì piena di dolor la mente,
che l’anima si briga di partire …
I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno

Un automa, insomma, cui non soccorre l’intelletto che può solo assistere a tale accesso di nerissima malinconia.

Più di seicento anni dopo Thomas Eliot, però, compone Ash Wednesday (Mercoledì delle Ceneri) in cui il verso iniziale (Because I do not hope to turn again) intesse simbolicamente l’intero poemetto.
Eliot l’intende nella forma espressiva più immediata e naturale: il testamento d’un uomo in fin di vita, scosso dalle febbri malariche, lontano dal luogo natale e dall’amata.
No, Guido più non rivedrà Firenze, né la sua donna.
Come lui anche noi stiamo morendo nei pressi di Sarzana.
Perché davvero in esilio, che lo si voglia o no, con la sensazione che mai potremo riguadagnare la Patria, la libertà e l’amore.
Siamo cenere, ciò che resta di un vasto rogo d’epoche, l’impalpabile cenere su cui avanzano gli invasori. La cenere è simbolo della caduta e della sconfitta, ma ci ricorda umilmente la sabbia, la polvere, la materia povera e indeterminata da cui prese forma questo mondo.

Perché il nostro compito non consiste nel salvare ciò che non può essere più salvato bensì di ricordare, e pensare oltre.
Ma chi, fra noi, avrà il genio e la forza di scrivere una poesia che tramandi il nostro ricordo, il calco di cera di ciò che siamo stati?

Di Alceste

Fonte: https://alcesteilblog.blogspot.com/2024/09/perchi-no-spero.html

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